Saronno ordina: la polizia deve multare!

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Saronno – Lo scorso 31 maggio, durante il consiglio comunale, a larga maggioranza, sono stati modificati e approvati 3 articoli del regolamento della polizia locale. Essi riguardano principalmente limitazioni della libertà personale, aspetti e azioni della vita quotidiana censurati e sanzionati con lo scopo di prevenire potenziali situazioni, che creino potenziali contesti, che originino presunto degrado o possibili reati.
Parliamo di deriva securitaria e controllo sociale.
Per capire meglio cosa sta succedendo, abbiamo trovato interessante raccontare la storia delle ordinanze repressive, a cominciare dalla famosa anti-alcolici di Gilli del 2009, e sottolineare (attraverso l’accostamento di fatti e dichiarazioni d’intenti e tentativi maldestri di giustificazioni) l’ipocrisia, la dannosità e l’inefficacia politica e sociale di questi interventi.

FLASH BACK
Aprile 2009: Saronno è amministrata da una giunta a maggioranza Forza Italia, il sindaco è Pierluigi Gilli e mancano due mesi circa alle elezioni amministrative; i partiti si trovano in piena campagna elettorale. La giunta uscente sfrutta il potere, gli strumenti e le risorse della cosa pubblica ancora a disposizione, per re-intercettare il proprio elettorato e l’opposizione si affanna a cercare di rimarcare le differenze, distinguersi, re-coinvolgere il proprio seguito.
La maggioranza di centrodestra emette un’ ordinanza pubblica che vieta di bere alcolici in città, tranne che nei locali pubblici, presumendo che al consumo di alcol consegua un probabile reato. Si tratta di un tipo di prevenzione arbitraria, visto che nei locali pubblici non viene imposto il medesimo divieto. Verrebbe da pensare che il pensiero di fondo sia che l’alcol dei locali pubblici sia meno dannoso per la salute o che chi frequenta questi locali abbia un’ attitudine meno spiccata a compiere reati sotto l’influenza di una sostanza di cui, vale la pena ricordare, l’assunzione è legale.
Ci sono critiche e proteste, da parte di singoli, associazioni, partiti, su internet nascono gruppi di pressione e dibattito sul tema; ricordiamo il gruppo fondato da Riccardo Galetti, membro della sezione PSI di Saronno e fondatore della sezione locale dei giovani socialisti: «Saronno – Contro l’ordinanza Gilli sugli alcolici nei luoghi pubblici».
Ecco alcuni post del 2009 dello stesso Galetti, il cui partito di riferimento era anch’ esso impegnato in campagna elettorale in quel periodo (il PSI paradossalmente oggi esprime un assessore alla sicurezza, Giuseppe Nigro, assolutamente in linea con le delibere restrittive, se non addirittura promotore): «Direi che finalmente gettano la maschera…si chiamano popolo delle libertà, ma con la loro politica propagandistica si dimostrano paladini del proibizionismo…inoltre é un’ordinanza fortemente classista, puoi bere, ma solo se spendi. Se hai un forte potere d’acquisto e puoi permetterti di bere nei locali, la tua ubriachezza é piacevole e civile, se bevi una birra del discount sei un pericoloso e molesto criminale..», e ancora: «Perchè l’ordinanza è “classista” e permette di bere solo nei locali, solo in luoghi con fini di lucro. Perchè considera molesta solo l’ubriachezza che non genera denaro. Perchè è proibizionista. Se riusciamo ad essere in tanti, potremmo porre il gruppo all’attenzione dei media locali.»

Particolarmente indicativa dell’ atmosfera politica attorno a questa ordinanza è la riflessione di Giuseppe Uboldi, che in quel periodo era consigliere comunale per il PD (estratto verbale consiglio comunale di Saronno 21-4-2009):

«Facendomi molta forza perché prevarrebbe la nausea in questo caso, comunque mi viene da ricordare, non posso fare a meno ed è per questo che parlo, che è appena stata emessa un’ordinanza proibizionista che giudico da un lato forcaiola e dall’altro ridicola che vieta l’uso di alcolici in luoghi pubblici con chiare mire a colpire sostanzialmente gli extracomunitari».

Sintetizzando le posizioni dei detrattori dell’ordinanza (chiunque, cioè, non si identificasse politicamente in un’ area di destra):
l’ordinanza è liberticida – esistono già i reati di ubriachezza molesta e tutti gli altri reati sono perseguibili anche se compiuti da sobri, questa ordinanza è assolutamente lesiva delle libertà personali oltre che inefficace e superflua;
l’ordinanza è discriminatoria e classista – permettere di bere alcol solo a chi può permettersi di frequentare i locali, dove i prezzi quintuplicano rispetto all’offerta nei supermercati, quindi si privano di una libertà principalmente le categorie di basso reddito e/o indigenti.
A conferma di quanto scritto, qui di seguito riportiamo il pensiero dell’ allora assessore alla sicurezza Massimiliano Fragata: «Premesso che molti episodi di criminalità, da risse ed episodi di violenza siano causati proprio dall’abuso di alcol, si vieta nelle strade cittadine ma anche nei parchi e nelle aree verdi il consumo di bevande alcoliche di ogni gradazione e tipo. Uniche eccezioni saranno gli esercizi commerciali, bar e locali, al loro interno o che utilizzano il suolo pubblico. Ed eccezionali deroghe saranno rilasciate durante particolari eventi organizzati dall’amministrazione comunale. Per il resto sarà in vigore una linea dura da parte della Polizia Locale, chiamata a far rispettare l’ordinanza. Lo abbiamo deciso per porre un freno alla presenza di italiani e stranieri che con la bella stagione trascorrono le giornate ubriacandosi in pieno centro, aumentando il senso di insicurezza dei cittadini saronnesi. Questa ordinanza non è un prodotto fantasioso, ma la risposta a un decoro della città, per il quale ultimamente sono stati superati troppi limiti».
Il PD, alla fine, vinse quelle elezioni, Porro divenne sindaco di Saronno e l’ordinanza decadde, perchè giudicata incostituzionale, non avendo carattere temporaneo e/o d’urgenza, come dovrebbero avere le ordinanze che limitino libertà individuali.

MISTIFICAZIONI
Nel 2013 la giunta Porro, in difficoltà nel dare risposte politiche agli attacchi dell’ opposizione sul tema della sicurezza, decide di utilizzare esclusivamente strumenti repressivi e sanzionatori e reintroduce l’ordinanza anti-alcolici provvedendo ad alcune modifiche, ma non nel merito, come ci si potrebbe aspettare da una forza che ha criticato fermamente l’esperienza Gilli, bensì nella forma: infatti, per evitare il vizio di anticostituzionalità, rende temporanea la normativa (sarà valida da maggio a settembre, mentre il pubblico decoro, nella stagione invernale sarà salvaguardato da clima e temperature poco accoglienti), per poi reintrodurla ogni anno come fosse una misura eccezionale e non di routine, come è di fatto.
E’ sempre più palese che la politica si concretizzi negli studi di avvocatura e non presso le sedi istituzionali.
E infatti la lezione dei giuristi, che ha l’intento di prendersi gioco di elettori e costituzionalisti, viene mandata a memoria: «Da ieri fino a 22 settembre sarà nuovamente vietato bere in centro». E’ l’effetto dell’ordinanza firmata lunedì dal sindaco Luciano Porro: «E’ un provvedimento nuovo che nulla ha a che fare con quello precedente» (salvo il fatto di essere praticamente identico n.d.r.).
Porro si affanna poi ad attribuire alla stessa iniziativa, etichettata a suo tempo come reazionaria, distinte motivazioni, rispetto a quelle di Gilli e della destra: «…tra le motivazioni non c’è solo la sicurezza, ma anche il decoro e la salute pubblica», quasi a voler auto convincersi che realmente ci siano cause nobili alla radice di questo ordinamento, quasi a voler convincere i cittadini che sia un provvedimento potenzialmente efficace, facendo finta di ignorare l’utilizzo di parole chiave identiche alla vecchia amministrazione, precedentemente contestata.
La nuova ordinanza, questa volta democratica, vieta quindi «il consumo all’aperto di bevande alcooliche di ogni gradazione e tipo  nelle strade e piazze pubbliche od assoggettate ad uso pubblico di ogni tipo e denominazione del territorio comunale, nonché nei parchi, giardini o aree verdi ad uso pubblico del centro abitato».
L’unica eccezione è nei locali o nei chioschi, oppure durante speciali deroghe concesse dall’amministrazione comunale come durante alcuni eventi estivi. «Abbiamo voluto emettere nuovamente questa ordinanza soprattutto per un fattore di sicurezza e di degrado cittadino» spiega il sindaco Luciano Porro.

2014: LA MUTA E’ COMPLETATA
A maggio viene approvato il nuovo regolamento di polizia urbana in consiglio comunale.
Al divieto di consumare alcolici fuori dai locali pubblici vengono aggiunte decine di altre restrizioni, tra le quali il divieto di sedersi sugli schienali delle panchine, di sedersi per terra lungo le vie, strade, piazze, luoghi pubblici o aperti al pubblico, di arrampicarsi sugli alberi, salire sulle fontane, sui monumenti sui pali della pubblica illuminazione e segnaletica stradale nel centro urbano, di passeggiare e sostare a torso nudo o in maniera poco decorosa (?!?), di consumare cibo all’ingresso o sulle scalinate d’accesso a chiese o luoghi di culto, ecc.
Alle forze dell’ordine il sindaco chiede di «applicare il nuovo regolamento con rigore, ma anche con buon senso», dato che forse, aggiungiamo noi, il buon senso è mancato nel redigere questo stesso regolamento.
Sicuramente il fatto che venga delegata alla polizia locale l’interpretazione di queste regole e la loro applicazione con rigore e contemporanea discrezionalità e arbitrarietà, rivela il fatto che il target di questi provvedimenti è selezionato tra le fasce deboli degli abitanti di Saronno: immigrati, giovani non mantenuti dai genitori, disoccupati, ecc.
Qui di seguito riportiamo il pensiero del PD 2014 sul tema, da un estratto del comunicato atto a spiegare i motivi delle modifiche al regolamento di polizia urbana:

«I consiglieri comunali sono stati posti di fronte al dilemma se salvaguardare sempre e comunque la libertà delle persone, anche quella di bere alcolici dove pare e piace, oppure perseguire comportamenti scorretti e lesivi dei diritti altrui, anche a costo di sacrificare un frammento della libertà personale di ciascuno.
Il Consiglio Comunale ha scelto, a larghissima maggioranza, la seconda opzione nella consapevolezza che vivere in una comunità richiede il rispetto delle regole di convivenza civile, anche quelle non scritte, e implica talvolta anche la rinuncia ad una parte della propria libertà personale.»

Così Pierluigi Gilli (ex sindaco di destra), che ironizza sull’ipocrisia della giunta Porro, ma si allinea rispetto ai contenuti dell’ordinanza:
«Finalmente, anche questa Amministrazione ha capito quali insidie vi siano nello smodato consumo di bevande spiritose in pubblico: anzitutto per la sicurezza e, in cascata, per l’ordine ed il decoro, per l’igiene e la sanità; quindi, avevamo fatto bene, l’obiettivo era naturalmente identico».

Concludiamo con un aforisma che parla di libertà come concetto relativo:
«Il concetto di libertà non è assoluto. La libertà non è un diritto: è un dovere. Non è un’ elargizione: è una conquista; non è un’ uguaglianza: è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C’è una libertà in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C’è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria».

Queste ultime righe potrebbero essere la coerente conclusione di un comunicato stampa a difesa del nuovo regolamento di polizia locale vigente a Saronno. L’autore è un noto pensatore e uomo politico italiano (Predappio 1883 – Giulino di Mezzegra 1945).

 

 

 

 

 

Nuovi sviluppi sul caso Uva

giuseppe uva-adesivoE’ arrivata inaspettata la richiesta del nuovo PM Felice Isnardi di proscioglimento dall’accusa di omicidio preterintenzionale per il carabiniere e i poliziotti imputati per la morte di Giuseppe Uva. Il PM ha invece richiesto il rinvio a giudizio con la sola accusa di abuso di potere per i sei agenti e il militare (uno dei carabinieri ha difatti deciso di ricorrere al rito abbreviato, e sarà quindi giudicato in altra sede).
Il 30 Giugno alle ore 9 si svolgerà la prossima udienza del processo, in cui il Giudice deciderà se procedere per tutti i casi di imputazione o se accogliere le richieste del PM. Per quella data è stata annunciato un presidio di solidarietà alla famiglia Uva fuori dal tribunale di Varese.
La richiesta del PM deve essere stata una vera doccia fredda per la sorella di Giuseppe, Lucia, da sempre in prima fila nel chiedere giustizia per la morte del fratello, e che per le sue lotte e dichiarazioni è stata anche denunciata per diffamazione, insieme al giornalista Mauro Casciari de Le Iene, al direttore di Italia Uno Luca Tiraboschi e al regista del docu-film su Giuseppe Uva, Adriano Chiarelli. A questa denuncia ha fatto seguito un processo, la cui prossima udienza si svolgerà a Varese il 26 Settembre, per cui la stessa Lucia ha chiesto il rito abbreviato.

L’Assemblea Antifascista Saronnese scende in piazza

Sabato 14 Giugno il centro di Saronno è stato attraversato da un colorato e rumoroso corteo indetto dall’Assemblea Antifascista Saronnese per protestare contro gli episodi avvenuti lo sctimthumb.phporso 25 Aprile. La manifestazione, che ha visto sfilare un centinaio di persone lungo le strade cittadine, è partita da Piazza Caduti Saronnesi e si è conclusa in Piazza Libertà con un presidio pomeridiano e con vari interventi proposti dai tanti comitati presenti all’evento.
Oltre alla tematica principale, ovvero la violenta repressione del dissenso da parte dalle forze di polizia e dall’Amministrazione Comunale lo scorso 25 Aprile, il corteo ha difatti portato in piazza una grande varietà di contenuti: dalla lotta No Tav a quella contro la Pedemontana, dall’uccisione di Giuseppe Uva alla critica ad Expo 2015, sino ad arrivare alla battaglia per l’acqua come bene comune ed alla lotta contro gli sfratti e per il diritto alla casa. Durante il passaggio per le vie del centro i partecipanti, guidati in prima fila dal grande striscione “Liberi di resistere”, hanno lanciato slogan in opposizione alla repressione poliziesca, per la resistenza quotidiana allo sfruttamento e alla devastazione del territorio e contro lo sdoganamento dei partiti neofascisti operato dalla Questura e dell’Amministrazione saronnese.

Orti al posto del cemento: fermare l’urbanizzazione e riportare la campagna in città.

Prenditi il tempo di vagabondare un momento per la tua città. Osserva i luoghi che la caratterizzano: palazzi, supermercati, uffici, banche, parcheggi… cemento a perdita d’occhio. Qua e là ogni tanto un raro parchetto unisce cani e uomini nella rituale passeggiata. Ma la terra, bruna, fertile, di quella neanche l’ombra. Chi è lo stolto che la cercherebbe qui, tra le piazze e i viali trafficati di una città? Sarà da qualche altra parte, fuori, lontano. Allora dovremmo chiederci da dove arriva tutto ciò con cui ci sfamiamo in città, perché col passare degli anni la produzione di beni alimentari si è delocalizzata. Le campagne, i boschi e i sistemi naturali che un tempo erano prossimi ai centri abitati e che ne determinavano la sussistenza, sono stati progressivamente ridotti e colonizzati dall’esplosivo processo di urbanizzazione ed oggi si trovano per lo più altrove, oltre le montagne ed oltre l’oceano, in Sudamerica o in Africa, e i loro frutti ci rag10338807_10203335492935359_1940888165_ngiungono grazie ad aerei, navi e camion. Considerato che 80 anni fa la popolazione mondiale contava 1,6 miliardi di persone e da poco abbiamo superato i 7 miliardi e che mantenendo questi ritmi di crescita, sospinti dai paesi emergenti, un giorno non troppo lontano anche quei luoghi saranno raggiunti dalle metropoli. E come oramai sappiamo dove arriva la città non cresce più nulla.
Il consumo di suolo purtroppo è un fenomeno più vivo che mai: secondo FAI e WWF in un rapporto presentato a fine gennaio 2012 e denominato “terra rubata, viaggio nell’Italia che scompare”, la superficie di terreno libero che viene occupato ogni giorno è pari ad oltre 75 ettari. Solo in Lombardia le nuove costruzioni di quartieri insediativi, industriali o commerciali o di infrastrutture, consumano più di 10 ettari di territorio naturale o agricolo al giorno (una superficie equivalente a 14 campi da calcio).
I nostri territori sono aggrediti costantemente da una espansione urbana senza controllo, con una compulsività che non trova alcuna giustificazione nell’inesistente crescita demografica o nella sovradisponibilità di abitazioni, ma piuttosto nelle trame speculative di palazzinari e banchieri, con la sovente complicità dell’amministrazione e in un quadro di disinteresse della cittadinanza.
Il processo di cementificazione deve essere arrestato ed invertito poiché il suolo è una risorsa non rinnovabile, troppo preziosa e scarsa per poterla perdere.
Ancora oggi pubblico e privato ricercano nel suolo unicamente il valore monetario creato dall’opportunità di costruirci sopra qualcosa. Strutture ed infrastrutture diventano fonti di rendita a prescindere dalla necessità sociale ed economica. Il suolo viene consumato a favore di un uso scriteriato e a discapito di tutti gli altri suoi potenziali usi, persino di quello alimentare. Come se ci potessimo cibare di calcestruzzo e denaro. Si è perso il senso della misura. Il criterio di valutazione ed il metro di giudizio con cui dovremmo fondare la nostra azione deve invece riconoscere alla terra sia un valore di esistenza che un valore rappresentato dalle numerose funzioni che può svolgere per sostenere l’uomo, l’ecosistema e l’ambiente. Questo criterio deve integrarsi nella pratica con un metodo di allocazione delle risorse diametralmente opposto ai tipici processi decisionali verticali, basandosi quindi sui principi di solidarietà e di orizzontalità e adeguandosi al concetto di scala. La scala locale, infatti, ha le dimensioni appropriate perché si possa avere una partecipazione attiva nella gestione del territorio, che si concretizza nella valutazione delle risorse locali e nella esplicitazione dei molteplici interessi sul loro uso attraverso, appunto, pratiche di partecipazione. Uno degli effetti positivi di questo tipo di approccio è che le conseguenze indirette di attività e consumi ricadono sugli autori delle stesse, senza che gli effetti vengano scaricati su terzi o delocalizzati in altri luoghi e paesi: in linguaggio economico le esternalità negative delle azioni individuali che ricadono sulla collettività in forma di danno ambientale o sociale diventano più facilmente individuabili in termini di causa e di effetto. Ad una migliore comprensione di queste dinamiche segue una accresciuta capacità di soppesare le nostre esigenze ed i nostri impatti sul territorio (la nostra impronta ecologica) ed inoltre di valutare in concreto la capacità del territorio in termini di risorse disponibili. Un azione collettiva che tenga conto di questi criteri è sulla buona strada della “sostenibilità” sociale ed economica
Nelle nostre città, nonostante l’aggressività dell’espansione urbana, sopravvivono spazi non ancora occupati, relitti sfuggiti alla cementificazione. Ebbene questi spazi devono diventare oasi di resistenza contro l’avanzamento del cemento. Anche se una reale inversione di tendenza richiederebbe uno sforzo ulteriore e quindi una riconversione degli spazi già edificati, qualora fossero ancora recuperabili (problema della non rinnovabilità della risorsa suolo), è necessario difendere strenuamente ciò che è rimasto e che potrebbe finire sotto una colata di cemento. Gli unici soggetti realmente capaci di poter fermare questo scempio siamo noi che viviamo il territorio e che siamo artefici del suo destino (e così del nostro).
Recentemente si sta affermando a scala cittadina un fenomeno piuttosto significativo che riflette nella sua essenza un cambiamento di esigenze e di interessi sempre più diffuso.
Gli orti urbani non sono certo una novità. Un buon numero di persone coltiva nel proprio giardino, in aree pubbliche o “franche” (come quelle ai lati delle ferrovie), per hobby o anche per cercare di risparmiare qualcosa sulla spesa. Meno scontata e conosciuta è invece l’esperienza dei cosiddetti orti collettivi urbani. La differenza tra le due esperienze è sostanziale e da queste differenze possiamo trarne delle considerazioni sulla preferibilità tra le due rispetto alla loro applicazione nelle aree pubbliche ancora libere dalla speculazione. Nel primo caso tutto si svolge nei limiti della sfera privata: dalla scelta delle piante alle tecniche di coltivazione, dall’utilizzo di erbicidi e pesticidi alla raccolta ed al consumo dei prodotti dell’orto. Nel secondo caso tutto si decide a partire dalla collettività che si occupa in concerto della gestione della coltivazione e del consumo. Il nocciolo della questione è che per quanto gli orti privati possano considerarsi come esperienze positive (quando non vengono usati pesticidi), poiché comunque spesso rivelano uno spirito di iniziativa e di autogestione spontanea, la parcellizzazione di aree pubbliche urbane in tanti piccoli orti-paradisi privati non è assolutamente un auspicabile utilizzo delle risorse comuni. Attraverso un orto collettivo ed autogestito invece viene realmente soddisfatto un fine importante del suolo pubblico: la soddisfazione, ancorché parziale, di un bisogno comune: l’alimentazione.
L’alimentazione è qualcosa di più che la dieta di un individuo; è un enorme business che muove risorse, uomini e terra. Il modello propagandato negli anni 60 come “Rivoluzione Verde” è oggi Il Modello Unico dei paesi occidentali ed è adottato in fretta e furia anche da quelli emergenti. Esso è caratterizzato dalla monocoltura e dall’alto input energetico totalmente dipendente dal petrolio attraverso l’uso dei suoi derivati (fitofarmaci e pesticidi) e attraverso la massiva meccanizzazione. Questo tipo di alimentazione ha creato enormi eccedenze da una parte, ma dall’altra ha causato depauperamento della fertilità del suolo, perdita di varietà locali, perdita di biodiversità, deforestazione, inquinamento delle acque e, nei paesi del Terzo Mondo, ha creato povertà ed iniquità. Un modello scricchiolante e destinato a collassare ma che ancora oggi è il sogno dell’industria dell’alimentazione che cerca in ogni modo e con ogni mezzo politico di inseguire il proprio profitto e che, per completare il quadro, oggi vorrebbe imporci anche l’ingegnerizzazione genetica.
In Europa la ricetta della “Rivoluzione Verde” è stata il leitmotiv della Common Agriculture Policy (CAP) fin dagli anni 60. Quando tuttavia le evidenze oggettive dei suoi danni hanno reso necessario affrontare i problemi da essa stessa generati, è stato inaugurato un nuovo indirizzo politico per il periodo 2013-2020, operando un po’ di make-up in stile green economy.
L’industria dell’alimentazione controlla la filiera dalla produzione alla vendita. Corporazioni come la Monsanto da una parte e grande distribuzione dall’altra vanno a braccetto per riempirci la pancia di alimenti di scarsa qualità e dall’elevato impatto ambientale. I Centri Commerciali sono l’esatto luogo dove avviene la magia: il consumatore compra acriticamente cibo in grandi quantità senza sapere nulla di come venga prodotto e di come venga trasportato. In questo quadro generale gli orti e tutte le iniziative affini rappresentano uno dei metodi sperimentabili e sperimentati per conseguire la liberazione dall’industria dell’alimentazione, attraverso l’uso di varietà locali, il lavoro collettivo e solidale ed il cosiddetto “km zero” (la scala locale).
Anche se l’obiettivo è quello di rendere locale la produzione e i consumi, è difficile pensare che un unico orto collettivo, per quanto grande, possa soddisfare le esigenze di una città di quasi 40.000 abitanti, cifra raggiunta da Saronno. Ciò nonostante un’esperienza del genere rappresenta di per sé un cambiamento di prospettiva fondamentale che permette di scongiurare mire speculative, di evitare l’impermeabilizzazione del suolo e di contribuire all’emancipazione dall’industria dell’alimentazione. In ogni modo gli orti urbani collettivi rappresentano un aspetto ed una espressione di più ampie ed articolate iniziative economiche e sociali accomunate da principi ecologici e di solidarietà. Solo a titolo di esempio, è attivo il progetto Spiga & Madia (sviluppato dal comitato verso il Distretto di Economia Solidale della Brianza) che ha lo scopo di verificare la possibilità di ricostruire una filiera di pane biologico interamente gestita in un territorio (la Brianza monzese) approssimativo di 50 km di raggio.

Uscire dal silenzio. Ma quale?

Il silenzio sulla storia di Giuseppe Uva è stato ormai rotto da tempo. Manca però ancora il racconto di una storia che è nostra, è altra, è tutto.

“A Giuseppe.
Io lo vidi, non lo conobbi mai e me ne dispiace.
Perché nel momento del bisogno, con lui non ero.”

Via Dandolo non era a Varese.
Nel 1816, il conte Vincenzo Dandolo “si fece promotore della realizzazione del primo ’Passeggio pubblico’ alberato di Varese…” “…il terreno era suddiviso in quattro filari ordinati e regolari, così da formare tre ampi viali, ombreggiati da ben 154 esemplari di piante esotiche ”. (Paolo Cottini – “I Giardini della Città Giardino” – Ed. Lativa – 2004 ). Quella che oggi si chiama, appunto, Via Dandolo, un tempo non era che lo “stradone che da Varese mette alla Madonnina ”. Percorrendolo ci si allontanava dalla città, per introdursi nella castellanza di Biumo Inferiore, vero e proprio nucleo indipendente dal centro medievale sviluppatosi intorno alla basilica di San Vittore.
Le castellanze sono state, ormai da decenni, fagocitate dal grigio uniforme di una città sempre meno a misura d’uomo e sempre più funzionale all’economia. Tuttavia, aggirandosi a piedi per questi antichi borghi, magari con la lentezza di chi non corre dietro all’ultima offerta pubblicitaria, è possibile indagare i segnali, a volte indelebili, spesso occultati, di un diverso passato: fra stretti vicoli e cortili, gli antichi edifici, più bassi che altrove, ospitavano case, officine, stalle.
Ed è proprio in uno di questi edifici che dal 1920, è presente la Cooperativa Unione Familiare, storico ritrovo negli ultimi decenni, dei giovani di sinistra, che il sabato sera, da mezza provincia di Varese, venivano ad intasare le scale di ingresso e quelle sul retro. Questo è probabilmente il ricordo più forte che molti hanno di quel luogo: seduti sulle scale, bella gente, pessimo vino. In quel luogo, magari a tarda notte, potevi facilmente incontrare Giuseppe Uva.

Panchine.
Torniamo ora in Via Dandolo, perché dei “154 esemplari di piante esotiche” del Conte Vincenzo, ora non rimane più molto. Tra semafori a due corsie e condomini borghesi, lo “stradone” è ormai dimezzato. Rimane un po’ di passeggio con i vecchi platani, l’edicola, le siepi. E basta. Non c’è più la fontanella né le vecchie panchine, sostituite da sedili monoposto a distanza di circa un metro l’uno dall’altro. Troppo comode, le panchine. La gente le usava, le viveva, sedendosi, baciandosi, leggendo, chiacchierando, mangiando, bevendo, a volte dormendo. Momenti comuni alla vita di ognuno.
Si possono ancora fare queste cose, in Via Dandolo, ma senza stare troppo comodi, senza sdraiarsi, senza poter appoggiare un sacchetto col panino, senza sciacquarsi le mani e la faccia alla fontanella, senza stare seduti vicini.
Niente panchine.

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«Sono panchine perfette che rispecchiano lo scopo per il quale le abbiamo volute» dichiara l’assessore al verde pubblico Stefano Clerici, padrino di un’altra interessante iniziativa: l’intitolazione di un giardino di fronte ad alcune scuole a Giovanni Gentile “assassinato il 15 aprile 1944 negli anni tristi della guerra civile e della divisione tra gli italiani”. Sì proprio lui, il ministro dell’istruzione, teorico del fascismo, sostenitore del regime, firmatario del Manifesto della Razza, giustiziato da un GAP delle Brigate Garibaldi, a Firenze, nell’aprile del 1944.

Giuseppe Uva.
La notte del 14 giugno 2008 Giuseppe Uva si trova proprio vicino a Via Dandolo, quando viene fermato dai carabinieri Dal Bosco e Righetto di Varese e portato nella caserma di Via Saffi, insieme al suo amico Alberto (sono presenti anche degli agenti di polizia). Ed è proprio Alberto a richiedere i primi soccorsi al 118, quando sente il suo amico gridare «Ahi! Ahi! Basta!», ma l’operatore all’altro capo del telefono, dopo averlo rassicurato «Va bene, adesso mando l’ambulanza», chiama in caserma e si accorda coi carabinieri per non inviare alcun aiuto «Sono due ubriachi, ora gli togliamo il cellulare». Saranno poi gli stessi carabinieri, poche ore dopo, a chiamare una guardia medica, che richiederà all’Ospedale di Circolo di Varese di effettuare un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Il corpo di Giuseppe è pieno di lividi, il suo naso è rotto, i suoi testicoli sono blu, la sua pelle è segnata da alcune bruciature di sigaretta, dal suo ano esce del sangue che forma una grossa macchia sui pantaloni, ma non viene curato per le lesioni e niente di tutto ciò viene trascritto sui documenti del ricovero. Gli vengono però somministrati dei tranquillanti.
Egli inoltre racconta alla psichiatra di essere stato brutalmente pestato in caserma: ma da parte dell’Ospedale non parte nessuna denuncia. La stessa psichiatra aspetterà ben tre anni e mezzo per raccontare queste tragiche parole di Giuseppe, probabilmente le sue ultime. Dovranno passare invece cinque anni perché una donna che afferma di essere stata presente in ospedale testimoni quanto segue: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finiamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo la barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo».

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Uno striscione ad uno dei numerosi presidi fuori dal tribunale di Varese durante il processo per la morte di Uva

In tribunale.
Ma all’inizio, tutti fingono di non vedere, di non sapere. Tutti fingono che sia normale. Anche quando Beppe, dopo poche ore, muore.
E infatti, nonostante il suo corpo presenti evidenti segni di violenza, la magistratura sceglie di indagare solo un paio di medici, attribuendo la morte di Uva ad una errata somministrazione di farmaci, e non a quanto avvenuto in precedenza in caserma. Ma le perizie smentiscono questa ipotesi: Giuseppe non è morto a causa dei farmaci, che in nessun caso potevano ucciderlo; le cause della sua morte sono invece da ricercarsi in un mix di fattori, fra cui le misure di contenzione ed i traumi da corpi contundenti che ha subito.
Grazie alla testarda battaglia portata avanti dalla sorella di Giuseppe Uva, Lucia, col suo legale Fabio Anselmo e con i tanti solidali, la strategia della magistratura di far ricadere la colpa esclusivamente sui medici si è rivelata finora un totale autogol: i PM Abate e Arduni sono stati addirittura rimossi dall’indagine dal procuratore generale di Varese. Un nuovo processo sta per essere celebrato e questa volta contro carabinieri e poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale, abuso dei mezzi di contenzione, arresto illegale e abbandono d’incapace.

Processo allo stato.
Diciamoci la verità, senza ipocrisie: soltanto i suoi servi, possono pensare che non sia lo Stato il vero assassino in questa vicenda. Giuseppe è stato prelevato con la forza, rinchiuso, pestato; non è stato aiutato quando ha chiesto aiuto ed è stato invece drogato contro la sua volontà e messo su un letto a morire.

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Uno dei tanti adesivi apparsi a Varese negli anni successivi all’assassinio di Giuseppe. Non è di certo piaciuto ai servi delle Stato, fra questi Francesco Liparoti, coordinatore provinciale di SEL, che si prodigherà addirittura in un comunicato stampa dai toni demotristi: “le scritte sui muri e gli adesivi apparsi a Varese questa settimana in merito alla tragica vicenda Uva con cui si esprimono giudizi molto pesanti e gravi nei confronti delle Forze dell’Ordine non sono per niente condivisibili nel contenuto e nel metodo.”

Le responsabilità per la morte di Giuseppe non possono quindi essere ricondotte al singolo gesto, al singolo uomo, al singolo momento. La sintonia con cui si è agito o lasciato agire è un evidente risultato di comportamenti ed abitudini a lungo tramandate. Polizia, Carabinieri, 118, Guardia Medica, Pronto Soccorso, Reparto di Psichiatria, Magistratura… queste non sono mele marce, piuttosto le più dirette e manifeste espressioni del potere che lo Stato esercita su tutti noi.
Questo è il processo che dovrebbe interessarci. Un processo allo stato di tutte le cose. Esso non ci attende in futuro, ma ne siamo parte da sempre. Poiché esso è sempre.
Prenderne coscienza significa indagare i luoghi e i tempi attraversati da Giuseppe durante al sua vita e la sua morte, per scoprire che sono gli stessi che attraversiamo e viviamo tutti, nel quotidiano.
Imparare ad leggere anche la forma di una panchina, poiché essa è sempre legata a una precisa funzione che ci racconta di come funziona il mondo.
Allenarsi ad attraversare con lo sguardo le finestre chiuse nella notte di Varese, per accorgersi che ciò che accade giù in strada ci riguarda sempre.
Leggere nei luoghi le trasformazioni avvenute e quelle in corso, conoscerle e conoscersi per uscire dal silenzio, quello vero.
Quello fra di noi.

Decoro e Pubblica Sicurezza a saronno

Durante il consiglio comunale saronnese svoltosi il 28 maggio la giunta ha approvato tre nuovi articoli del regolamento di polizia urbana. L’intento della maggioranza è stato quello di affrontare i temi del “decoro urbano” e della “pubblica sicurezza”.
polizia-locale-multe5 Gli articolo 119, 120, e 121 del regolamento permetteranno quindi agli agenti di polizia locale di multare chiunque si sieda per terra o sullo schienale di una panchina, chi si azzardi a mangiare un panino in Piazza Libertà o nelle prossimità del cimitero o di una qualsiasi chiesa cittadina, chi si appresti a darsi una rinfrescata, magari a torso nudo, ad una delle pochissime fontane rimaste attive, o a chi passeggi per le strade della nostra città “in maniera indecorosa”.
Inoltre, con questi tre nuovi articoli, viene dato seguito alla tanto chiacchierata ordinanza anti-alcoolici approvata lo scorso anno per il trascorrere dei mesi estivi. Da ora in poi sarà quindi vietato bere una birra in buona parte delle zone a traffico limitato saronnese, ovviamente a meno che non la si sia profumatamente pagata in uno dei locali e pub del centro.

(Fonte con i dettagli degli articoli: http://ilsaronno.it/?p=36246)

Varesina Bis: si allarga il dissenso

Una delle opere stradali collaterali alla costruzione della Pedemontana Lombarda sarà la realizzazione della Varesina bis, un che tratto di strada che collegherà Uboldo a Tradate attraversando i comuni di Saronno, Gerenzano, Cislago, Mozzate, Carbonate, Locate Varesino e Lonate Ceppino e che si ipotizza possa arrivare fino a Gazzada passando da Torba, Gornate Olona e Castiglione Olona. La strada, progettata e finanziata dalla Regione Lombardia, sarà costruita sopra la gran parte delle aree agricole e boschive rimaste in questa zona altamente cementificata della provincia varesina.

vlcsnap-2014-05-03-12h44m24s190Nei mesi scorsi si è aperto però un fronte di opposizione anche alla costruzione di questa ennesima striscia di asfalto, con la formazione del Comitato No Varesina bis di Tradate. Il neo-nato Comitato, che il 12 maggio a Tradate ha organizzato la sua prima iniziativa pubblica, ha lanciato una campagna di raccolta firme di opposizione al progetto, arrivato in pochi giorni a superare le 500 sottoscrizioni raccolte.