Nuovi sviluppi sul caso Uva

giuseppe uva-adesivoE’ arrivata inaspettata la richiesta del nuovo PM Felice Isnardi di proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintenzionale per il carabiniere e i poliziotti imputati per la morte di Giuseppe Uva. Il PM ha invece richiesto il rinvio a giudizio con la sola accusa di abuso di potere per i sei agenti e il militare (uno dei carabinieri ha difatti deciso di ricorrere al rito abbreviato, e sarà quindi giudicato in altra sede).
Il 30 Giugno alle ore 9 si svolgerà la prossima udienza del processo, in cui il Giudice deciderà se procedere per tutti i casi di imputazione o se accogliere le richieste del PM. Per quella data è stata annunciato un presidio di solidarietà alla famiglia Uva fuori dal tribunale di Varese.
La richiesta del PM deve essere stata una vera doccia fredda per la sorella di Giuseppe, Lucia, da sempre in prima fila nel chiedere giustizia per la morte del fratello, e che per le sue lotte e dichiarazioni è stata anche denunciata per diffamazione, insieme al giornalista Mauro Casciari de Le Iene, al direttore di Italia Uno Luca Tiraboschi e al regista del docu-film su Giuseppe Uva, Adriano Chiarelli. A questa denuncia ha fatto seguito un processo, la cui prossima udienza si svolgerà a Varese il 26 Settembre, per cui la stessa Lucia ha chiesto il rito abbreviato.

L’Assemblea Antifascista Saronnese scende in piazza

Sabato 14 Giugno il centro di Saronno è stato attraversato da un colorato e rumoroso corteo indetto dall’Assemblea Antifascista Saronnese per protestare contro gli episodi avvenuti lo sctimthumb.phporso 25 Aprile. La manifestazione, che ha visto sfilare un centinaio di persone lungo le strade cittadine, è partita da Piazza Caduti Saronnesi e si è conclusa in Piazza Libertà con un presidio pomeridiano e con vari interventi proposti dai tanti comitati presenti all’evento.
Oltre alla tematica principale, ovvero la violenta repressione del dissenso da parte dalle forze di polizia e dall’Amministrazione Comunale lo scorso 25 Aprile, il corteo ha difatti portato in piazza una grande varietà di contenuti: dalla lotta No Tav a quella contro la Pedemontana, dall’uccisione di Giuseppe Uva alla critica ad Expo 2015, sino ad arrivare alla battaglia per l’acqua come bene comune ed alla lotta contro gli sfratti e per il diritto alla casa. Durante il passaggio per le vie del centro i partecipanti, guidati in prima fila dal grande striscione “Liberi di resistere”, hanno lanciato slogan in opposizione alla repressione poliziesca, per la resistenza quotidiana allo sfruttamento e alla devastazione del territorio e contro lo sdoganamento dei partiti neofascisti operato dalla Questura e dell’Amministrazione saronnese.

Orti al posto del cemento: fermare l’urbanizzazione e riportare la campagna in città.

Prenditi il tempo di vagabondare un momento per la tua città. Osserva i luoghi che la caratterizzano: palazzi, supermercati, uffici, banche, parcheggi… cemento a perdita d’occhio. Qua e là ogni tanto un raro parchetto unisce cani e uomini nella rituale passeggiata. Ma la terra, bruna, fertile, di quella neanche l’ombra. Chi è lo stolto che la cercherebbe qui, tra le piazze e i viali trafficati di una città? Sarà da qualche altra parte, fuori, lontano. Allora dovremmo chiederci da dove arriva tutto ciò con cui ci sfamiamo in città, perché col passare degli anni la produzione di beni alimentari si è delocalizzata. Le campagne, i boschi e i sistemi naturali che un tempo erano prossimi ai centri abitati e che ne determinavano la sussistenza, sono stati progressivamente ridotti e colonizzati dall’esplosivo processo di urbanizzazione ed oggi si trovano per lo più altrove, oltre le montagne ed oltre l’oceano, in Sudamerica o in Africa, e i loro frutti ci rag10338807_10203335492935359_1940888165_ngiungono grazie ad aerei, navi e camion. Considerato che 80 anni fa la popolazione mondiale contava 1,6 miliardi di persone e da poco abbiamo superato i 7 miliardi e che mantenendo questi ritmi di crescita, sospinti dai paesi emergenti, un giorno non troppo lontano anche quei luoghi saranno raggiunti dalle metropoli. E come oramai sappiamo dove arriva la città non cresce più nulla.
Il consumo di suolo purtroppo è un fenomeno più vivo che mai: secondo FAI e WWF in un rapporto presentato a fine gennaio 2012 e denominato “terra rubata, viaggio nell’Italia che scompare”, la superficie di terreno libero che viene occupato ogni giorno è pari ad oltre 75 ettari. Solo in Lombardia le nuove costruzioni di quartieri insediativi, industriali o commerciali o di infrastrutture, consumano più di 10 ettari di territorio naturale o agricolo al giorno (una superficie equivalente a 14 campi da calcio).
I nostri territori sono aggrediti costantemente da una espansione urbana senza controllo, con una compulsività che non trova alcuna giustificazione nell’inesistente crescita demografica o nella sovradisponibilità di abitazioni, ma piuttosto nelle trame speculative di palazzinari e banchieri, con la sovente complicità dell’amministrazione e in un quadro di disinteresse della cittadinanza.
Il processo di cementificazione deve essere arrestato ed invertito poiché il suolo è una risorsa non rinnovabile, troppo preziosa e scarsa per poterla perdere.
Ancora oggi pubblico e privato ricercano nel suolo unicamente il valore monetario creato dall’opportunità di costruirci sopra qualcosa. Strutture ed infrastrutture diventano fonti di rendita a prescindere dalla necessità sociale ed economica. Il suolo viene consumato a favore di un uso scriteriato e a discapito di tutti gli altri suoi potenziali usi, persino di quello alimentare. Come se ci potessimo cibare di calcestruzzo e denaro. Si è perso il senso della misura. Il criterio di valutazione ed il metro di giudizio con cui dovremmo fondare la nostra azione deve invece riconoscere alla terra sia un valore di esistenza che un valore rappresentato dalle numerose funzioni che può svolgere per sostenere l’uomo, l’ecosistema e l’ambiente. Questo criterio deve integrarsi nella pratica con un metodo di allocazione delle risorse diametralmente opposto ai tipici processi decisionali verticali, basandosi quindi sui principi di solidarietà e di orizzontalità e adeguandosi al concetto di scala. La scala locale, infatti, ha le dimensioni appropriate perché si possa avere una partecipazione attiva nella gestione del territorio, che si concretizza nella valutazione delle risorse locali e nella esplicitazione dei molteplici interessi sul loro uso attraverso, appunto, pratiche di partecipazione. Uno degli effetti positivi di questo tipo di approccio è che le conseguenze indirette di attività e consumi ricadono sugli autori delle stesse, senza che gli effetti vengano scaricati su terzi o delocalizzati in altri luoghi e paesi: in linguaggio economico le esternalità negative delle azioni individuali che ricadono sulla collettività in forma di danno ambientale o sociale diventano più facilmente individuabili in termini di causa e di effetto. Ad una migliore comprensione di queste dinamiche segue una accresciuta capacità di soppesare le nostre esigenze ed i nostri impatti sul territorio (la nostra impronta ecologica) ed inoltre di valutare in concreto la capacità del territorio in termini di risorse disponibili. Un azione collettiva che tenga conto di questi criteri è sulla buona strada della “sostenibilità” sociale ed economica
Nelle nostre città, nonostante l’aggressività dell’espansione urbana, sopravvivono spazi non ancora occupati, relitti sfuggiti alla cementificazione. Ebbene questi spazi devono diventare oasi di resistenza contro l’avanzamento del cemento. Anche se una reale inversione di tendenza richiederebbe uno sforzo ulteriore e quindi una riconversione degli spazi già edificati, qualora fossero ancora recuperabili (problema della non rinnovabilità della risorsa suolo), è necessario difendere strenuamente ciò che è rimasto e che potrebbe finire sotto una colata di cemento. Gli unici soggetti realmente capaci di poter fermare questo scempio siamo noi che viviamo il territorio e che siamo artefici del suo destino (e così del nostro).
Recentemente si sta affermando a scala cittadina un fenomeno piuttosto significativo che riflette nella sua essenza un cambiamento di esigenze e di interessi sempre più diffuso.
Gli orti urbani non sono certo una novità. Un buon numero di persone coltiva nel proprio giardino, in aree pubbliche o “franche” (come quelle ai lati delle ferrovie), per hobby o anche per cercare di risparmiare qualcosa sulla spesa. Meno scontata e conosciuta è invece l’esperienza dei cosiddetti orti collettivi urbani. La differenza tra le due esperienze è sostanziale e da queste differenze possiamo trarne delle considerazioni sulla preferibilità tra le due rispetto alla loro applicazione nelle aree pubbliche ancora libere dalla speculazione. Nel primo caso tutto si svolge nei limiti della sfera privata: dalla scelta delle piante alle tecniche di coltivazione, dall’utilizzo di erbicidi e pesticidi alla raccolta ed al consumo dei prodotti dell’orto. Nel secondo caso tutto si decide a partire dalla collettività che si occupa in concerto della gestione della coltivazione e del consumo. Il nocciolo della questione è che per quanto gli orti privati possano considerarsi come esperienze positive (quando non vengono usati pesticidi), poiché comunque spesso rivelano uno spirito di iniziativa e di autogestione spontanea, la parcellizzazione di aree pubbliche urbane in tanti piccoli orti-paradisi privati non è assolutamente un auspicabile utilizzo delle risorse comuni. Attraverso un orto collettivo ed autogestito invece viene realmente soddisfatto un fine importante del suolo pubblico: la soddisfazione, ancorché parziale, di un bisogno comune: l’alimentazione.
L’alimentazione è qualcosa di più che la dieta di un individuo; è un enorme business che muove risorse, uomini e terra. Il modello propagandato negli anni 60 come “Rivoluzione Verde” è oggi Il Modello Unico dei paesi occidentali ed è adottato in fretta e furia anche da quelli emergenti. Esso è caratterizzato dalla monocoltura e dall’alto input energetico totalmente dipendente dal petrolio attraverso l’uso dei suoi derivati (fitofarmaci e pesticidi) e attraverso la massiva meccanizzazione. Questo tipo di alimentazione ha creato enormi eccedenze da una parte, ma dall’altra ha causato depauperamento della fertilità del suolo, perdita di varietà locali, perdita di biodiversità, deforestazione, inquinamento delle acque e, nei paesi del Terzo Mondo, ha creato povertà ed iniquità. Un modello scricchiolante e destinato a collassare ma che ancora oggi è il sogno dell’industria dell’alimentazione che cerca in ogni modo e con ogni mezzo politico di inseguire il proprio profitto e che, per completare il quadro, oggi vorrebbe imporci anche l’ingegnerizzazione genetica.
In Europa la ricetta della “Rivoluzione Verde” è stata il leitmotiv della Common Agriculture Policy (CAP) fin dagli anni 60. Quando tuttavia le evidenze oggettive dei suoi danni hanno reso necessario affrontare i problemi da essa stessa generati, è stato inaugurato un nuovo indirizzo politico per il periodo 2013-2020, operando un po’ di make-up in stile green economy.
L’industria dell’alimentazione controlla la filiera dalla produzione alla vendita. Corporazioni come la Monsanto da una parte e grande distribuzione dall’altra vanno a braccetto per riempirci la pancia di alimenti di scarsa qualità e dall’elevato impatto ambientale. I Centri Commerciali sono l’esatto luogo dove avviene la magia: il consumatore compra acriticamente cibo in grandi quantità senza sapere nulla di come venga prodotto e di come venga trasportato. In questo quadro generale gli orti e tutte le iniziative affini rappresentano uno dei metodi sperimentabili e sperimentati per conseguire la liberazione dall’industria dell’alimentazione, attraverso l’uso di varietà locali, il lavoro collettivo e solidale ed il cosiddetto “km zero” (la scala locale).
Anche se l’obiettivo è quello di rendere locale la produzione e i consumi, è difficile pensare che un unico orto collettivo, per quanto grande, possa soddisfare le esigenze di una città di quasi 40.000 abitanti, cifra raggiunta da Saronno. Ciò nonostante un’esperienza del genere rappresenta di per sé un cambiamento di prospettiva fondamentale che permette di scongiurare mire speculative, di evitare l’impermeabilizzazione del suolo e di contribuire all’emancipazione dall’industria dell’alimentazione. In ogni modo gli orti urbani collettivi rappresentano un aspetto ed una espressione di più ampie ed articolate iniziative economiche e sociali accomunate da principi ecologici e di solidarietà. Solo a titolo di esempio, è attivo il progetto Spiga & Madia (sviluppato dal comitato verso il Distretto di Economia Solidale della Brianza) che ha lo scopo di verificare la possibilità di ricostruire una filiera di pane biologico interamente gestita in un territorio (la Brianza monzese) approssimativo di 50 km di raggio.

Uscire dal silenzio. Ma quale?

Il silenzio sulla storia di Giuseppe Uva è stato ormai rotto da tempo. Manca però ancora il racconto di una storia che è nostra, è altra, è tutto.

“A Giuseppe.
Io lo vidi, non lo conobbi mai e me ne dispiace.
Perché nel momento del bisogno, con lui non ero.”

Via Dandolo non era a Varese.
Nel 1816, il conte Vincenzo Dandolo “si fece promotore della realizzazione del primo ’Passeggio pubblico’ alberato di Varese…” “…il terreno era suddiviso in quattro filari ordinati e regolari, così da formare tre ampi viali, ombreggiati da ben 154 esemplari di piante esotiche ”. (Paolo Cottini – “I Giardini della Città Giardino” – Ed. Lativa – 2004 ). Quella che oggi si chiama, appunto, Via Dandolo, un tempo non era che lo “stradone che da Varese mette alla Madonnina ”. Percorrendolo ci si allontanava dalla città, per introdursi nella castellanza di Biumo Inferiore, vero e proprio nucleo indipendente dal centro medievale sviluppatosi intorno alla basilica di San Vittore.
Le castellanze sono state, ormai da decenni, fagocitate dal grigio uniforme di una città sempre meno a misura d’uomo e sempre più funzionale all’economia. Tuttavia, aggirandosi a piedi per questi antichi borghi, magari con la lentezza di chi non corre dietro all’ultima offerta pubblicitaria, è possibile indagare i segnali, a volte indelebili, spesso occultati, di un diverso passato: fra stretti vicoli e cortili, gli antichi edifici, più bassi che altrove, ospitavano case, officine, stalle.
Ed è proprio in uno di questi edifici che dal 1920, è presente la Cooperativa Unione Familiare, storico ritrovo negli ultimi decenni, dei giovani di sinistra, che il sabato sera, da mezza provincia di Varese, venivano ad intasare le scale di ingresso e quelle sul retro. Questo è probabilmente il ricordo più forte che molti hanno di quel luogo: seduti sulle scale, bella gente, pessimo vino. In quel luogo, magari a tarda notte, potevi facilmente incontrare Giuseppe Uva.

Panchine.
Torniamo ora in Via Dandolo, perché dei “154 esemplari di piante esotiche” del Conte Vincenzo, ora non rimane più molto. Tra semafori a due corsie e condomini borghesi, lo “stradone” è ormai dimezzato. Rimane un po’ di passeggio con i vecchi platani, l’edicola, le siepi. E basta. Non c’è più la fontanella né le vecchie panchine, sostituite da sedili monoposto a distanza di circa un metro l’uno dall’altro. Troppo comode, le panchine. La gente le usava, le viveva, sedendosi, baciandosi, leggendo, chiacchierando, mangiando, bevendo, a volte dormendo. Momenti comuni alla vita di ognuno.
Si possono ancora fare queste cose, in Via Dandolo, ma senza stare troppo comodi, senza sdraiarsi, senza poter appoggiare un sacchetto col panino, senza sciacquarsi le mani e la faccia alla fontanella, senza stare seduti vicini.
Niente panchine.

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«Sono panchine perfette che rispecchiano lo scopo per il quale le abbiamo volute» dichiara l’assessore al verde pubblico Stefano Clerici, padrino di un’altra interessante iniziativa: l’intitolazione di un giardino di fronte ad alcune scuole a Giovanni Gentile “assassinato il 15 aprile 1944 negli anni tristi della guerra civile e della divisione tra gli italiani”. Sì proprio lui, il ministro dell’istruzione, teorico del fascismo, sostenitore del regime, firmatario del Manifesto della Razza, giustiziato da un GAP delle Brigate Garibaldi, a Firenze, nell’aprile del 1944.

Giuseppe Uva.
La notte del 14 giugno 2008 Giuseppe Uva si trova proprio vicino a Via Dandolo, quando viene fermato dai carabinieri Dal Bosco e Righetto di Varese e portato nella caserma di Via Saffi, insieme al suo amico Alberto (sono presenti anche degli agenti di polizia). Ed è proprio Alberto a richiedere i primi soccorsi al 118, quando sente il suo amico gridare «Ahi! Ahi! Basta!», ma l’operatore all’altro capo del telefono, dopo averlo rassicurato «Va bene, adesso mando l’ambulanza», chiama in caserma e si accorda coi carabinieri per non inviare alcun aiuto «Sono due ubriachi, ora gli togliamo il cellulare». Saranno poi gli stessi carabinieri, poche ore dopo, a chiamare una guardia medica, che richiederà all’Ospedale di Circolo di Varese di effettuare un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Il corpo di Giuseppe è pieno di lividi, il suo naso è rotto, i suoi testicoli sono blu, la sua pelle è segnata da alcune bruciature di sigaretta, dal suo ano esce del sangue che forma una grossa macchia sui pantaloni, ma non viene curato per le lesioni e niente di tutto ciò viene trascritto sui documenti del ricovero. Gli vengono però somministrati dei tranquillanti.
Egli inoltre racconta alla psichiatra di essere stato brutalmente pestato in caserma: ma da parte dell’Ospedale non parte nessuna denuncia. La stessa psichiatra aspetterà ben tre anni e mezzo per raccontare queste tragiche parole di Giuseppe, probabilmente le sue ultime. Dovranno passare invece cinque anni perché una donna che afferma di essere stata presente in ospedale testimoni quanto segue: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finiamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo la barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo».

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Uno striscione ad uno dei numerosi presidi fuori dal tribunale di Varese durante il processo per la morte di Uva

In tribunale.
Ma all’inizio, tutti fingono di non vedere, di non sapere. Tutti fingono che sia normale. Anche quando Beppe, dopo poche ore, muore.
E infatti, nonostante il suo corpo presenti evidenti segni di violenza, la magistratura sceglie di indagare solo un paio di medici, attribuendo la morte di Uva ad una errata somministrazione di farmaci, e non a quanto avvenuto in precedenza in caserma. Ma le perizie smentiscono questa ipotesi: Giuseppe non è morto a causa dei farmaci, che in nessun caso potevano ucciderlo; le cause della sua morte sono invece da ricercarsi in un mix di fattori, fra cui le misure di contenzione ed i traumi da corpi contundenti che ha subito.
Grazie alla testarda battaglia portata avanti dalla sorella di Giuseppe Uva, Lucia, col suo legale Fabio Anselmo e con i tanti solidali, la strategia della magistratura di far ricadere la colpa esclusivamente sui medici si è rivelata finora un totale autogol: i PM Abate e Arduni sono stati addirittura rimossi dall’indagine dal procuratore generale di Varese. Un nuovo processo sta per essere celebrato e questa volta contro carabinieri e poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale, abuso dei mezzi di contenzione, arresto illegale e abbandono d’incapace.

Processo allo stato.
Diciamoci la verità, senza ipocrisie: soltanto i suoi servi, possono pensare che non sia lo Stato il vero assassino in questa vicenda. Giuseppe è stato prelevato con la forza, rinchiuso, pestato; non è stato aiutato quando ha chiesto aiuto ed è stato invece drogato contro la sua volontà e messo su un letto a morire.

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Uno dei tanti adesivi apparsi a Varese negli anni successivi all’assassinio di Giuseppe. Non è di certo piaciuto ai servi delle Stato, fra questi Francesco Liparoti, coordinatore provinciale di SEL, che si prodigherà addirittura in un comunicato stampa dai toni demotristi: “le scritte sui muri e gli adesivi apparsi a Varese questa settimana in merito alla tragica vicenda Uva con cui si esprimono giudizi molto pesanti e gravi nei confronti delle Forze dell’Ordine non sono per niente condivisibili nel contenuto e nel metodo.”

Le responsabilità per la morte di Giuseppe non possono quindi essere ricondotte al singolo gesto, al singolo uomo, al singolo momento. La sintonia con cui si è agito o lasciato agire è un evidente risultato di comportamenti ed abitudini a lungo tramandate. Polizia, Carabinieri, 118, Guardia Medica, Pronto Soccorso, Reparto di Psichiatria, Magistratura… queste non sono mele marce, piuttosto le più dirette e manifeste espressioni del potere che lo Stato esercita su tutti noi.
Questo è il processo che dovrebbe interessarci. Un processo allo stato di tutte le cose. Esso non ci attende in futuro, ma ne siamo parte da sempre. Poiché esso è sempre.
Prenderne coscienza significa indagare i luoghi e i tempi attraversati da Giuseppe durante al sua vita e la sua morte, per scoprire che sono gli stessi che attraversiamo e viviamo tutti, nel quotidiano.
Imparare ad leggere anche la forma di una panchina, poiché essa è sempre legata a una precisa funzione che ci racconta di come funziona il mondo.
Allenarsi ad attraversare con lo sguardo le finestre chiuse nella notte di Varese, per accorgersi che ciò che accade giù in strada ci riguarda sempre.
Leggere nei luoghi le trasformazioni avvenute e quelle in corso, conoscerle e conoscersi per uscire dal silenzio, quello vero.
Quello fra di noi.

Decoro e Pubblica Sicurezza a saronno

Durante il consiglio comunale saronnese svoltosi il 28 maggio la giunta ha approvato tre nuovi articoli del regolamento di polizia urbana. L’intento della maggioranza è stato quello di affrontare i temi del “decoro urbano” e della “pubblica sicurezza”.
polizia-locale-multe5 Gli articolo 119, 120, e 121 del regolamento permetteranno quindi agli agenti di polizia locale di multare chiunque si sieda per terra o sullo schienale di una panchina, chi si azzardi a mangiare un panino in Piazza Libertà o nelle prossimità del cimitero o di una qualsiasi chiesa cittadina, chi si appresti a darsi una rinfrescata, magari a torso nudo, ad una delle pochissime fontane rimaste attive, o a chi passeggi per le strade della nostra città “in maniera indecorosa”.
Inoltre, con questi tre nuovi articoli, viene dato seguito alla tanto chiacchierata ordinanza anti-alcoolici approvata lo scorso anno per il trascorrere dei mesi estivi. Da ora in poi sarà quindi vietato bere una birra in buona parte delle zone a traffico limitato saronnese, ovviamente a meno che non la si sia profumatamente pagata in uno dei locali e pub del centro.

(Fonte con i dettagli degli articoli: http://ilsaronno.it/?p=36246)

Varesina Bis: si allarga il dissenso

Una delle opere stradali collaterali alla costruzione della Pedemontana Lombarda sarà la realizzazione della Varesina bis, un che tratto di strada che collegherà Uboldo a Tradate attraversando i comuni di Saronno, Gerenzano, Cislago, Mozzate, Carbonate, Locate Varesino e Lonate Ceppino e che si ipotizza possa arrivare fino a Gazzada passando da Torba, Gornate Olona e Castiglione Olona. La strada, progettata e finanziata dalla Regione Lombardia, sarà costruita sopra la gran parte delle aree agricole e boschive rimaste in questa zona altamente cementificata della provincia varesina.

vlcsnap-2014-05-03-12h44m24s190Nei mesi scorsi si è aperto però un fronte di opposizione anche alla costruzione di questa ennesima striscia di asfalto, con la formazione del Comitato No Varesina bis di Tradate. Il neo-nato Comitato, che il 12 maggio a Tradate ha organizzato la sua prima iniziativa pubblica, ha lanciato una campagna di raccolta firme di opposizione al progetto, arrivato in pochi giorni a superare le 500 sottoscrizioni raccolte.

QUESTIONI DI PALAZZO

Oggi in tv, sui giornali, su internet si parla tanto di palazzi, riferendosi quasi sempre ai palazzi della politica, i palazzi della Repubblica, i palazzi del potere. Ma qui no. Qui oggi si parla di ben altri palazzi, nello specifico si parla di un palazzo ben noto ai cittadini saronnesi, ovvero quello conosciuto con il nome di “Palazzo Visconti”.

Le origini e la storia
Storicamente si fa risalire la costruzione del Palazzo addirittura alla seconda metà del 1500. Il nome deriva dalla famiglia milanese dei Visconti che, nella persona di Giacomo Filippo Visconti, commissionò la costruzione proprio in quell’epoca. Non è un mistero difatti che un ramo della famiglia Visconti risiedesse nel territorio saronnese già agli inizi del ‘500: il Palazzo fu dunque eretto nei pressi del centro cittadino e nei primi anni di vita ebbe sia la funzione di residenza di villeggiatura per la nobile famiglia milanese sia quella di abitazione vera e propria. Nel corso dei secoli si succedettero diversi proprietari: nel 1643 il possesso dell’edificio passò alla famiglia di Pietro Giacomo Rubini e successivamente esso finì nelle mani del nipote, il Conte Diego Rubini, il quale tra il 1724 ed il 1753 decise di apportare notevoli miglioramenti sia a livello architettonico sia a livello decorativo. Nel 1773 l’intero stabile venne acquistato dalla famiglia Schenardi, la quale cedette infine il palazzo a Giuseppe Morandi, il quale decise di trasformarlo in un prestigioso collegio. Nel 1882 il Comune di Saronno finalmente prende possesso del Palazzo e lì decide di trasferirvi il Municipio ed i relativi uffici pubblici. Solamente molti anni dopo, il 27 dicembre 1926, con lo spostamento degli uffici comunali nella vicina Villa Gianetti, il Palazzo diviene sede della Pretura: da qui il nome affettuoso con il quale ancora oggi la popolazione saronnese si riferisce ad esso, cioè la cosiddetta “vecchia pretura”.
Dalla metà degli anni 80’ Palazzogli uffici della Pretura lasciano il Palazzo ed i locali presenti all’interno di esso vengono destinati ad un duplice scopo. Alcuni sono utilizzati come abitazioni mentre nei restanti trovano casa le numerose associazioni presenti sul territorio cittadino, le quali vengono tutte riunite in un’unica e grande sede.
Alcuni ricorderanno sicuramente il KSS, il primo e storico centro sociale di Saronno ed il Circolo dei Briganti, nato dalle ceneri del primo sul finire degli anni ’90: con essi, il Palazzo inizia a vivere una nuova vita notturna fatta di concerti, incontri culturali, dibattiti, cineforum, serate passate sulle grandi ed accoglienti scalinate a bere birra e a chiacchierare in compagnia. Altri ricorderanno invece Palazzo Visconti principalmente come sede delle numerose proiezioni serali ed estive del suggestivo “Cinema sotto le stelle”.

L’incendio e le scoperte
Il 28 settembre del 2007 avviene il disastro: un incendio, divampato nella canna fumaria della sede di una delle numerose associazioni presenti all’interno dell’edificio, distrugge buona parte del Palazzo, rendendolo di fatto inutilizzabile. Le associazioni fanno i bagagli e si trasferiscono nei locali dell’ex istituto scolastico elementare Pizzigoni ed ex liceo classico Legnani: a tutt’oggi molte associazioni saronnesi si trovano ancora presso l’ex scuola e rimangono in attesa di ricevere uno spazio adeguato alle loro esigenze, ma questa è un’altra storia.
Il tremendo incendio che si sviluppa nei locali di Palazzo Visconti, sebbene comporti la rovinosa decadenza dello stabile, porta tuttavia con sé due note positive. La prima è una nota di carattere “artistico” e concerne la scoperta, successiva all’incendio ed ai sopralluoghi effettuati da tecnici ed esperti del settore, di un ciclo di affreschi di origine settecentesca, attribuiti successivamente all’artista Giovanni Antonio Cucchi. Due anni dopo, nel 2009, Sergio Beato, membro della Società Storica Saronnese, ipotizza che nella ristrutturazione di origine settecentesca ordinata dal Conte Diego Rubini vi sia l’opera di Francesco Croce, cioè l’architetto già autore del progetto della guglia maggiore del Duomo di Milano e amico del sopracitato Giovanni Antonio Cucchi. Il tesoro architettonico ed artistico che si cela nelle stanze di Palazzo Visconti inizia pian piano a mostrarsi in tutto il suo splendore.
La seconda nota è tuttavia ancora più importante della prima: difatti, il secondo merito delle fiamme che hanno avvolto l’edificio è stato quello di risvegliare le sopite coscienze cittadine in merito alla “Questione Palazzo Visconti”.
Nei mesi successivi al disastro i giornali locali non tardano invero ad uscire con titoli a caratteri cubitali e riguardanti il futuro dell’edificio : “Palazzo Visconti verrà restaurato”, “Palazzo Visconti: casa d’arte e d’associazioni”, “Quale futuro per Palazzo Visconti? Si riapre il dibattito”. La Società Storica Saronnese apre due conti correnti per avviare una raccolta fondi destinata alla salvaguardia dello stabile: le donazioni sono scarse e serviranno a malapena a coprire i lavori di pulizia ed i minimi interventi per la sistemazione e la “messa in sicurezza”, ovvero la chiusura degli accessi al fine di impedire l’ingresso nello stabile.

Politica di palazzo
La “Questione” non coinvolge solamente il piano dell’opinione pubblica: ben presto ci si accorge che parlando del Palazzo ci si trova di fronte ad un problema prettamente di carattere politico. La campagna elettorale del 2009 vede infatti Palazzo Visconti come uno dei temi caldi sui quali giocarsi la sfida delle urne: tutti ne parlano, tutti hanno una soluzione, nessuno ha i soldi per mettere in pratica la propria idea.
Il Partito Democratico è da subito in prima fila. Il PD saronnese pone infatti la “Questione” tra i “Dieci grandi progetti per cambiare Saronno”, tant’è che la ristrutturazione del Palazzo occupa addirittura il primo posto del programma dei democratici locali e viene declinata secondo una molteplicità di proposte clamorose ed eclatanti: una pinacoteca, un museo, un centro polifunzionale per giovani ed associazioni, un “Palazzo dei Saperi” e chi più ne ha più ne metta. L’entusiasmo è grande, le idee tante, i soldi pochi.
Anche l’ex sindaco Pierluigi Gilli prende la parola sulla “Questione” dalle colonne del proprio blog personale: se da amministratore comunale Gilli aveva pensato di trasferire presso il Palazzo gli uffici del Municipio cittadino, una volta sedutosi nei banchi dell’opposizione l’ex primo cittadino si mostra da subito critico verso tutti i candidati sindaci, colpevoli di speculare e gettare parole al vento su un tema assai delicato come il futuro del prestigioso edificio storico.
In effetti il boato delle voci dei candidati sindaci in relazione alla “Questione” è realmente ampio ed eterogeneo. Lucano, Nappo, Porro, Proserpio, Renoldi, Tramacere: tutti vogliono dire la loro sul futuro di Palazzo Visconti. Anche i Socialisti saronnesi capitanati da Giuseppe Nigro si sbilanciano sul tema ed ipotizzano un “centro di documentazione per Palazzo Visconti”. L’entusiasmo è grandissimo, le idee tantissime, i soldi pochissimi.
Nel 2010, tre anni dopo il fatidico incendio, presso Villa Gianetti si tiene un incontro sul tema alla presenza di Amedeo Bellini, professore ordinario di Teoria e Storia del restauro presso il Politecnico di Milano. Solo pochi mesi prima una delegazione di cittadini aveva segnalato lo stato di degrado del Palazzo: la risposta del neo eletto sindaco Porro si concretizza nell’organizzazione del predetto incontro e, contemporaneamente, nella chiusura ermetica delle entrate del palazzo, per evitare che “gli abusivi” possano entrare e danneggiare l’edificio.
Il primo cittadino fa successivamente approvare una variazione di bilancio da centomila euro per garantire il proseguimento dei lavori: essi prevedono la chiusura definitiva degli accessi, la sostituzione dei vecchi infissi alle finestre e la pulizia dei detriti lasciati dai numerosi ospiti che frequentano illegalmente lo stabile nelle ore notturne. Successivamente il sindaco lancia l’idea di una colletta cittadina affinché ognuno possa dare il proprio contributo per salvare il Palazzo dal degrado. Ora l’entusiasmo è scarso, le idee poche, i soldi sono quasi agli sgoccioli.

Notti nere e notti bianche
Nell’estate del 2010 si verifica un episodio inatteso che contribuisce a gettare nuova luce sulla “Questione Palazzo Visconti”, la quale è oramai praticamente dimenticata da tutti, in primis dai partiti politici cittadini e dall’Amministrazione comunale.
Un gruppo di anarchici locali, costituito principalmente da ragazzi e ragazze del saronnese, progetta la cosiddetta “Notte Nera”: i giovani decidono di occupare un edificio abbandonato e di organizzare al suo interno un concerto ed un dj-set per protestare contro le logiche di mercato e di profitto della Notte Bianca”, così come essi spiegano all’interno del comunicato diffuso in occasione dell’evento. Lo spazio occupato dai ragazzi non è nient’altro che il cortile interno di Palazzo Visconti.
L’evento ha una risonanza davvero notevole: la musica si diffonde dal cortile del Palazzo ed invade le strade adiacenti, molti avventori della “Notte Bianca” si mostrano incuriositi dall’iniziativa e moltissimi approfittano dei cancelli aperti per osservare lo stato dell’edificio oramai in stato di abbandono. I giornali locali ne parlano, i politici nostrani si indignano, sindaco Porro compreso, la polizia interviene ma si limita solamente ad osservare a distanza l’evento organizzato dai ragazzi, i quali tengono viva la festa fino a tarda notte. Durante la serata, l’entusiasmo, quello dei ragazzi, è alle stelle, le idee moltissime, i soldi non servono.
Un anno dopo la tanto osteggiata e criticata “Notte Nera”, l’Amministrazione comunale sorprende la cittadinanza con un’idea geniale ed innovativa: viene infatti deciso di aprire i cancelli di Palazzo Visconti per accedere al cortile interno durante la oramai classica “Notte Bianca” prevista per il 9 luglio 2011. Nello stesso periodo, dopo aver istituito una commissione che si occupi di decidere il futuro dell’edificio, il sindaco Porro rivela che per rimettere in sesto Palazzo Visconti “ci vogliono diversi milioni di Euro”. Nel contempo il primo cittadino, messo alle strette dalla stampa locale, asserisce altresì che “non ci sono ancora novità, né sulla destinazione dell’edificio né sulla reperibilità dei fondi per poter avviare il recupero”. L’entusiasmo è nullo, le idee inesistenti, i soldi finiti.
Nel 2012 finalmente la commissione elabora diverse proposte di recupero dell’edificio e le sottopone all’Amministrazione comunale: tuttavia, a causa delle divergenze e delle liti interne alla maggioranza, non viene trovato un accordo e la commissione rimane ferma. E fermo rimane, da allora, il futuro di Palazzo Visconti.

Il palazzo del futuro?
Oggi la “Questione Palazzo Visconti” sembra non essere più tale: il Palazzo non interessa più a nessuno, oppure non interessa perché non è ancora periodo di campagna elettorale. Forse a breve esso tornerà di nuovo sulla bocca di tanti saronnesi, forse è solo questione di tempo, forse bisogna solamente aspettare, forse.
Ai giorni nostri, se non si considera l’apertura “postuma” effettuata dall’Amministrazione comunale durante la “Notte Bianca” del 2011, il solo ed unico intervento di recupero dello spazio sembra essere stato la tanto temuta “Notte Nera”. Un intervento di recupero, questo, che ha coinvolto in primis un piano di carattere “sociale”: con esso, la possibilità di utilizzare uno spazio abbandonato è stata restituita all’intera comunità cittadina, la quale ha avuto l’occasione, durata tuttavia una sola notte, di poter vivere l’ambiente di Palazzo Visconti in maniera libera, senza imposizioni o ancora peggio divieti.
Bisogna allora prendere atto che l’occupazione del Palazzo da parte dei ragazzi della “Notte Nera”, seppur con tutti i limiti economici, organizzativi e legali che un’occupazione si porta dietro, non solo ha voluto risvegliare l’attenzione dei cittadini sull’annosa “Questione Palazzo Visconti”, ma ha anche saputo tracciare una proposta di recupero dello stabile, mettendo finalmente a tacere il fastidioso vociare della politica saronnese in merito al tema della riqualificazione dell’antico edificio. Quella stessa politica che ai tempi della “Notte Nera” aveva bollato come “insicuro e pericolante” il cortile del Palazzo salvo poi spalancare i cancelli dello stabile esattamente un anno dopo, in occasione dell’attesissima “Notte Bianca”.
E ad oggi, cosa rimane di tutto ciò? Oggi il Palazzo giace ancora lì, avvolto dai giganteschi teloni bianchi, come un immenso regalo che la popolazione saronnese aspetta solo di poter scartare, aprire e fruire. Se l’Amministrazione comunale, il sindaco, gli esponenti dei partiti politici e i numerosi soggetti istituzionali che in questi anni si sono riempiti la bocca di tante belle parole sulla riqualificazione di un pezzo di storia di Saronno non sapranno affrontare fino in fondo la “Questione Palazzo Visconti”, allora il futuro di quest’ultimo sembra essere già da ora irrimediabilmente compromesso. Rimane la speranza che un giorno siano gli stessi cittadini saronnesi a decidere sul destino dell’edificio e a lavorare insieme per restituire questo spazio alla comunità.

Eseguito sfratto a Caronno Pertusella

29 maggio 2014, Caronno Pertusella
Eseguito lo sfratto dell’artigiano di 60 anni in via Pio XI a Caronno Pertusella.
A differenza dello scorso tentativo di sfratto, quando un gruppo di solidali aveva impedito l’accesso all’appartamento a polizia, ufficiale giudiziario e fabbri, quest’oggi le forze dell’ordine si sono presentate in forze all’alba29maggiocaronno (quattro volanti di carabinieri della Compagnia di Saronno sotto i comandi del capitano Regina, una camionetta di celere e diversi agenti in borghese della DIGOS di Varese), per impedire ai solidali di portare il proprio supporto. Qualche ora dopo è arrivato l’ufficiale giudiziario che ha notificato ed eseguito lo sfratto in concorso col sindaco di Caronno Pertusella, Loris Bonfanti; i fabbri hanno cambiato la serratura e il signor Melis ha raccolto in una valigia i suoi oggetti ed è uscito disperato e avvilito dalla propria abitazione, insieme al fratello, che lo ospiterà nei prossimi giorni.
La legge è stata fatta rispettare.

Pedemontana: continuano le trattative ma gli espropri sono già pronti

Brutta giornata quella di venerdì 16 maggio per alcuni residenti di Misinto: in quella data si sono infatti presentati alcuni tecnici di Pedemontana Spa che hanno confermato la necessità di espropriare diversi terreni presenti sul territorio  comunale. Una prossima riunione tecnica è stata poi convocata per giovedì 22 maggio, nonostante le posizioni di Pedemontana Spa sugli espropri siano ben chiare: essi andranno fatti a qualunque costo, con o senza approvazione dei cittadini di Misinto.

vagabondo, forestiero, girovago, scapestrato, piantagrane. Così ci sentiamo.