CONTAGIO SOCIALE

Mentre il governo italiano decreta una ulteriore stretta alla nostra libertà di movimento, per altro già estremamente limitata, presunti scienziati ed esperti, anziché evidenziare la causa del problema, ovvero la società industriale, contribuiscono ad alimentare la paura e il terrore, legittimando così le strutture di controllo e di repressione che impongono a tutti di risolvere l’emergenza in forma autoritaria, con l’alibi che «ne va della nostra sopravvivenza». La pandemia mondiale Covid-19 è la realtà della crisi capitalistica nell’era dell’antropocene. Non la prima, ma la prima capace di minacciare le catene del valore su scala globale compromettendo la riproduzione sistemica nelle aree a più avanzato sviluppo capitalistico del pianeta. Il virus disvela l’endemicità dei suoi cicli di crisi che ridefiniranno da qui in avanti il rapporto tra umano ed ecosistemi integralmente trasformati in eco-tecno-sistemi, presentando condizioni – con buona pace di ogni residuo fantasma di progresso – in gran parte ancora ignote. In questo senso battersi per una conoscenza di parte del fenomeno significa risalirne alcune determinanti strutturali. Ciò serve a svincolarsi innanzitutto da una riduzione della crisi a emergenza esclusivamente sanitaria. A tal proposito proponiamo la lettura di un testo recente (26 febbraio 2020), tradotto dalla rivista cinese Chuang: “Contagio sociale. Guerra di classe microbiologica in Cina”. Si tratta di un’analisi di grande interesse su cause e conseguenze dell’epidemia Covid-19 in Cina, dove l’attuale crisi sanitaria, ormai globale, si è manifestata per prima. Un’analisi critica approfondita, che grazie al ricorso alle “scienze dure” è capace di mostrare l’intreccio tra dimensione “naturale”, ambientale e microbiologica, e dimensione sociale, ovvero la dinamica del capitalismo contemporaneo. Di seguito presentiamo la traduzione di una intervista al biologo Robert Wallace, citato più volte nel testo del gruppo Chuang, autore del volume Big Farms make Big Flu, un volume del 2016 che ricostruisce la relazione tra agroindustria globale e la diffusione di infezioni ed epidemie. Queste non sarebbero tanto un effetto quanto il nuovo bio-universo capitalistico alle condizioni della sua attuale riproduzione. Ci sembra uno sguardo interessante, capace di restituire le proporzioni dello scaricamento dei costi dell’industrializzazione sull’umano. Un campo di battaglia imprescindibile su cui si determinerà lo sviluppo della crisi in corso.

GUERRA DI CLASSE MICROBIOLOGICA IN CINA

Traduzione e redazione a cura di DE&Co.
Per favorire il lettore italiano, abbiamo aggiunto alcune note redazionali: quelle più brevi nel testo, le altre a pié di pagina.
Le note originali sono alla fine del testo, con numerazione romana.
Abbiamo anche evidenziato i punti che riteniamo importanti.

LE FORNACI
Wuhan è conosciuta colloquialmente come una delle «quattro fornaci» (四大 火炉) della Cina per la sua opprimente estate calda e umida, insieme a Chongqing, Nanchino e, in alternativa, a Nanchang o Changsha, tutte città dinamiche, con vecchie storie, lungo o vicino la valle del fiume Yangtze. Delle quattro, Wuhan, tuttavia, è anche totalmente cosparsa di altoforni: l’enorme complesso urbano costituisce il nucleo per le industrie dell’acciaio, del cemento e di altre industrie legate all’edilizia cinese, con il suo paesaggio costellato da altoforni a raffreddamento lento delle ultime fonderie statali di ferro e acciaio, ora colpite dalla sovrapproduzione e costrette a un nuovo controverso round di riduzione del personale, privatizzazione e ristrutturazione complessiva che, negli ultimi cinque anni, hanno provocato numerosi scioperi e proteste. Wuhan è sostanzialmente la capitale cinese dell’edilizia, questo significa che ha avuto un ruolo particolarmente importante nel periodo successivo alla crisi economica globale, poiché questi erano gli anni in cui la crescita cinese è stata stimolata dall’attrazione di fondi di investimento rivolti a progetti di infrastrutture e immobili. Wuhan non solo ha alimentato questa bolla immobiliare con la sua esorbitante offerta di materiali da costruzione e ingegneri civili, ma, di conseguenza, essa stessa ha avuto un boom immobiliare. Secondo i nostri calcoli, nel 2018-2019, l’area complessiva destinata ai cantieri di Wuhan era pari alla superficie dell’intera isola di Hong Kong.

Ma oggi questa fornace che guida l’economia cinese post-crisi, sembra che si stia raffreddando, proprio come quelli delle sue fonderie di ferro e acciaio. Sebbene questo processo fosse già ben avviato, la metafora non è più semplicemente economica, poiché la città, un tempo tanto animata, è stata sigillata per oltre un mese, le sue strade svuotate per diktat del governo: “Il più grande contributo che puoi dare è: non riunirti, non creare caos”, si legge a caratteri cubitali sul Guangming Daily, portavoce del dipartimento di propaganda del Partito Comunista Cinese. Oggi, i nuovi ampi viali di Wuhan e gli scintillanti edifici in acciaio e vetro che li coronano sono tutti freddi e vuoti, mentre l’inverno sta finendo con il Capodanno lunare e la città ristagna sotto la costrizione della colossale quaran- tena. Isolarsi è un buon consiglio per chiunque in Cina, dove lo scoppio del nuovo coronavirus (recentemente ribat- tezzato SARS-CoV-2 e la sua malattia CoVID-19) ha ucciso più di duemila persone, più del suo predecessore, l’epidemia di SARS del 2003. L’intero paese è fermo, come durante la SARS. Le scuole sono chiuse e le persone sono prigioniere nelle loro case, ovunque. Quasi tutte le attività economiche si sono fermate il 25 gennaio per le vacanze del Capodanno lunare, ma la pausa venne prolungata di un mese per frenare la diffusione dell’epidemia. Le fucine cinesi sembra che abbiano smesso di bruciare o che si siano ridotte a braci ardenti. In un certo senso, sembra che la città si sia trasformata in un altro tipo di fornace, poiché il coronavirus, attraverso la sua popolazione, brucia come un febbrone.

A torto, l’epidemia è stata incriminata di tutto e di più, dal rilascio, cospiratorio e/o accidentale, di un ceppo di virus dall’Istituto di Virologia di Wuhan – una discutibile voce (una fake news) diffusa dai social media, in parti- colare dai paranoici post di Hong Kong e Taiwan su Facebook, ma ora sostenuta da media conservatori e dagli interessi militari occidentali – alla propensione dei cinesi a consumare tipi di cibo «sporchi» o «strani», poiché l’epidemia del virus è attribuita a pipistrelli o serpenti venduti in mercati all’aperto, semi-illegali, specializzati in fauna selvatica e altri animali rari (quand’anche non sia questa la causa dell’ultima epidemia). Entrambi i temi principali mostrano la prevedibile warmongering [guerra psicologica, ndr] e disprezzo per l’Oriente, abituali nei reportages sulla Cina e alcuni articoli hanno sottolineato tale atteggiamento di fondo. Ma anche queste risposte tendono a concentrarsi solo sulla percezione del virus nella sfera culturale, dedicando molto meno tempo a scavare nelle dinamiche, assai più brutali, che si nascondono sotto la fregola mediatica.

Una variante leggermente più articolata considera anche le conseguenze economiche, anche se, retoricamente, ne esagera le possibili ripercussioni politiche. Ci troviamo i soliti complottisti, dai classici politicanti a caccia del dragone cinese per finire con le lacrime di coccodrillo degli ultrà liberisti: le agenzie di stampa dalla National Review al New York Times hanno già insinuato che l’epidemia potrebbe provocare una «crisi di legittimità» del Pcc, nono- stante il fatto che l’aria sia appena scossa da un soffio di rivolta. Tuttavia in un queste previsioni c’è un fondo di verità: la comprensione delle dimensioni economiche della quarantena, qualcosa che difficilmente potrebbe sfuggire a giornalisti con portafogli azionari più pesanti dei loro cervelli. Perché il fatto è che, nonostante la richiesta del governo di isolarsi, le persone potrebbero presto essere costrette a riunirsi per provvedere alle necessità della produzione. Secondo le ultime stime, già nel corso di quest’anno, l’epidemia causerà un calo del Pil cinese del 5%, inferiore al tasso di crescita del già stagnante 6% dello scorso anno, il più basso degli ultimi tre decenni. Alcuni analisti hanno affermato che la crescita del primo trimestre potrebbe scendere del 4% o ancor di più, e che ciò potrebbe rischiare di innescare una recessione globale. Ci si pone una domanda prima impensabile: in soldoni, cosa succederà all’economia globale, quando la fucina cinese inizierà a raffreddarsi?

Nella stessa Cina, è difficile da prevedere quale sarà la parabola finale di questo evento ma, al momento, ha già generato a un raro processo collettivo di interrogativi e di scoperte sulla società. L’epidemia ha infettato diret- tamente quasi 80mila persone (secondo le stime più prudenti), ma ha provocato uno shock nella vita quotidiana improntata allo stile capitalistico per 1,4 miliardi si persone, intrappolate in una fase di delicate auto riflessioni. Questo momento, sebbene intriso di paure, ha indotto tutti a porre contemporaneamente alcune domande di fondo: cosa mi succederà? I miei figli, la mia famiglia e i miei amici? Avremo abbastanza cibo? Verrò pagato? Pagherò l’affitto? Chi è responsabile di tutto questo?

Stranamente, l’esperienza soggettiva è per certi versi simile a quella di uno sciopero di massa – ma è un’espe- rienza che, nel suo carattere non spontaneo, dall’alto verso il basso [come una sorta di serrata, ndr] e, soprattutto nella sua involontaria iperatomizzazione, espone gli enigmi di fondo del nostro presente politico, estorto con la medesima forza con cui i veri scioperi di massa del secolo precedente chiarivano le contraddizioni della loro epoca. La quarantena, quindi, è come uno sciopero svuotato delle sue caratteristiche collettive e tuttavia in grado di provocare un profondo shock sia a livello psicologico che economico. Solo questo lo rende degno di riflessione.

Naturalmente, le speculazioni sull’imminente caduta del PCC sono stupidaggini scontate, uno dei passatempi preferiti di «The New Yorker» e «The Economist»s. Nel frattempo, i media seguono le abituali procedure di insab- biamento, in cui gli articoli sfacciatamente razzisti pubblicati da giornali tradizionalisti vengono contrastati da una marea di servizi sul web in polemica con l’orientalismo e con altri aspetti ideologici. Ma quasi tutta questa discus- sione rimane a livello descrittivo – o, nella migliore delle ipotesi, sulla politica di contenimento e sulle conseguenze economiche dell’epidemia – senza affrontare il perché tali malattie si siano generate, in primis, e, men che meno, come si siano diffuse. Tuttavia, anche questo non basta. Non è il momento di banali disquisizioni da marxisti Scooby-Doo, [da massimalisti, ndr], che smascherano il cattivo per rivelare che, sì, in effetti, è stato il capitalismo che ha causato il coronavirus, da sempre! Giudizio che non sarebbe più profondo di quello dei commentatori esteri che almanaccano su un cambio di regime. Naturalmente, il capitalismo è il colpevole, ma in che modo, precisa- mente, la sfera socio-economica interagisce con quella biologica e che tipo di lezioni più profonde si possono trarre da tutta questa esperienza?

Vista così, l’epidemia offre due possibili riflessioni: in primo luogo, si apre un’istruttiva breccia in cui potremmo rivedere domande sostanziali su come la produzione capitalistica si colleghi al mondo non umano a un livello più decisamente intimo: come, in breve, il «mondo naturale», compresi i suoi substrati microbiologici, non possa essere compreso senza far riferimento alle modalità con cui la società organizza la produzione (perché i due «mondi» non sono, di fatto, separati). Allo stesso tempo, questo ci ricorda che l’unico comunismo degno di questo nome è quello che abbraccia le potenzialità di una profonda visione politica della natura. In secondo luogo, possiamo anche usare questo momento di isolamento per le nostre personali di riflessioni sullo stato attuale della società cinese. Alcune cose diventano chiare solo quando tutto si blocca in modo inatteso, e un rallentamento di questo tipo deve per forza rendere visibili le tensioni precedentemente celate. Di seguito, entreremo nel merito di queste due domande, mo- strando non solo come l’accumulazione capitalistica produca tali piaghe, ma anche come il momento della pande- mia sia esso stesso un esempio contraddittorio di crisi politica, rendendo visibile alle persone le potenzialità e i lacci invisibili stesi attorno a loro, offrendo al tempo stesso, un nuovo pretesto per estendere ancor più il controllo della nostra vita quotidiana.

Sotto le quattro fornaci [tra cui Wuhan, ndr] c’è una fornace ancor più importante che alimenta tutti i centri industriali del mondo: è la pentola in ebollizione che cucina l’agricoltura e l’urbanizzazione capitaliste. È il brodo di coltura ideale in cui pestilenze sempre più devastanti nascono, mutano, fanno salti evolutivi nella zootecnia poi, attraverso gli umani, diventano veicoli terribilmente aggressivi.

L’ORIGINE DELLE PESTILENZE
Il virus all’origine dell’attuale epidemia (SARS-CoV-2), come il suo predecessore SARS-CoV del 2003, così come l’influenza aviaria e l’influenza suina prima, è germogliato là dove economia ed epidemiologia si incontrano. Non è un caso che moltissimi di questi virus abbiano assunto il nome di animali: la diffusione di nuove malattie alla popolazione umana è quasi sempre il prodotto di quello che viene chiamato trasferimento zootecnico, che è un modo tecnico per dire che tali infezioni saltano dagli animali agli umani. Questo salto da una specie all’altra è influenzato da fattori come vicinanza e persistenza dei contatti che costruiscono l’ambiente ideale perché la malattia sia spinta a evolversi. Quando muta questa interazione tra uomo e animale, mutano anche le condizioni in cui si evolvono tali malattie. A ciò si aggiungono processi altrettanto intensi che si verificano ai margini dell’economia, dove ceppi «selvaggi» incontrano umani lanciati in incursioni agro-economiche sempre più estese negli ecosistemi locali. Il coronavirus più recente, nelle sue origini «selvagge» e nella sua improvvisa diffusione in un centro fortemente industrializzato e urbanizzato dell’economia globale, rappresenta entrambe le dimensioni della nostra nuova era di pestilenze politico-economiche.
L’ipotesi di fondo qui esposta è sviluppata in modo molto approfondito da alcuni biologi di sinistra tra cui Robert G. Wallace che nel suo libro Big Farms Make Big Flu (2016) spiega bene la connessione tra il settore agroa- limentare capitalista e l’eziologia delle recenti epidemie che vanno dalla SARS all’Ebola. [i] Queste epidemie pos- sono essere grosso modo suddivise in due categorie, la prima nel cuore della produzione agro-economica e la se- conda nel suo entroterra. Nel delineare la diffusione di H5N1, noto anche come influenza aviaria, Wallace indica diversi fattori chiave nella geografia di quelle epidemie che hanno origine nel nucleo produttivo.
I paesaggi rurali di molti tra i Paesi più poveri sono ora caratterizzati da attività agroalimentari non regolamen- tate, attorno alle bidonville delle periferie urbane. La trasmissione incontrollata nelle aree vulnerabili aumenta la variazione genetica con cui l’H5N1 può sviluppare caratteristiche specifiche per l’uomo. Diffondendosi su tre con- tinenti, ed evolvendosi rapidamente, l’H5N1 entra anche in contatto con una crescente varietà di ambienti socio- ecologici, tra cui specifiche combinazioni locali di tipologie prevalenti e dominanti, come le modalità di allevamento di pollame e le misure sanitarie per gli animali [II].
Questa diffusione è, ovviamente, guidata dalla circolazione mondiale delle merci e dalle regolari migrazioni della forza lavoro che definiscono la geografia economica capitalista. Il risultato è «una sorta di crescente selezione demica», attraverso la quale il virus si insedia con un maggior numero di percorsi evolutivi in un tempi più brevi, consentendo alle varianti che maggiormente si sono adatte di superare le altre.
Ma è un aspetto facile da chiarire, ed è già un argomento ricorrente sui mass media: il fatto che la globalizzazione rende più rapida la diffusione di tali malattie, anche se con una coda importante, e cioè che questo stesso processo di circolazione rende ancor più rapide le mutazioni del virus. La vera domanda, tuttavia, viene assai prima: prima della circolazione che migliora la resilienza di tali malattie, l’intima logica del capitale consente di prendere ceppi virali precedentemente isolati o innocui e di metterli in ambienti iper-competitivi che favoriscono l’insorgere di fattori specifici che causano epidemie, come la rapidità dei cicli di vita del virus, la capacità di fare salti zootecnici tra le specie portatrici e la capacità di evolvere rapidamente in nuovi vettori di trasmissione. Questi ceppi tendono a distinguersi proprio per la loro virulenza. In termini assoluti, sembra che lo sviluppo di ceppi più virulenti avrebbe l’effetto opposto, poiché il fatto di uccidere l’ospite, in primis, concede meno tempo alla diffusione del virus. Il comune raffreddore è un buon esempio di questo principio, poiché generalmente mantiene deboli livelli di intensità che ne facilitano la diffusione nella popolazione. Ma in certi ambienti, vale di più la logica opposta: quando un virus incontra, nelle immediate vicinanze, molti ospiti della stessa specie, e specialmente quando questi ospiti possono già avere cicli di vita abbreviati, l’aumento della virulenza diventa un vantaggio evolutivo.
Ancora una volta, l’esempio dell’influenza aviaria è significativo. Wallace sottolinea che gli studi hanno dimostrato «l’assenza di ceppi endemici altamente patogeni [dell’influenza] tra volatili selvatici, fonte decisiva di quasi tutti i sottotipi di influenza» [iii]. Invece, i volatili domestici, ammassati in allevamenti industriali, sembrano che abbiano una precisa relazione con tali focolai, per ovvi motivi:
«Le monocolture geneticamente modificate (OGM) di animali domestici rimuovono qualsiasi tipo di difesa immunitaria, in grado di rallentare la trasmissione. Le dimensioni e la densità dei più grandi allevamenti facilitano maggiormente la velocità di trasmissione. Tali condizioni di affollamento deprimono la risposta immunitaria. L’alto rendimento, scopo di qualsiasi produzione industriale, provvede a rinnovare continuamente la fornitura di soggetti vulnerabili, carburante per l’evoluzione della virulenza [IV].

Ironia della sorte, il tentativo di sopprimere questi focolai con l’abbattimento in massa degli animali – come nei recenti casi di peste suina africana – che ha provocato la perdita di un quarto dell’offerta mondiale di carne suina – può sortire l’involontario effetto di accrescere ulteriormente la pressione selettiva, favorendo l’evoluzione di ceppi iper virulenti. Sebbene storicamente questi focolai si siano verificati nelle specie domestiche – spesso in seguito a guerre o a catastrofi ambientali che peggiorano le condizioni degli allevamenti di bestiame –, è innegabile che l’au- mento di intensità e virulenza di tali malattie abbia accompagnato la diffusione del modo di produzione capitalistico.

STORIA ED EZIOLOGIA
Le epidemie sono in gran parte la cupa ombra dell’industrializzazione capitalista, e al tempo stesso fungono da
presagio. Il caso del vaiolo e di altre pandemie introdotte in Nord America sono un esempio fin troppo noto, poiché la loro intensità è stata corroborata dalla lunga separazione di quelle popolazioni, dovuta la geografia fisica – e tali malattie, nonostante tutto, avevano già raggiunto la loro virulenza a causa dei rapporti mercantili pre capitalistici e all’urbanizzazione precoce in Asia ed Europa. Se invece guardiamo all’Inghilterra, dove il capitalismo sorse per primo nelle campagne con la massiccia espulsione dei contadini dalle terre, che vennero destinate ad allevamenti intensivi(1), vediamo i primi casi di queste piaghe squisiramente capitalistiche. Nell’Inghilterra del XVII secolo, ci furono tre diverse pandemie: 1709-1720, 1742-1760 e 1768-1786. L’origine di ciascuna di esse fu il bestiame importato dall’Europa, infetto a causa tipiche epidemie pre-capitaliste che generalmente avvenivano in seguito alle guerre. Ma in Inghilterra, il bestiame aveva iniziato a concentrarsi secondo le nuove modalità (allevamento intensivo) e l’arrivo di bestiame infetto avrebbe quindi colpito la popolazione in modo molto più aggressivo di quanto non avvenisse in Europa. Non è certo un caso che epicentro delle epidemie fossero i grandi caseifici di Londra che costituivano l’ambiente ideale per l’esplosione del virus.

Alla fine, i focolai furono contenuti grazie al preventivo abbattimento selettivo, su scala ridotta, unito all’applica- zione delle moderne pratiche mediche e scientifiche, in sostanza, nel modo simile a quello con cui oggi tali epidemie vengono arginate. Questo è il primo esempio di ciò che diventerebbe un chiaro esempio, sulla falsariga di quello della crisi economica stessa: crolli sempre più pesanti che sembrano spingere l’intero sistema sull’orlo di un preci- pizio, ma che alla fine vengono superati con un mix di sacrifici di massa che riordina mercato e popolazione e un’intensificazione dei progressi tecnologici: in questo caso, le moderne pratiche mediche più i nuovi vaccini, che spesso arrivano troppo tardi e in misura insufficiente, aiutano comunque a spazzare via i danni causati dalla deva- stazione [come la cosiddetta cura da cavallo, ndr].

Ma questo esempio, sorto dalla culla del capitalismo, deve essere abbinato a una spiegazione degli effetti che le pratiche agricole capitaliste hanno esportato alla sua periferia. Mentre le pandemie di bestiame della prima Inghil- terra capitalista erano contenute, altrove, i risultati furono molto più devastanti. L’esempio di maggiore impatto storico è probabilmente quello dell’insorgenza della peste bovina in Africa che avvenne attorno al 1890. La data stessa non è una coincidenza: la peste bovina aveva afflitto l’Europa con un’intensità che accompagnava di pari passo la crescita dell’agricoltura intensiva, tenuta solo sotto il controllo solo dai progressi della scienza moderna. Ma la fine del XIX secolo, vide anche l’apice dell’imperialismo europeo, rappresentato dalla colonizzazione dell’Africa. La peste bovina fu portata dall’Europa all’Africa orientale dagli italiani, che cercavano di mettersi al passo con altre potenze imperiali, colonizzando il Corno d’Africa con una serie di campagne militari. Queste campagne finirono per lo più in disfatte, ma la malattia si diffuse poi tra il bestiame indigeno e, alla fine, trovò la sua strada in Sudafrica, dove devastò la prima economia agricola capitalista della colonia, uccidendo persino le mandrie nelle proprietà del famigerato Cecil Rhodes, proclamatosi suprematista bianco. Il più grande effetto storico era innegabile: uccidendo fino all’80-90% di tutti i bovini, il più importante effetto storico della peste fu una carestia senza precedenti nelle società prevalentemente pastorali dell’Africa sub-sahariana. Allo spopolamento fece poi seguito la diffusione invasiva di sterpaglia nella savana che creò un habitat per la mosca tsetse che porta la malattia del sonno e ostacola il pascolo del bestiame. Ciò facilitò lo spopolamento della regione dopo la carestia, favorendo l’ulteriore ingerenza delle potenze coloniali europee in tutto il continente.

Queste epidemie, oltre a provocare periodiche crisi agricole e a creare le apocalittiche condizioni che hanno aiutato il capitalismo a estendere i suoi originari confini, sono state anche una maledizione per il proletariato nel cuore stesso dell’industrializzazione. Prima di ritornare ai numerosi esempi più recenti, vale la pena di sottolineare di nuovo che l’epidemia di coronavirus non ha nulla di specificamente cinese. Le ragioni per cui così tante epidemie sembrano sorgere in Cina non sono culturali, è una questione di geografia economica. Questo è abbastanza chiaro se paragoniamo la Cina agli Stati Uniti o all’Europa, quando questi ultimi erano il fulcro della produzione mondiale e dell’occupazione industriale di massa [vi]. E il risultato è sostanzialmente identico, con tutte le medesime caratte- ristiche. Le ecatombi di bestiame nelle campagne si riversano in città con cattive pratiche sanitarie, da cui una diffusa contaminazione. Ed è questo l’ambiente che fu al fulcro dei primie iniziative riformiste liberal-pro- gressiste nei quartieri operai, descritti nel romanzo di Upton Sinclair The Jungle, scritto originariamente per de- nunciare le sofferenze dei lavoratori immigrati, occupati nei macelli, ma che impressionò i ricchi liberali, preoccu- pandoli per le violazioni delle normative sanitarie e, soprattutto, per le imperanti condizioni scarsamente igieniche in cui venivano preparati i loro cibi.

Questa indignazione liberale per la «sporcizia», con tutto il suo implicito razzismo, svela ancora oggi quella che potremmo definire ideologia dominante che, come un riflesso condizionato, detta il pensiero della maggior parte delle persone, di fronte al lato politico di eventi come il coronavirus o le epidemie della SARS. Ma i lavoratori hanno scarso controllo sulle condizioni in cui lavorano. Situazione ancora più pericolosa, se è vero che le condizioni antigieniche fuoriescono dalla fabbrica attraverso la contaminazione delle forniture alimentari, questa contamina- zione è in realtà solo la punta dell’iceberg. Tali malsane condizioni sono la norma negli ambienti di lavoro e nei vicini quartieri proletari, esse poi provocano un peggioramento della salute della popolazione, creando condizioni favorevolo per la diffusione delle molte epidemie del capitalismo. Prendiamo ad esempio il caso dell’influenza spagnola, una delle epidemie più letali della storia(2). Fu uno delle primi focolai di influenza H1N1 (correlato a focolai più recenti di influenza suina e aviaria), e si pensò a lungo che questa epidemia fosse in qualche modo differente dalle altre varianti dell’influenza, dato il suo elevato bilancio di vittime. Ciò nonostante, questa ipotesi sembra sia vera solo in parte (a causa della capacità di tale influenza di indurre una reazione eccessiva del sistema immunitario), poiché le successive analisi della letteratura scientifica e la ricerca storica sull’epidemiologia hanno fatto scoprire che l’influenza spagnola potrebbe essere stata poco più virulenta di altri ceppi. Al contrario, il suo alto tasso di mortalità è stato probabilmente causato principalmente dalla diffusa malnutrizione, dal sovraffollamento urbano e dalle condizioni di vita generalmente insalubri nelle aree colpite, che ha favorito non solo la diffusione dell’influenza stessa ma anche la coltura di super infezioni batteriche, sopra al sottostante ceppo virale [vii].

In altre parole, il bilancio delle vittime dell’influenza spagnola, sebbene venga descritto come un’aberrazione imprevedibile nella natura del virus, ricevette un aiuto altrettanto energico dalle condizioni sociali. Nel frattempo, la rapida diffusione dell’influenza fu resa possibile dalle relazioni commerciali e dalla guerra mondiale, a quel tempo incentrati sugli imperialismi, in rapido mutamento, che sopravvissero alla guerra. E ritroviamo ancora una volta una storia ormai familiare, in primis, le modalità con le quali un ceppo così letale di influenza si sia prodotto; sebbene l’origine esatta sia ancora poco chiara, oggi si presume che abbia avuto origine in suini domestici o pollame, probabilmente in Kansas. Il tempo e il luogo meritano molta attenzione, poiché gli anni successivi alla guerra fu- rono un punto di svolta per l’agricoltura americana che vide l’applicazione diffusa di metodi di produzione sempre più meccanizzati, di tipo industriale. Questa tendenza si intensificò solo negli anni Venti e la vigorosa applica- zione di tecnologie, come la mietitrebbia, generò sia la graduale monopolizzazione [della produzione agricola, ndr] sia il disastro ecologico che, insieme, causarono la crisi del Dust Bowl [tempeste di sabbia, Usa e Canada, 1931 e 1939, ndr], con l’emigrazione di massa che ne seguì. Non era ancora sorta l’intensa concentrazione di bestiame che in seguito avrebbe caratterizzato gli allevamenti industrializzati, ma le forme più elementari di concentrazione e produttività intensive, che avevano già creato epidemie di bestiame, in Europa erano ormai la norma. Se, le epide- mie che colpirono il bestiame nell’Inghilterra del XVIII secolo, si possono considerare il primo caso di peste bovina propriamente capitalista, l’epidemia in Africa nel 1890, il più grande degli olocausti epidemiologici dell’imperialismo, l’influenza spagnola può quindi essere considerata la prima epidemia del capitalismo che ha colpito il proletariato.

GILDED AGE(3)
Le analogie con l’attuale caso cinese sono evidenti. Non si può capire il COVID-19 senza considerare i modi in cui gli ultimi decenni di sviluppo della Cina, in simbiosi con il sistema capitalistico globale, abbiano plasmato il si- stema sanitario del Paese e, in generale, lo stato della salute pubblica. L’epidemia, per quanto nuova, è quindi simile ad altre crisi della sanità pubblica che l’hanno preceduta, che tendono a prodursi quasi con la medesima regolarità delle crisi economiche, tanto è vero che la stampa popolare le tratta in modo simile, come se fossero eventi casuali, tipo «cigno nero», assolutamente imprevedibili e senza precedenti. La realtà, tuttavia, è che queste crisi sanitarie ricorrono secondo schemi caotici e ciclici, rese più probabili da una serie di contraddizioni strutturali, consustanziali alla natura della produzione e della vita proletaria nel sistema capitalistico. Proprio come nel caso dell’influenza spagnola, il Coronavirus è stato subito in grado di affermarsi e diffondersi rapidamente, a causa di un generale degrado dell’assistenza sanitaria di base, tra la popolazione tutta. Ma proprio perché questo degrado è avvenuto nel clou di una crescita economica spettacolare, è stato messo in ombra dallo splendore di città scintillanti e di enormi fabbriche. Tuttavia, la realtà è che, in Cina, la spesa pubblica per assistenza sanitaria e istruzione sono estremamente basse, mentre il grosso della spesa pubblica è stata indirizzato verso infrastrutture, mattoni e malta: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione. Il coronavirus era originariamente in grado di impadro- nirsi e diffondersi rapidamente a causa di un generale degrado dell’assistenza sanitaria di base tra la popolazione in generale. Ma proprio perché questo degrado è avvenuto nel mezzo di una crescita economica spettacolare, è stato oscurato dietro lo splendore di città scintillanti e fabbriche enormi. La realtà, tuttavia, è che le spese per beni pubblici come l’assistenza sanitaria e l’istruzione in Cina rimangono estremamente basse, mentre la maggior parte della spesa pubblica è stata indirizzata verso infrastrutture in mattoni e malta: ponti, strade ed elettricità a basso costo per la produzione.

Nel frattempo, la qualità dei prodotti destinati al mercato interno, spesso, è pericolosamente scadente. Per decenni, l’industria cinese ha prodotto per l’export di alta qualità e di alto valore, merci realizzate secondo i più alti standard mondiali(4), destinate al mercato mondiale, come iPhone e chip per computer. I beni destinati al con- sumo sul mercato interno hanno standard nettamente inferiori, suscitando ricorrenti scandali e profonda sfiducia da parte dei consumatori. Molti casi evocano The Jungle di Sinclair e altri racconti dell’America della Gilded Age. Il più eclatante, scoppiato di recente, nel 2008, è lo scandalo del latte alla melamina che ha causato la morte di una dozzina di neonati e il ricovero ospedale di decine di migliaia di intossicati (anche se, forse, i colpiti furono centinaia di migliaia). Da allora, numerosi scandali hanno via via scosso il pubblico: nel 2011, quando si è scoperto che l’olio di recupero, riciclato con i filtri per i grassi, veniva utilizzato nei ristoranti di tutto il Paese, o nel 2018, quando i vaccini difettosi uccisero numerosi bambini e, poi, un anno dopo, ci furono dozzine di ricoveri in ospedale, poiché avevano somministrato loro falsi vaccini anti VPH (o HPV, virus del papilloma umano, ndr). Storie meno gravi impazzano ancora di più, tracciando un panorama familiare per chiunque viva in Cina: mix di zuppe istantanee in polvere, arricchite con sapone, per abbassare i costi di produzione, imprenditori che vendono ai villaggi vicini maiali morti per cause ignote, scommesse su quale bottega di strada abbia maggiori probabilità di farti ammalare.

Prima dell’integrazione della Cina nel sistema capitalistico globale, servizi come l’assistenza sanitaria venivano forniti (perlopiù nelle città) nell’ambito del sistema danwei, ossia erano legati all’impresa in cui si lavorava o (princi- palmente ma non esclusivamente nelle campagne) erano forniti gratuitamente da cliniche sanitarie locali, gestite da un ricco stuolo di medici scalzi. I successi dell’assistenza sanitaria del periodo socialista(5), come i suoi successi nel campo dell’istruzione di base e dell’alfabetizzazione, furono tanto sostanziali che persino i critici più severi della Cina dovet- tero riconoscerli. La schistosomiasi, la febbre delle lumache, [schistosomiasi o bilharziosi, malattia parassitaria cau- sata da vermi, ndr] che afflisse il paese per secoli, fu sostanzialmente spazzata via in gran parte del suo epicentro storico, per poi riprendere vigore quando il sistema sanitario socialista iniziò a venire smantellato. La mortalità infantile è scesa nettamente e, nonostante la carestia che accompagnò il Grande balzo in avanti(6), l’aspettativa di vita passò da 45 a 68 anni tra il 1950 e l’inizio degli anni Ottanta. Le vaccinazioni e le pratiche sanitarie di base si sono diffuse e le informazioni di base su nutrizione e su salute pubblica, nonché l’accesso ai medicinali di primo intervento, erano gratuiti e disponibili per tutti. Nel frattempo, il sistema dei medici scalzi ha contribuito a diffondere conoscenze mediche fondamentali, sebbene limitate, a una vasta parte della popolazione, contribuendo a costruire un sistema sanitario solido, dal basso verso l’alto, in condizioni di estrema povertà. È opportuno ricordare che questo avveniva quando la Cina era più povera anche rispetto all’attuale PIL pro capite delle popolazioni sub sahariane.

Dall’inizio degli anni Ottanta, un mix di dismissioni e privatizzazioni ha pesantemente degradato il Welfare cinese, proprio nel momento in cui la rapida urbanizzazione e la produzione industriale, non regolamentata, di beni di consumo, alimentari in primis, rendevano indispensabile l’ampliamento dell’assistenza sanitaria, senza dimenticare l’altrettanto importante necessità di stabilire una chiara normativa in materia alimentare, sanitaria e di sicurezza, tutto ciò di cui si aveva maggiore necessità. Oggi, secondo i dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, (OMS), la spesa pubblica cinese per la salute è di 323$ pro capite, una cifra bassa non solo rispetto ad altri paesi con un reddito medio superiore, ed è circa la metà di quanto spendono Brasile, Bielorussia e Bulgaria. La regolamentazione è minima o inesistente, con la conseguente sfilza di scandali come quelli prima ricordati. Nel frattempo, gli effetti di tutto ciò ricadono più duramente su centinaia di milioni di lavoratori migranti interni, per i quali qualsiasi diritto alle cure sanitarie di base svanisce completamente nel momento in cui lasciano la loro città di residenza, dove, sotto il sistema hukou [sistema di registrazione delle famiglie, ndr](7) risultano residenti perma- nenti, indipendentemente della loro residenza effettiva, il che significa che le risorse pubbliche non impiegate non sono disponibili altrove.

Formalmente, verso la fine degli anni Novanta, la sanità pubblica avrebbe dovuto essere sostituita da un sistema più privatizzato (sebbene gestito dallo Stato), in cui un mix di contributi sia delle imprese sia dei lavoratori avrebbe fornito assistenza medica, pensioni e abitazioni. Ma questo regime di previdenza sociale ha patito di contributi sistematici insufficienti, poiché i contributi considerati «obbligatori» da parte dei datori di lavoro vengono spesso bellamente ignorati, facendo sì che la stragrande maggioranza dei lavoratori debba pagare di tasca propria. Secondo l’ultima stima nazionale disponibile, solo il 22% dei lavoratori migranti interni godeva di un’assicurazione medica di base. Il mancato versamento di contributi al sistema di previdenza sociale non è, tuttavia, un semplice atto ma- landrino da parte di singoli padroni corrotti, è invece largamente dovuto al fatto che i risicati margini di profitto non lasciano ossigeno per la previdenza sociale. Nei nostri calcoli, abbiamo scoperto che in un centro industriale come Dongguan [8milioni di abitanti, ndr] chiedere alle imprese di versare i contributi non corrisposti, avrebbe dimezzato i profitti industriali e spinto molte aziende al fallimento. Per compensare le enormi carenze, la Cina ha istituito un regime medico supplementare di base, a copertura di pensionati e di lavoratori autonomi, sistema che paga in media solo poche centinaia di yuan per persona all’anno.

Il sistema sanitario cinese è «sotto assedio» e crea terrificanti tensioni sociali. Sono molti i membri della sanità che ogni anno vengono ammazzati e moltissimi vengono feriti nelle incursioni di pazienti infuriati o, più spesso, di familiari di pazienti deceduti nel corso delle cure. L’incursione più recente è avvenuta alla vigilia di Natale, quando, a Pechino, un medico è stato pugnalato a morte dal figlio di una paziente che riteneva che sua madre fosse morta per negligenti cure ospedaliere. Un sondaggio condotto tra i medici ha constatato che, incredibilmente, l’85% aveva subito violenza sul luogo di lavoro e un altro sondaggio del 2015 ha rilevato che il 13% dei medici cinesi era stato aggredito fisicamente l’anno precedente. I medici cinesi, in un anno, visitano il quadruplo di pazienti rispetto ai medici statuni- tensi, pur essendo pagati meno di 15mila$ all’anno – in termini relativi, è una cifra inferiore al reddito pro capite (16.760$) –, mentre negli Stati Uniti lo stipendio medio di un medico (circa 300mila$) è quasi cinque volte il reddito pro capite USA (pari a 60.200$). Prima che fosse chiuso, nel 2016, con l’arrestato i suoi promotori, l’ormai defunto progetto di blog di monitoraggio delle agitazioni di Lu Yuyu e Li Tingyu [cronisti cinesi indipendenti, ndr], registrava ogni mese le notizie di alcuni scioperi e proteste da parte degli operatori sanitari [VIII]. Nel 2015, ultimo anno con dati raccolti meticolosamente, ci furono 43 eventi del genere. Hanno anche registrato, per ogni mese, decine di «incidenti a causa di cure mediche [proteste]», suscitati da familiari di pazienti, di cui 368 nel 2015.

In tali condizioni di pesanti disinvestimenti pubblici dal sistema sanitario, non sorprende che COVID-19 si sia diffuso così facilmente. In concomitanza con il fatto che, in Cina, ci siano nuove malattie trasmissibili, al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni perché tali epidemie imperversino. Come nel caso dell’in- fluenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica tra i proletari hanno aiutato il virus a guadagnare terreno, da cui diffondersi rapidamente. Ma, ancora una volta, non è solo una questione di diffusione. Dobbiamo anche capire come il virus stesso si sia prodotto.

NON C’È PIÙ LA NATURA SELVAGGIA
Nel caso della più recente epidemia, il Coronavirus, la questione è meno semplice dei casi di influenza suina o aviaria, che sono decisamente legati al cuore del sistema agroindustriale. Da un lato, le origini precise del virus non sono ancora del tutto chiare. È possibile che provenga da maiali che sono tra i tanti animali domestici e selvatici venduti nei mercati all’aperto di Wuhan – presunto epicentro dell’epidemia –, in questo caso, la causa potrebbe essere più vicina ai casi prima menzionati, di quanto possa sembrare. Tuttavia, sembra più probabile puntare in direzione di un virus originato dai pipistrelli o, forse, dai serpenti, entrambi, solitamente, vengono presi in natura. Anche in questo caso c’è una relazione, dal momento che la diminuzione di disponibilità e di garanzie di carne di maiale, a causa dell’epidemia di peste suina africana, ha fatto sì che la crescita della domanda di carne fosse spesso soddisfatta dai mercati all’aperto con la vendita di carni di selvaggina di frodo. Ma senza il legame diretto con l’agricoltura industriale, si può davvero affermare che gli stessi processi economici comportino qualche complicità con questa specifica epidemia?

La risposta è sì, ma in modo differente. Ancora una volta, Wallace indica non uno, ma due principali veicoli attraverso i quali il capitalismo dà il suo contributo alla gestazione e all’esplosione di epidemie sempre più mortifere: il primo, sopra delineato, è quello direttamente connesso all’industria, in cui i virus sono incubati all’interno degli ambienti industriali, totalmente inglobati nelle logica del capitale. Il secondo veicolo è indiretto: si sviluppa con l’espansione e la devastazione capitalistiche nelle aree periferiche, dove virus fino ad allora sconosciuti contaminano una fauna selvatica e poi si diffondono lungo i traffici del capitale globale. I due veicoli non sono completamente separati, è pacifico, ma sembra che sia il secondo veicolo quello che meglio descrive l’emergere dell’attuale epide- mia [IX]. In questo caso, la crescente domanda di selvaggina per consumo, per uso medicale o (come nel caso dei cammelli e della MERS – Middle East Respiratory Syndrome) per una varietà di funzioni culturalmente significative, costruisce nuove catene di merci globali nei beni di consumo selvatici. In altri casi, le catene di valore(8) agroecologico preesistenti si estendono semplicemente a specie precedentemente selvatiche, mutando le ecologie locali e modificando le connessioni tra umano e non umano.

Wallace stesso è chiaro su questo aspetto, spiegando le diverse dinamiche che generano malattie peggiori, nonostante i virus stessi esistano già in ambienti naturali. L’espansione della stessa produzione industriale «potrebbe spingere ulteriormente alimenti selvatici, già capitalizzati, nei recessi degli ultimi ambienti primitivi, succhiando una più ampia varietà di agenti patogeni, potenzialmente proto pandemici». In altre parole, man mano che l’accu- mulazione capitalistica ingloba nuovi territori, gli animali vengono spinti in aree meno accessibili, dove entrano in contatto con ceppi di malattie precedentemente isolati – e ciò mentre quegli stessi animali stanno per diventare obiettivi di mercificazione perché «anche le specie di approvvigionamento più selvatiche vengono inserite in catene di valore agricolo». Allo stesso modo, questa espansione avvicina gli esseri umani a quegli animali e a quegli am- bienti, che «possono aumentare le connessioni [e spillover, squilibrio. Vedi: DAVID QUAMMEN, Spillover, Adelphi, Milano, 2012. Ndr] tra popolazioni selvatiche non umane e la nuova ruralità urbanizzata». Ciò offre al virus mag- giori opportunità e risorse per le mutazioni in modo da consentirgli di infettare l’uomo, aumentando la probabilità di ricaduta biologica. La stessa geografia industriale non è mai nettamente urbana o rurale, proprio come l’agricol- tura industrializzata e monopolizzata ricorre ad aziende agricole sia su larga che su piccola scala: «in una piccola azienda agricola padronale, ai margini della foresta, un animale commestibile può contrarre un agente patogeno prima di essere inviato in un macello nel hinterland di una grande città».

Il fatto è che la sfera naturale è già sussunta in un sistema capitalistico completamente globalizzato che è riuscito a cambiare le condizioni climatiche di base e a devastare una sequela di ecosistemi pre capitalistici [X] e i restanti non funzionano più, come avrebbero potuto funzionare in passato. E in questo interviene un altro fattore di causa- lità, poiché, secondo Wallace, tutti questi eventi di devastazione ecologica riducono «il tipo di complessità ambien- tale grazie alla quale la foresta sconvolge le catene di trasmissione». In realtà, è quindi sbagliato ritenere tali aree come periferia naturale in un sistema capitalizzato. Il capitalismo è già mondiale e già si sta totalizzando. Non ci sono più frontiere né confini con la sfera naturale non capitalista, al di là di esso, e quindi non esiste una lunga catena di sviluppo/progresso, in cui i paesi arretrati seguono quelli che li precedono nella loro ascesa, percorrendo la catena del valore, né alcuna oasi selvaggia(9), in grado di essere protetta, come una riserva, pura e incontaminata. Al contrario, il capitale ha semplicemente un entroterra a lui subordinato che, a sua volta. è completamente sussunto nelle catene globali del valore. I sistemi sociali che ne derivano – compreso tutto ciò che va dal cosiddetto tribalismo [primitivismo, ndr] al revival delle religioni fondamentaliste antimoderniste – sono frutti squisitamente contempo- ranei e sono quasi sempre, de facto, avanguardie dei mercati globali, e spesso anche direttamente. Lo stesso pos- siamo dire dei sistemi biologici-ecologici che ne conseguono, poiché le aree selvagge sono in realtà immanenti a codesta economia mondiale sia in senso astratto, in quanto dipendono dal clima e dagli ecosistemi correlati, sia in senso stretto, poiché sono collegati a quelle medesime catene globali del valore(10).

Questa situazione crea le condizioni ideali per la mutazione di ceppi virali selvaggi in pandemie globali. Ma COVID-19 non è certo il peggiore di questi ceppi. Una raffigurazione emblematica del principio di base – e del rischio globale – la vediamo in Ebola. Il virus Ebola [XI] è un chiaro esempio di serbatoio virale pre esistente che si è rovesciato sugli umani. Le indagini attuali indicano che i suoi veicoli originari sono varie specie di pipistrelli originari dell’Africa Centro-occidentale che agiscono certo come vettori ma che non vengono affetti dal virus. Lo stesso non avviene per altri mammiferi selvatici, come primati e duiker [antilope africana, ndr] che contraggono periodicamente il virus e soffrono di focolai rapidi e con un alto tasso di mortalità. Ebola ha un ciclo di vita parti- colarmente aggressivo che supera le specie che ne sono portatrici sane [asintomatiche, ndr]. Attraverso il contatto con qualsiasi di tali vettori selvatici, anche gli umani possono essere infettati, con esiti devastanti. Ci sono state diverse gravi epidemie e il tasso di mortalità nella maggior parte dei casi è stato estremamente elevato, quasi sempre superiore al 50%. Il più grande focolaio registrato che, sporadicamente, si è protratto dal 2013 al 2016 in diversi paesi dell’Africa occidentale, ha contato 11mila morti. Il tasso di mortalità per i pazienti ricoverati in ospedale durante questa epidemia fu tra il 57 e il 59% e fu molto più elevato per coloro senza accesso agli ospedali. Negli ultimi anni, diversi vaccini sono stati sviluppati da parte di società farmaceutiche private, ma normative di registra- zione lente e farraginose, riguardo ai diritti di proprietà intellettuale, si sono unite alla diffusa mancanza di un’infrastruttura sanitaria e hanno contribuito a causare una situazione in cui i vaccini hanno fatto poco per contra- stare la più recente – e per ora più lunga – epidemia di Ebola, concentrata nella Repubblica Democratica del Congo (RDC).

La malattia viene spesso presentata come se fosse una disastro naturale, nella migliore delle ipotesi casuale, nella peggiore frutto delle sporche pratiche culturali dei povereretti che vivono nelle foreste. Ma i tempi di queste due grandi epidemie (nel 2013-2016 in Africa occidentale e nel 2018 ad oggi, presumibilmente nella RDC) non sono una coincidenza. Entrambe si sono verificate proprio quando l’espansione delle industrie agro-alimentari ha vieppiù emarginato le popolazioni che vivono nelle foreste e ha sconvolto gli ecosistemi locali. In effetti, questa coincidenza sembra essersi verificata nella maggioranza dei casi più recenti, poiché, come spiega Wallace, «ogni epidemia di Ebola sembra connessa a cambiamenti nell’utilizzo capitalistico dei suoli, a partire del primo focolaio scoppiato nel 1976 a Nzara, in Sudan, dove una fabbrica, finanziata dal Regno Unito, filava e tesseva cotone prodotto in loco». Allo stesso modo, le epidemia del 2013 in Guinea sono avvenute subito dopo che un nuovo governo aveva iniziato ad aprire il Paese al mercato mondiale e a vendere grandi estensioni di terreni a giganti internazionali del settore agroalimentare. L’industria dell’olio di palma – tristemente nota per il suo ruolo nella deforestazione e nella deva- stazione ecologica a scala mondiale –, sembra sia stata particolarmente colpevole, poiché le sue monocolture da un lato devastano i presidi ecologici che aiutano a fermare le catene di trasmissione e, allo stesso tempo, attraggono, nel vero senso della parola. quelle specie di pipistrelli che fungono da veicolo naturale del virus [XII].

Contestualmente, la vendita di grandi estensioni di terreni alle società commerciali agroforestali comporta sia l’espropriazione delle popolazioni locali che vivono nelle foreste sia l’interruzione delle loro attività di produ- zione e raccolto dipendenti dall’ecosistema. Questa situazione, spesso, costringe gli espropriati delle zone rurali a inoltrarsi ancor più nella foresta e, allo stesso tempo, spezza la loro relazione tradizionale con quell’ecosistema. Il risultato è che la loro sopravvivenza dipende sempre più dalla caccia alla selvaggina o dalla raccolta di vegetali e legnami locali per la vendita sui mercati mondiali. Tali popolazioni diventano quindi bersagli dell’ira delle organizzazioni ambientaliste mondiali che li infamano come bracconieri e come taglialegna illegali, responsabili della deforestazione e del disastro ecologico, proprio quei disastri che invece hanno spinto gli indigeni a tali attività. Spesso, gli sviluppi prendono una deriva ancora più tetra, come in Guatemala, dove i paramilitari anti- comunisti, reduci dalla guerra civile, sono stati riciclati nelle forze di sicurezza verdi, con il compito di proteggere la foresta dal disboscamento illegale, dalla caccia e dal narcotraffico, che erano poi gli unici lavori disponibili per gli indigeni, spinti a tali attività proprio a causa della violenta repressione che avevano subito, durante la guerra, per mano di quegli stessi paramilitari [XIII]. Da allora, il modello è stato esportato in tutto il mondo, applaudito su post dei social media nei Paesi ricchi che celebrano l’esecuzione (spesso in ripresa diretta) di bracconieri da parte di presunte forze di sicurezza verdi [XIV].

L’ISOLAMENTO COME ESERCIZIO DELL’ARTE DI GOVERNO
COVID-19 ha attratto l’attenzione mondiale con una forza senza precedenti. Ebola, influenza aviaria e SARS, ov- viamente, eccitavano tutta la loro dose di fregole mediatiche. Ma questa nuova epidemia ha generato un diverso tipo di ostilità. In parte, questo è quasi certamente dovuto, almeno in parte, alla grandiosa spettacolarizzazione della risposta del governo cinese, che ha dato spazio a immagini altrettanto spettacolari di megalopoli svuotate, in netto contrasto con la normale immagine mediatica di una Cina sovraffollata e super inquinata. Questa risposta è stata anche una ghiotta occasione per la solita speculazione sull’imminente collasso politico o economico del Paese, eccitando ancor di più le persistenti tensioni provocate dalla guerra commerciale con gli Stati Uniti. Situa- zione che, unendosi alla rapida diffusione del virus, gli conferisce il carattere di una immediata minaccia mondiale, nonostante il suo basso tasso di mortalità [XV].

A un livello più profondo, tuttavia, l’aspetto che appare più allettante della risposta dello Stato è il modo con cui è stata inscenata, attraverso i media, come una sceneggiata melodrammatica per la piena mobilitazione della contro insurrezione interna. Questo ci offre preziosi spunti di riflessione sulla capacità repressiva dello Stato cinese, ma sottolinea anche la sua più intima incapacità, rivelata dalla necessità di fare affidamento in modo tanto pesanteme su un mix di assillante propaganda, enfatizzata dei media in tutti suoi risvolti, e di appelli alla buona volontà della popolazione locale che, altrimenti, non avrebbe avuto alcun obbligo materiale a conformarsi. Sia la propaganda cinese sia quella occidentale hanno sottolineato il reale significato repressivo della quarantena: la propaganda cinese la presenta come un esempio di efficace intervento governativo di fronte a un’emergenza, quella occidentale come l’ennesimo esempio di totalitarismo da parte della Cina, in quanto Stato distopico [utopia negativa, ndr]. La verità taciuta, tuttavia, è che la stessa aggressività repressiva indica la più profonda incapacità dello Stato cinese che, a sua volta, è ancora in una fase in cui molto resta da costruire.

Tutto questo ci dà un’idea sulla natura dello Stato cinese, mostrandoci come stia sviluppando nuove e inedite tecniche di controllo sociale in risposta alle crisi, tecniche che possono essere attivate anche in condizioni in cui gli apparati statali di base siano scarsi o assenti. Tali condizioni, di contro, offrono un quadro ancora più interessante (benché più speculativo) su come la classe dirigente in un determinato Paese potrebbe rispondere quando crisi ge- neralizzate e un’insurrezione in atto mettano in panne anche Stati più forti. L’epidemia virale è stata favorita sotto tutti gli aspetti da scarso coordinamento tra i vari livelli governativi: la repressione dei medici informatori da parte di funzionari locali è in contrasto con gli interessi del governo centrale, le inefficaci procedure di segnalazione ospedaliera e le assolutamente carenti erogazioni di assistenza sanitaria di base sono solo alcuni esempi. Nel frat- tempo, i vari governi locali sono tornati alla normalità, seppure con ritmi diversi, e sono quasi completamente al di fuori del controllo dello Stato centrale (tranne in Hubei, l’epicentro). Al momento in cui scriviamo queste note, sembra assolutamente aleatorio sapere quali porti siano operativi e quali località abbiano ripreso la produzione. Ma questa quarantena improvvisata ha fatto sì che le reti logistiche da città a città su grandi distanze rimangano interrotte, poiché qualsiasi governo locale sembra che sia in grado di impedire tout-court il transito di treni o di camion merci attraverso i suoi confini. E questa incapacità di fondo del governo cinese l’ha costretto a gestire il virus come se fosse un’insurrezione, giocando alla guerra civile contro un nemico invisibile.

Gli organismi statali nazionali hanno realmente iniziato a funzionare il 22 gennaio, quando le autorità hanno rafforzato i provvedimenti urgenti in tutta la provincia di Hubei e hanno pubblicamente dichiarato di avere l’autorità legale per allestire strutture di quarantena, nonché per raccattare tutto il personale, i veicoli e le strutture necessarie per contenere la malattia o per creare blocchi e controllare il traffico (imprimendo il sigillo dell’ufficialità statale a fenomeni che sapevano che si sarebbero comunque verificati). In altre parole, il pieno dispiegamento delle forze statali, in realtà, è iniziato con una richiesta di sforzi volontari da parte della popolazione locale. Da un lato, una catastrofe così grave metterà a dura prova le capacità di qualsiasi Stato (vedi, ad esempio, come vengono affrontati gli uragani negli Stati Uniti(11). Ma, dall’altro, l’emergenza Covid-19 riproduce un modello tipico nell’arte del go- verno cinese, secondo la quale, lo Stato centrale, in assenza di formali strutture di comando efficienti, formali e applicabili fino a livello locale, deve invece fare affidamento su un mix di inviti, ampiamente pubblicizzati, alla mobilitazione di funzionari e cittadini locali e una serie di sanzioni ex post, inflitte a coloro che non si sono attenuti agli inviti, come si pretendeva (sanzioni spacciate come repressione della corruzione). L’unica risposta veramente efficace si trova in aree specifiche, in cui lo Stato centrale concentra la sostanza del suo potere e del suo impegno – in questo caso, Hubei in generale e Wuhan in particolare. La mattina del 24 gennaio, la città era già completamente immobile, senza treni in entrata o in uscita, quasi un mese dopo da quando venne individuato il nuovo ceppo del Coronavirus. I responsabili della sanità nazionale hanno dichiarato che le autorità sanitarie avrebbero avuto la pos- sibilità di esaminare e di mettere in quarantena chiunque, a propria discrezione. Oltre le principali città del Hubei, dozzine di altre città della Cina, tra cui Pechino, Guangzhou, Nanchino e Shanghai, hanno effettuato blocchi di varia entità sui flussi di persone e di merci, in entrata e in uscita, dai loro confini.

In risposta alla richiesta di mobilitazione dello Stato centrale, alcune località hanno preso iniziative bizzarre e severe. Le più scioccanti sono state prese in quattro città della provincia di Zhejiang, dove, a trenta milioni di per- sone, sono stati imposti passaporti locali, consentendo a un solo componente per famiglia di uscire di casa una volta ogni due giorni. Città come Shenzhen e Chengdu hanno ordinato l’isolamento di ogni quartiere e disposto la qua- rantena di interi immobili per 14 giorni, nel caso si fosse rilevato anche un solo caso di virus. Nel frattempo, sono avvenuti centinaia di arresti o di multe per aver diffuso voci infondate sulla malattia e alcuni di coloro che erano fuggiti dalla quarantena sono stati arrestati e condannati a un lungo periodo di detenzione. Le carceri stesse stanno patendo una grave epidemia , a causa dell’incapacità dei funzionari di isolare le persone malate, proprio in una struttura progettata apposta per l’isolamento. Questo tipo di misure disperate e aggressive rispecchia quelle di casi estremi di contro insurrezione che richiamano subito alla mente gli interventi di occupazione militare-coloniale in Paesi come l’Algeria o, più recentemente, la Palestina. Mai, prima d’ora, erano stati condotti su questa scala, né in megalopoli di questo tipo che ospitano gran parte della popolazione mondiale. La condotta della repressione offre quindi una lezione molto particolare per coloro che hanno il pensiero rivolto alla rivoluzione mondiale, dal momento che, in sostanza, assistiamo a uno esempio scottante di reazione statale.

INCAPACITÀ
Questa particolare repressione si giova del suo apparente carattere umanitario, con lo Stato cinese in grado di
mobilitare una moltitudine di persone del posto, per aiutare in quella che sarebbe, essenzialmente, la nobile causa di soffocare la diffusione del virus. Ma, come c’è da aspettarsi, questi provvedimenti repressivi possono ritorcersi contro gli autori. Dopo tutto, la contro insurrezione è una guerra disperata, scelta solo quando diventano inutili più solide forme di sottomissione, pacificazione e coinvolgimento economico. È un’azione costosa, inefficiente e di retroguardia che denuncia la più profonda incapacità di qualunque potere che abbia voluto scatenarla, siano gli interessi coloniali francesi, il decadente imperialismo americano o altri. Il risultato della repressione è quasi sempre una successiva insurrezione, insanguinata dallo strangolamento della prima e, quindi, ancora più disperata. Qui, in Cina, la quarantena difficilmente potrà mostrare la realtà della guerra civile e della contro insurrezione. Ma anche in questo caso, la repressione si è ritorta contro sé stessa. Con gran parte delle energie statali concentrate sul controllo dell’informazione e sulla martellante propaganda, strombazzata con ogni possibile mass media, le inquie- tudini si sono ampiamente manifestate in seno agli stessi media.

Il 7 febbraio, la morte del Dr. Li Wenliang, uno dei primi a denunciare i pericoli del virus(12), scosse i cittadini relegati nelle loro case in tutto il Paese. Li Wenliang era uno degli otto medici arrestati dalla polizia per aver diffuso informazioni false all’inizio di gennaio, prima di contrarre egli stesso il virus. La sua morte ha scatenato la rabbia dei netizen [internettisti, ndr], stimolando una dichiarazione di dispiacere da parte del governo di Wuhan. La gente iniziò ad accorgersi che lo Stato è costituito da funzionari e burocrati maldestri che non hanno idea di che cosa fare, pur mantenendo la faccia cattiva [XVI]. Questa situazione si è palesata chiaramente, quando il sindaco di Wuhan, Zhou Xianwang, è stato costretto ad ammettere alla televisione di Stato che il suo governo aveva ritardato nel dare informazioni critiche sul virus, dopo che un focolaio si era verificato. La stessa tensione causata dall’epidemia, unita a quella generata dalla mobilitazione totale dello Stato, ha iniziato a rivelare alla popolazione le profonde crepe che si celano dietro al ritratto su carta velina che il governo dipinge di sé stesso. In altre parole, in condizioni come queste l’incapacità fondamentale dello Stato cinese è diventata evidente a un numero crescente di persone che, in precedenza, avrebbero accolto la propaganda del governo come oro colato.

Se si potesse trovare un’immagine simbolo che esprima l’essenza della risposta dello Stato, sarebbe simile al video, girato da un cittadino di Wuhan e condiviso con Internet in Occidente, via Twitter a Hong Kong [XVII]. In breve, mostra alcune persone che sembrano medici o soccorritori di primo intervento, con un equipaggiamento protettivo completo, che scattano foto con la bandiera cinese. Colui che gira il video spiega che ogni giorno sono fuori da quell’edificio per un reportage. Il video segue poi gli uomini che si tolgono l’equipaggiamento protettivo e si fermano a chiacchierare e fumare, usando una delle tute per pulire la macchina. Prima di andarsene, uno degli uomini getta senza indugio la tuta protettiva in un vicino bidone della spazzatura, senza nemmeno preoccuparsi di infilarla fino in fondo dove non sarebbe visibile. Video come questo si sono diffusi rapidamente prima, di essere censurati: piccoli flash, sul fragile schermo dello spettacolo inscenato dallo Stato.

A un livello più sostanziale, la quarantena ha anche iniziato a mostrare la prima ondata di ripercussioni econo- miche nella vita personale della gente. L’aspetto macroeconomico è stato ampiamente documentato, con una forte riduzione della crescita cinese che rischia di causare una nuova recessione globale, specialmente se abbinata alla permanente stagnazione in Europa e un recente calo di uno dei principali indici economici degli Stati Uniti che mostra un improvviso declino delle attività commerciali. In tutto il mondo, le aziende cinesi e quelle struttural- mente legate alle reti di produzione cinesi stanno ora considerando le clausole di forza maggiore che consentono di ritardare o annullare gli impegni di entrambe le parti sanciti da un contratto commerciale quando diventa impos- sibile rispettarli. Sebbene al momento sia improbabile [i recenti sviluppi la rendono assai probabile, se non certa, ndr], questa semplice prospettiva ha dato la stura all’assordante richiesta di riprendere la produzione in tutto il Paese. Le attività economiche, tuttavia, sono riprese solo in maniera frammentaria, in alcune aree tutto si è avviato senza intoppi mentre in altre tutto è fermo a tempo indeterminato. Attualmente, il 1 marzo è stata stabilito come data provvisoria in cui le autorità centrali hanno chiesto che tutte le aree, eccetto l’epicentro del focolaio, tornino al lavoro.

Ma ci sono altri effetti meno visibili, anche se probabilmente molto più importanti. Molti lavoratori immigrati, compresi quelli che erano rimasti nelle città in cui lavorano per la Festa di Primavera o che avevano intenzione di rientrare prima che fossero stabiliti i vari blocchi, ora sono sospesi in un angosciante limbo. A Shenzhen, dove la stragrande maggioranza della popolazione è migrante, la gente del posto riferisce che il numero di senzatetto ha iniziato a salire. Ma molti di coloro che compaiono nelle strade non sono senzatetto di lungo corso, hanno l’aspetto di essere stati letteralmente scaricati lì, senza nessun altro posto dove andare – indossano ancora abiti relativamente belli, non sanno dove dormire all’aperto o dove ottenere cibo. In vari palazzi della città c’è stato un aumento die piccoli furti, soprattutto il cibo depositato davanti alla porta degli inquilini, chiusi in casa per la quarantena. In generale, poiché la produzione è ferma, i lavoratori stanno perdendo i salari. Nei casi migliori, le interruzioni del lavoro trasformano le fabbriche in dormitori per la quarantena, come imposto nello stabilimento di Shenzhen Foxconn, dove i nuovi rimpatriati sono confinati nei loro alloggi per una settimana o due, gli corrispondono circa un terzo dei loro salari abituali, poi hanno il permesso di ritornare in produzione. Le imprese più povere non hanno tale possibilità e il tentativo del governo di aprire linee di credito con bassi interessi alle piccole imprese probabil- mente, alla lunga, servirà a poco. In alcuni casi, sembra che il virus acceleri semplicemente la preesistente tendenza di dislocare altrove le fabbriche, aziende come Foxconn trasferiscono la produzione in Vietnam, India e Messico per compensare il calo.

UNA GUERRA SURREALE
Nel frattempo, la maldestra e affrettata reazione al virus, la scelta dello Stato di privilegiare misure particolar- mente punitive e repressive per controllarlo e l’incapacità del governo centrale di coordinare efficacemente l’azione tra le varie località, destreggiandosi simultaneamente tra produzione e quarantena, indicano la pro- fonda insipienza degli apparati statali. Se, come sostiene il nostro amico Lao Xie [vedi intervista: https://lib- com.org/forums/asia/interview-10102018, ndr], l’amministrazione Xi Jinping ha puntato decisamente sulla costru- zione dello Stato, sembrerebbe che ci sia ancora molto da fare, al riguardo. Allo stesso tempo, se la campagna contro COVID-19 può anche essere considerata una lotta al coltello contro l’insurrezione, è bene sottolineare che il governo centrale ha solo le capacità di un efficace coordinamento nell’epicentro di Hubei e che le sue risposte in altre pro- vince – anche in centri ricchi e rinomati, come Hangzhou – restano in gran parte scomposte e sconfortanti. Possiamo interpretare ciò in due modi: in primo luogo, come lezione sulla debolezza su cui si fonda il potere statale, e in secondo luogo, contro la minaccia che rappresentano risposte locali non coordinate e irrazionali, quando gli apparati dello Stato centrale sono sopraffatti.

Queste sono lezioni importanti per un’epoca in cui i disastri provocati da una sfrenata accumulazione capitali- stica contaminano, a livello superiore, il sistema climatico globale e, a livello inferiore, i substrati microbiologici della vita sulla Terra. Tali crisi saranno sempre più ricorrenti. Via via che la secolare crisi del capitalismo assumerà aspetti apparentemente non economici, nuove epidemie, carestie, inondazioni e altri disastri naturali serviranno come giustificazione per estendere il controllo statale e la risposta a queste crisi funzionerà sempre più come un’oc- casione per mettere a punto nuovi strumenti, non ancora testati, di contro insurrezione. Una politica comunista coerente deve cogliere entrambi questi aspetti. A livello teorico, questo significa comprendere che la critica del capitalismo si impoverisce ogni volta che viene separata dalle cosiddette scienze naturali. Ma a livello pratico, implica anche che l’unico possibile progetto politico, oggi, sia quello di potersi orientare in un terreno minato da un diffuso disastro ecologico e microbiologico, operando in un perpetuo stato di crisi e isolamento sociale.

In una Cina in quarantena, iniziamo a intravedere un simile scenario, almeno a grandi linee: strade deserte a fine inverno, spruzzate di neve immacolata, facce illuminate dal telefono che scrutano fuori dalle finestre, posti di blocco gestiti da infermieri o poliziotti o volontari, oppure figuranti stipendiati per sceneggiate con bandiere, che ti dicono di indossare la mascherina e di tornare a casa. Il contagio è sociale. Quindi, non dovrebbe sorprendere che l’unico modo per combatterlo in una fase così avanzata sia di scatenare una sorta di guerra surreale contro la società stessa. Non riunirti, non provocare il caos. Ma anche dall’isolamento si può costruire il caos. Allorché i forni di tutte le fonderie si raffreddano fino a ridursi in braci appena scoppiettanti, infine cenere raffreddata dalla neve, non si può impedire a una moltitudine di piccoli disperati di rompere la quarantena per trasformarsi in un caos ancora più grande che, un giorno, potrà essere difficile da contenere, come questo contagio sociale.

NOTE ARTICOLO:
1) Vedi, KARL MARX, Il Capitale, Libro I, Sezione 7, cap. 24, La cosiddetta accumulazione originaria. A proposito dell’espropriazione delle terre, Marx cita la frase in cui Tommaso Moro parla di uno strano paese, in cui: «… e le pecore divorano gli uomini», Utopia, trad. Robinson, Arbor, Londra, 1869, p. 41.
2) Vedi: LAURA SPINNEY, 1918 L’influenza spagnola. La pandemia che cambiò il mondo, Marsilio/Feltrinelli, Venezia, 2019. (ndr)
3) Gilded Age. Termine che evoca vagamente le corporazioni medioevali (gilde). Così è definito il periodo del boom economico degli Stati Uniti d’America, tra 1870 e 1900, soprattutto al Nord e all’Ovest. Fu caratterizzato da grandi ricchezze e da grandi povertà, ovvero da forti sperequazioni che accrebbero le tensioni sociali. Vedi ultra. [ndr]
4) Comunque, inferiori agli standard europei che, via via, furono elusi, per favorire costi di produzione più bassi alle merci europee (UE) e, al contempo, contenere i salari con beni di consumo a buon mercato (e scadenti). [ndr]
5) Gli autori, con comprensibile nostalgia, definiscono socialista la fase in cui, in Cina come in Italia, il Welfare State assicurava servizi pubblici essenziali, in particolare sanità e istruzione. [ndr]
6) Grande balzo in avanti, espressione che definisce lo sforzo per industrializzare la struttura economica cinese, fino ad allora essenzialmente rurale. Fu varato tra il 1958 e il 1961. L’eccessiva accelerazione e le misure avventate provocarono una carestia, con milioni di morti (da 14 a 40 milioni). Vedi: CHARLES REEVE, La tigre di carta. Saggio sullo sviluppo del capitalismo in Cina dal 1949 al 1972, Edizioni La Fiaccola, Ragusa, 1974, capp, VI-IX. Charles Reeve è autore di altri libri sulla Cina.[ ndr]
7) Durante il Ventennio fascista, in nome del ruralismo, vennero fortemente limitate le migrazioni interne. Vedi: ANNA TREVES, Le migrazioni interne nell’Italia fascista, Einaudi, Torino, 1976. [ndr]
8) Il ricorrente termine valore deve essere interpretato alla luce della critica dell’economia politica scolpita da Marx. Vedi: KARL MARX, Il Capitale, Libro Primo, varie edizioni. In sintesi, nella società del Capitale, il valore costituisce ciò che – come il dio delle religioni rivelate – si frappone fra l’essere umano e la natura, il cosmo. Concetto estremamente delicato per rozzi palati che, spesso, ha dato adito a interpretazioni stravaganti, soffiate dai venti del momento. Vedi: ANSELM JAPPE, Verso una storia della critica del valore, https://www.sinistrainrete.info/marxismo/3658-anselm-jappe-.html.
9) Il termine inglese wild/wilderness l’abbiamo reso, a nostra discrezione, con i termini italiani selvaggio o selvatico, nonché primitivo. [ndr]
10) In queste righe, è evidente la critica alla concezione teleologica della storia (hegeliana) e, al contempo, la critica del primitivismo, abbozzati in: DINO ERBA e altri, Il sole non sorge più a Ovest. Significati e forme delle rivoluzioni al tempo della Grande Crisi. Riflettendo con Marx: razze, etnie, genere e l’immancabile sfruttamento operaio, All’Insegna del Gatto Rosso, Milano, 2017. I riferimenti di fondo sono in: KEVIN B. ANDERSON, Marx aux antipodes. Nations, ethnicité et sociétés non occidentales, Edition Syllepse, Paris – Editeur M, Québec, 2015.
11) Vedi, per esempio, l’uragano Katrina che devastò la Costa del Golfo degli Stati Uniti, nell’agosto 2005. [ndr]
12) Il 3 gennaio 2020, dopo che, il 30 dicembre 2019, Li Wenliang aveva lanciato l’allarme sulla polmonite di Wuhan, la polizia di Wuhan lo ammonì di non creare allarmismi. Egli riprese le sue ricerche e contrasse il virus da un paziente infetto che lo fece morire all’età di 33 anni. [ndr]

Versione originale: Social contagion:Microbiological class war in China, in: http://chuangcn.org/

[I] Gran parte di ciò che spiegheremo in questa sezione è semplicemente un riassunto più conciso degli argomenti di Wallace, orientato verso un pubblico più generale e senza la necessità di presentare il caso ad altri biologi attraverso l’esposizione di argomentazioni rigorose e prova circostanziate. Per coloro che contesterebbero le evidenze di fondo, ci riferiamo in toto al lavoro di Wallace e dei suoi compatrioti.
[II] ROBERT G. WALLACE, Big Farms Make Big Flu: Dispatches on Infectious Disease, Agribusiness, and the Nature of
Science, Monthly Review Press, New York, 2016. p. 52.
[III] Ibid, p. 56
[IV] Ibid, pp. 56-57 [V] Ibid, p. 57
[VI] Questo non vuol dire che il confronto tra Stati Uniti e la Cina di oggi non sia anche istruttivo. Dal momento che gli Stati Uniti hanno il loro enorme settore agroindustriale, essi stessi contribuiscono enormemente alla produzione di nuovi virus perniciosi, per non parlare delle infezioni batteriche resistenti agli antibiotici.
[VII] Vedi: JF. BRUNDAGE, GD. SHANKS, What really happened during the 1918 influenza pandemic? The impor- tance of bacterial secondary infections [L’importanza delle infezioni batteriche secondarie]. «The Journal of In- fectious Diseases», Volume 196, n. 11, dicembre 2007, pp. 1718-1719, dove l’autore affronta 1718-1719; e: DM.

MORENS, AS. FAUCi, The 1918 influenza pandemic: Insights for the 21st century. «The Journal of Infectious Di- seases», Vol. 195, n. 7, aprile 2007. pp 1018-1028.
[VIII] Vedi «Picking Quarrels» nel secondo numero del nostro giornale: http://chuangcn.org/journal/two/picking- quarrels/
[IX] A modo loro, questi due percorsi di generazione pandemica rispecchiano ciò che Marx chiama sussunzione reale e formale nella sfera della produzione, così come si è storicamente dispiegata. Nella sussunzione reale, l’attuale pro- cesso di produzione stesso viene modificato attraverso l’introduzione di nuove tecnologie, in grado di intensificare il ritmo e l’entità della produzione, nello stesso modo in cui l’ambiente industriale ha cambiato le condizioni di base dell’evoluzione dei virus, parimenti avviene che nuove mutazioni siano generate a un ritmo più rapido e con maggiore virulenza. Nella sussunzione formale, che precede quella reale, queste nuove tecnologie non sono ancora state imple- mentate. Semplicemente, avviene che forme di produzione esistenti vengano riunite grazie a nuove nuove collocazioni che sono in relazione con il mercato mondiale, come nel caso dei lavoratori con telai a mano che vengono riuniti in un’officina che vende i loro prodotti con profitto – situazione che è simile al modo in cui i virus prodotti in un ambiente naturale escono dalle popolazioni selvagge ed entrano nelle popolazioni domestiche, attraverso il mercato mondiale. [Riguardo al concetto di sussunzione formale e sussunzione reale, vedi: JACQUES CAMATTE, Il capitale totale. Il «capitolo VI» inedito de «Il Capitale» e la critica dell’economia politica, Dedalo, Bari, 1976, ndr].
[X] Tuttavia, sarebbe sbagliato equiparare questi ecosistemi a quelli pre-umani. La Cina è un esempio perfetto, dal mo- mento che molti dei suoi ambienti naturali, apparentemente primordiali, erano, in effetti, il prodotto di periodi molto più antichi di espansione umana che eliminarono specie che, precedentemente, erano comuni sulla terraferma dell’Asia orientale, come gli elefanti.
[XI] Tecnicamente, questo è un termine generico per indicare cinque o più virus distinti, il più micidiale dei quali è, a sua volta, semplicemente chiamato virus Ebola, precedentemente virus Zaire.
[XII] Per il caso specifico dell’Africa occidentale, vedi: RG. WALLACE, R. KOCK, L. BERGMANN, M. GILBERT, L. HO- GERWERF, C. PITTIGLIO, R. MATTIOLI, RODRICK WALLACE, Did Neoliberalizing West African Forests Produce a New Niche for Ebola, «International Journal of Health Services», Vol. 46, n. 1, 2016. Per una visione più diretta sulla connessione tra condizioni economiche ed Ebola in quanto tale, vedi: ROBERT G WALLACE e RODRICK WALLACE (Eds), Neoliberal Ebola: Modeling Disease Emergence from Finance to Forest and Farm, Springer, Berlino ecc., agosto 2016. Per la dichiarazione più diretta sul caso, anche se meno accademica, vedi l’articolo di Wallace, linkato sopra: Neoliberal Ebola: the Agroeconomic Origins of the Ebola Outbreak, «Counterpunch», 29 luglio 2015, https:
//www.counterpunch.org/2015/07/29/neoliberal-Ebola-the-agroeconomic-origine-of-the-Ebola-outbreak/
[XIII] Vedi: MEGAN YBARRA, Green Wars: Conservation and Decolonization in the Maya Forest, University of Cali- fornia Press, Berkeley, 2017.
[XIV] È certamente sbagliato dire che tutto il bracconaggio è praticato dalla popolazione povera rurale locale o che tutte le forze ranger nelle foreste nazionali di diversi paesi operano allo stesso modo degli ex paramilitari anticomunisti, ma gli scontri più violenti e i casi più aggressivi di militarizzazione delle foreste sembrano essenzialmente seguire questo schema. Per una panoramica ad ampio raggio del fenomeno, vedi il numero speciale del 2016 di «Geoforum», dedicato all’argomento. La prefazione è disponibile in: ALICE B. KELLY e MEGAN YBARRA, Green security in pro- tected areas, «Geoforum», Volume 69, 2016. pp.171-175, http://gawsmith.ucdavis.edu/uploads/2/0/1/6/20161677/ kelly_ybarra_2016_green_security_and_pas.pdf.
[XV] Il Covid-19 è di gran lunga la più debole di tutte le epidemie menzionate, il suo alto bilancio di vittime è stato soprattutto il risultato della sua rapida diffusione a un gran numero di ospiti umani, causando moltissime vittime. nonostante abbia un tasso di mortalità molto basso.
[XVI] In un’intervista podcast, Au Loong Yu [attivista e scrittore di Hong Kong, ndr], citando amici della Cina conti- nentale, afferma che il governo di Wuhan sia paralizzato dall’epidemia. Au Loong Yu ritiene che la crisi non stia solo lacerando il tessuto sociale, ma anche l’apparato burocratico del PCC, che si approfondirà quando il virus, diffonden- dosi, provocherà una crisi via via più pesante per i governi locali, in tutto il Paese. L’intervista è di Daniel Denvir di«The Dig», pubblicata il 7 febbraio: https://www.thedigradio.com/podcast/hong-kong-with-au-loong-yu/
[XVII] Il video è autentico, ma è bene ricordare che Hong Kong è stata un tipico crogiolo di atteggiamenti razzisti e di teorie cospiratorie, dirette verso la Cina continentale e il PCC. Ugualmente, dovrebbe essere attentamente con- trollato tutto di ciò che viene pubblicato sul virus dai social media dei cittadini di Hong Kong.

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Da dove è arrivato il Coronavirus, e dove ci porterà?
Intervista con Robert Wallace, autore di “Big Farms Make Big Flu

Quanto è pericoloso il nuovo coronavirus?
Dipende da dove ti trovi rispetto alla temporalità del focolaio di Covid-19: nel momento iniziale, di picco, tardivo? Quanto è efficace la risposta della sanità pubblica della tua regione? Quali sono le caratteristiche demografiche della tua zona? Quanti anni hai? Sei compromesso dal punto di vista immunitario? Qual è il tuo stato di salute? Per porre una domanda che non ha risposta: la tua immunogenetica, la genetica sottostante alla tua risposta immunitaria, combacia col virus o no?

Quindi tutto questo clamore attorno al virus è solo una tattica della paura?
No, certamente no. A livello di popolazione, il Covid-19 oscillava tra un tasso di mortalità tra il 2 e il 4% all’inizio del focolaio a Wuhan. Fuori da Wuhan, il tasso di mortalità sembra scendere più intorno all’1% e anche meno, ma sembra anche avere delle impennate in alcuni punti qua e là, alcuni luoghi dell’Italia e degli Stati Uniti. La sua portata non sembra molto in confronto, ad esempio, al 10% della Sars, al 5-20% dell’influenza del 1918, al 60% dell’influenza aviaria H5N1, o al 90% di alcune fasi dell’Ebola. Ma certamente eccede il tasso di mortalità dello 0.1% dell’influenza stagionale. In ogni caso il pericolo non è solo una questione di tasso di mortalità. Dobbiamo confrontarci con quella che viene chiamata penetrazione o tasso di attacco alla comunità: ovvero quanta della popolazione globale viene penetrata dal contagio.

Puoi essere più specifico?
La rete globale di spostamenti è a un livello di connessione senza precedenti. Senza vaccini o antivirali specifici per i coronavirus, né (almeno fino ad ora) alcuna immunità registrata al virus, anche un ceppo con solo l’1% di mortalità può rappresentare un pericolo considerevole. Con un periodo di incubazione che può arrivare fino a due settimane e un’evidenza crescente di alcuni contagi precedenti alla malattia – ossia prima di sapere che le persone sono infette – pochi luoghi saranno verosimilmente liberi dall’infezione. Se, diciamo, il Covid-19 registrasse un 1% di fatalità nel corso dell’infezione di 4 miliardi di persone, questo vorrebbe dire 40 milioni di morti. Una piccola percentuale di un grande numero resta comunque un numero elevato.

Sono numeri spaventosi per un agente patogeno apparentemente minore…
Assolutamente. E siamo solo all’inizio del contagio. È importante capire che molte nuove infezioni cambiano nel corso dell’epidemia. Infettività, virulenza, o entrambe potrebbero attenuarsi. Dall’altro lato, altri focolai dilagano in virulenza. La prima ondata della pandemia influenzale nella primavera del 1918 era un’infezione relativamente mite. Sono state la seconda e la terza ondata durante quell’inverno e fino al 1919 che hanno ucciso milioni di persone.

Ma gli scettici della pandemia sostengono che il coronavirus abbia contagiato e ucciso meno pazienti dell’influenza stagionale. Cosa ne pensi?
Sarei il primo a celebrare se questo contagio fosse un’esagerazione. Ma questi tentativi di liquidare il Covid-19 come una minaccia minore citando altre malattie letali, specialmente l’influenza, è una costruzione retorica per far credere che la preoccupazione in merito al coronavirus sia mal riposta.

Quindi la comparazione con l’influenza stagionale è errata?
Ha poco senso comparare due patologie in punti differenti delle loro curve epidemiche. Sì, l’influenza stagionale infetta molti milioni di persone in tutto il mondo ogni anno, uccidendone, secondo stime OMS, fino a 650,000 all’anno. Covid-19, tuttavia, sta solo cominciando il suo viaggio epidemico. E, al contrario dell’influenza, non abbiamo vaccino né immunità di gregge per rallentare il contagio e proteggere le popolazioni più vulnerabili.

Anche se l’accostamento è fuorviante, entrambe le patologie appartengono ai virus, persino ad un gruppo specifico, i virus RNA. Entrambe possono causare malattia. Entrambi colpiscono la zona della bocca e della gola e a volte anche i polmoni. Entrambe sono molto contagiose.
Queste sono similitudini superficiali che tralasciano una parte essenziale della comparazione delle due patologie. Sappiamo molto sulle dinamiche dell’influenza, sappiamo molto poco di quelle del Covid-19. Sono avvolte dal mistero. In realtà, ci sono molte cose del Covid-19 che sono impossibili da conoscere fino a quando il contagio non raggiunge il suo picco. Allo stesso tempo, è importante capire che non è un problema di Covid-19 versus influenza. È Covid-19 e influenza. L’emersione di più infezioni capaci di diventare pandemiche, che attaccano popolazioni in combo, dovrebbe essere il problema centrale.

Hai studiato le epidemie e le loro cause per molti anni. Nel tuo libro “Big Farms Make Big Flu” cerchi di connettere le pratiche zoo-agricole industriali, quelle organiche e l’epidemiologia virale. Quali sono le tue conclusioni?
Il vero pericolo di ogni nuovo focolaio è il fallimento o, per dirla meglio, il rifiuto di comprendere che ogni nuovo caso di Covid-19 non è un incidente isolato. L’aumento dell’incidenza dei virus è strettamente legato alla produzione alimentare e ai profitti delle multinazionali. Chiunque voglia comprendere come mai i virus stanno diventando più pericolosi deve indagare il modello industriale dell’agricoltura e in particolare la produzione del bestiame. Al momento, pochi governi e pochi scienziati sono pronti a farlo. Abbastanza il contrario di ciò che andrebbe fatto. Quando i nuovi focolai esplodono, governi, media e addirittura la maggior parte del personale medico sono talmente focalizzati sulle nuove emergenza che non si curano delle cause strutturali che stanno portando numerosi agenti patogeni marginali a diventare, uno dopo l’altro, delle vere e proprie “celebrità„ mondiali.

Di chi è la colpa?
Ho detto l’agricoltura industriale, ma bisogna adottare una prospettiva più ampia. Il Capitale é in prima linea nell’accaparrarsi terre nelle ultime foreste vergini e nelle piccole proprietà terriere in tutto il mondo. Questi investimenti portano con sé la deforestazione e lo sviluppo, che a loro volta portano all’emergenza delle malattie. La diversità e complessità funzionale che queste grosse porzioni di territorio rappresentano stanno venendo messe alla prova in maniera tale che agenti patogeni che prima erano importati adesso si impiantano nel bestiame e nelle comunità umane locali. Per dirla in breve, i centri del capitale come Londra, New York, Hong Kong dovrebbero essere considerati i primi focolai di contagio.

Di quali malattie parliamo?
Non ci sono agenti patogeni slegati dall’azione del Capitale a questo punto. Anche i più lontani ne sono coinvolti, qualora distalmente Ebola, il virus Zika, i coronavirus, la febbre gialla, una varietà di influenze aviarie e l’influenza suina africana sono alcuni tra i molti agenti patogeni che stanno uscendo dai più remoti hinterland per avanzare nelle zone peri-urbane, nelle capitali regionali e infine farsi strada nel network dei flussi di trasporto globali. Dai pipistrelli erbivori del Congo arrivano ad uccidere i bagnanti di Miami in poche settimane.

Quale è il ruolo delle multinazionali in questo processo?
Il pianeta Terra è ormai diventato il Pianeta Azienda Agricola, sia per biomassa che per porzione di terra utilizzate. L’agroindustria sta puntando a mettere all’angolo il mercato alimentare. La quasi totalità del progetto neoliberale è basata sul supportare i tentativi da parte di aziende provenienti dai paesi più industrializzati di espropriare terreni e risorse dei paesi più deboli. Come risultato, molti di questi nuovi agenti patogeni precedentemente tenuti sotto controllo dagli ecosistemi a lunga evoluzione delle foreste stanno venendo liberati, minacciando il mondo intero.

Quali sono gli effetti dei metodi produttivi dell’agroindustria su tutto questo?
L’agricoltura a guida capitalista che rimpiazza ecosistemi naturali offre le possibilità perfette agli agenti patogeni per evolvere e sviluppare i fenotipi più virulenti e contagiosi. Non si potrebbe immaginare un sistema migliore per sviluppare malattie mortali.

In che termini?
Allevare monoculture genetiche di animali domestici rimuove ogni tipo di barriera immunologica in grado di rallentare la trasmissione. Grandi densità di popolazione facilitano un più alto tasso di trasmissione. Condizioni di tale sovrappopolamento debilitano la risposta immunitaria [collettiva]. Alti volume di produzione, aspetto ricorrente di ogni produzione industriale, forniscono una continua e rinnovata scorta di suscettibili, benzina per l’evoluzione della virulenza. In altri termini l’agroindustria è talmente concentrata sui profitti che l’essere colpiti da un virus che potrebbe uccidere un miliardo di persone è considerato come un rischio che val la pena correre.

Cosa?
Queste multinazionali possono tranquillamente esternalizzare i costi delle loro operazioni epidemiologicamente pericolose su chiunque. Dagli stessi animali ai consumatori, i contadini, gli habitat locali e i governi attraverso giurisdizioni particolari. I danni sono tanto estesi che se dovessimo conteggiarli nei fogli di bilancio delle stesse multinazionali l’agroindustria, per come la conosciamo, cesserebbe di esistere. Nessuna multinazionale potrebbe sostenere i costi [reali] dei danni che produce.

Su molti media si proclama che l’epicentro del coronavirus sia stato un “mercato di cibo esotico” a Wuhan. Questa descrizione è veritiera?
Sì e no. Ci sono indizi territoriali in favore di questa idea. Il tracciamento dei contatti ha ricollegato infezioni al Mercato all’Ingrosso del Pesce di Huanan, nel Whuan, dove si vendono animali selvatici. Il campionamento ambientale sembra individuare l’estremità occidentale del mercato, dove vengono tenuti questi animali. Ma quanto all’indietro e quanto estesamente dobbiamo ripercorrere le tracce? In quale momento è effettivamente iniziata l’emergenza? Il focalizzarsi sul mercato perde di vista l’origine dell’agricoltura non domestica [wild] nell’entroterra e la sua crescente capitalizzazione. A livello globale, e in Cina, la produzione di cibo da animali selvatici [wild food] sta diventando in modo sempre più effettivo un settore economico a sé. Ma le sue relazioni con l’agricoltura industriale vanno ben oltre l’essere entrambe proprietà degli stessi miliardari. Non appena la produzione industriale – che sia di maiale, pollame o simili – si espande nelle foreste primarie, mette pressione ai cacciatori di selvaggina, che sono costretti a cercarla più in profondità, aumentando l’interfaccia e lo “spillover” di nuovi agenti patogeni, tra cui il Covid-19.

Il Covid-19 non è il primo virus nato in Cina che il governo ha cercato di insabbiare.
È vero, ma in questo la Cina non fa eccezione. Anche gli Stati Uniti e l’Europa sono stati epicentro di molte nuove forme influenzali, di recente l’H5N2 e l’H5Nx, e le loro multinazionali, con i loro avamposti neocoloniali sono state responsabili dell’emergenza dell’Ebola in Africa occidentale, della Zika in Brasile. I funzionari statunitensi della sanità pubblica hanno fatto da copertura per le aziende sia durante l’epidemia di H1N1 (2009) che durante l’H5N2.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha dichiarato lo stato di pandemia. E’ una misura corretta?
Si. Il pericolo di un agente patogeno simile è che le autorità sanitarie non abbiano il polso sulle statistiche riguardanti la distribuzione del rischio. Non abbiamo idea di come il virus possa rispondere. Siamo passati da un focolaio in un mercato a un’infezione diffusa in tutto il mondo nel giro di poche settimane. L’agente patogeno potrebbe semplicemente estinguersi. Sarebbe magnifico. Ma non possiamo saperlo. Una migliore preparazione potrebbe incrementare le probabilità di minare alla base la velocità di propagazione del virus. La dichiarazione dell’OMS è anche parte di quello che io chiamo “teatro della pandemia”. Le organizzazioni internazionali sono scomparse. Torna in mente la Società delle Nazioni. L’ONU è sempre preoccupata della sua rilevanza, del suo potere, dei suoi finanziamenti. Ma questo “azionismo” potrebbe piuttosto convergere sull’effettiva preparazione e prevenzione di cui il mondo ha bisogno per interrompere la catena di trasmissione del Covid-19.

La ristrutturazione neoliberale del sistema sanitario ha peggiorato sia la ricerca che la cura dei pazienti, per esempio negli ospedali. Quali differenze potrebbe fare un sistema sanitario maggiormente finanziato nella lotta contro il virus?
C’è la terribile ma significativa vicenda di un dipendente di un’azienda di attrezzature mediche che, appena tornato dalla Cina con sintomi simili a quelli dell’influenza, fece la cosa più giusta verso la propria famiglia e la propria comunità, richiedendo all’ospedale locale un tampone per Covid-19. Era preoccupato che la sua assicurazione minima garantita dall’”Obamacare” non coprisse il test. Aveva ragione. Si trovò improvvisamente fregato per 3270 dollari. Una rivendicazione per gli americani potrebbe essere l’approvazione di un decreto d’emergenza che stabilisca che, in caso di un focolaio di pandemia, tutte le fatture mediche in sospeso, legate ai test per infezione e per la cura, in seguito a un tampone positivo, vengano pagate dal governo federale. Vogliamo incoraggiare le persone a cercare aiuto, piuttosto che a nascondersi – infettando altre persone – perchè non possono permettersi di pagare le cure. La soluzione più ovvia sarebbe un sistema sanitario nazionale – perfettamente formato e attrezzato per affrontare emergenze così pervasive nella comunità – cosicché un problema tanto ridicolo, come lo scoraggiare la cooperazione comunitaria, non possa neanche sorgere.

Non appena il virus viene scoperto in un paese, ovunque i governi reagiscono con misure autoritarie e punitive, come la quarantena obbligatoria di intere aree, regioni e città. Misure così drastiche sono giustificate?
Utilizzare un focolaio per testare le ultime novità in termini di controllo autocratico post-focolaio è capitalismo dei disastri fuori controllo. In materia di salute pubblica, preferirei sbagliarmi nell’eccesso di fiducia e compassione, che sono variabili epidemiologiche importanti. Senza di esse, la sola giurisdizione perde il supporto della popolazione. Senso di solidarietà e rispetto reciproco sono aspetti cruciali nel promuovere la cooperazione di cui abbiamo bisogno per sopravvivere a queste minacce insieme. Quarantene autoimposte, con il dovuto supporto – controlli da parte di brigate solidali di quartiere ben preparate, consegne di cibo porta-a-porta, permessi di lavoro, sussidi di disoccupazione – possono suscitare quel sentimento comunitario per cui ci siamo dentro tutti e tutte insieme.

Conservatori e neo-nazisti, come l’AfD in Germania hanno cominciato a diffondere report (falsi) sul virus e a richiedere al governo misure più autoritarie: voli interdetti e stop agli ingressi dei migranti, chiusura dei confini e quarantene forzate…
I divieti di viaggiare e la chiusura dei confini sono rivendicazioni con cui l’estrema destra vuole razzializzare quelle che ora sono malattie diffuse a livello globale. Tutto ciò, ovviamente, non ha senso. A questo punto, dal momento che il virus è sul punto di diffondersi ovunque, la cosa più importante da fare è lavorare per migliorare la resilienza della sanità pubblica, in modo che, chiunque si presenti con un’infezione, si possa disporre dei mezzi per ricoverarlo e curarlo. E chiaramente, è necessario in primo luogo smettere di sottrarre terre in altri paesi e provocare esodi migratori, così da impedire sul nascere l’emergere di nuovi patogeni.

Quali potrebbero essere dei cambiamenti sostenibili?
Nell’ottica di ridurre l’insorgere di nuove epidemie di virus, deve cambiare radicalmente la produzione alimentare. Autonomia degli agricoltori e un forte settore pubblico possono contenere l’impatto ambientale e scacciare le infezioni. Bisogna introdurre riserve e colture – e ripristinare aree non coltivate – sia nelle aziende agricole che a livello regionale; permettere agli animali di riprodursi sul posto per consentire loro di sviluppare e trasmettere le proprie immunità. Fornire sussidi e programmi di acquisto per i consumatori in supporto alla produzione agroecologica; infine, difendere questi esperimenti sia dalle coercizioni che l’economia neoliberale impone sugli individui e sulle comunità sia dalle minacce della repressione statale a guida capitalistica.

Cosa dovrebbero chiedere i socialisti di fronte alle crescenti dinamiche di epidemie virali?
L’agroindustria, come forma di riproduzione sociale, deve terminare per davvero, anche solo per una questione di salute pubblica. La produzione altamente capitalizzata di cibo dipende da pratiche che mettono in pericolo la totalità della specie umana, in questo caso contribuendo a provocare una nuova mortale pandemia. Dovremmo rivendicare la socializzazione dei sistemi alimentari in modo da impedire sul nascere l’emersione di nuovi patogeni così pericolosi. Ciò richiederà in primo luogo di armonizzare la produzione di cibo con le esigenze delle comunità agricole e, inoltre, di implementare pratiche agroecologiche che proteggano l’ambiente e gli agricoltori nel momento in cui coltivano il nostro cibo. Su una scala più ampia, dobbiamo curare le fratture metaboliche che separano la nostra economia dall’ecologia. In breve, abbiamo un pianeta da riguadagnare.
(Traduzione dal sito https://www.marx21.de/)