DISCORSO SULLA SANITÁ – PARTE 2

CAPITOLO 3
IL CASO LOMBARDO

A livello nazionale, la sanità lombarda è considerata un vero e proprio fiore all’occhiello con le sue strutture d’eccellenza, tanto da essere (come visto nella parte precedente) la principale meta verso cui si dirigono la maggior parte dei migranti sanitari.

Nel quadro delle trasformazioni che hanno portato la sanità a rappresentare uno strumento di auto valorizzazione per il Capitale, il caso lombardo rappresenta una sorta di avanguardia nella sperimentazione dello sdoganamento di pratiche neoliberiste.

A partire dall’anno 2018, attraverso la riforma sociosanitaria lombarda, sono stati introdotti dei significativi cambiamenti che vorrebbero stravolgere la gestione dei pazienti affetti da malattie croniche. Per Regione Lombardia le cose, nonostante la massiccia campagna pubblicitaria, non sono andate come previsto poiché i medici di famiglia non hanno ceduto alle pressioni del Pirellone; soltanto il 48% dei medici di base ha aderito al nuovo programma. Su un bacino di malati cronici di 968.551 soltanto 7.433 (dati al giugno 2018) sono stati arruolati dai Gestori: meno dell’un per cento.

Lo scopo di questo tentativo di trasformazione, a detta della Regione, è quello di semplificare l’accesso alle cure per i pazienti cronici, riducendo i tempi di attesa e i disagi. In realtà, nelle righe che seguono, andremo a vedere come questo sia un meccanismo che permetterebbe alla regione di risparmiare sulla spesa sanitaria, a danno dei pazienti cronici, la cui vita si complicherebbe ancor più di prima.

Riportiamo qui sotto un breve paragrafo, pubblicato sul sito web della Regione Lombardia, attraverso il quale è possibile farsi un’idea delle basi sulle quali sono stati introdotti i cambiamenti.

Delibera della domanda

Il modello di gestione della cronicità si basa sull’ipotesi che la risposta a differenti livelli di domanda, e quindi fabbisogni, sia da ricercare in diversi set assistenziali. La creazione di cluster omogenei di domanda è stata realizzata utilizzando le due dimensioni relative, la prima alla patologia cronica principale (prime due cifre del codice CReG), la seconda alla presenza o meno, quindi alla quantità, di comorbilità.

Quest’ultima rappresenta la complessità, definita nei tre seguenti livelli:

  • Livello 1: soggetti ad elevata fragilità clinica in cui sono presenti oltre la patologia principale almeno tre comorbilità (quattro o più patologie complessive);
  • Livello 2: soggetti con cronicità polipatologica in cui è presente la patologia principale e una o due comorbilità (due o tre patologie complessive);
  • Livello 3: soggetti con una cronicità in fase iniziale, presenza della sola patologia principale.

Per ciascun cluster di soggetti, distinti per patologia e livello di complessità, si sono individuati profili di consumo, specifici per gli ambiti farmaceutico, ambulatoriale e ricovero. I profili di consumo rappresentano le combinazioni di prestazioni maggiormente ricorrenti. Per ciascuna di queste vengono riportati il numero di soggetti, il consumo annuale, totale e medio, per ambito di spesa. Per ogni specifica patologia sono rappresentati i diversi ambiti di spesa suddivisi a loro volta secondo i differenti livelli di complessità, ovvero:

  • Farmaceutica: Primo Livello, Secondo Livello e Terzo Livello;  
  • Ambulatoriale: Primo Livello, Secondo Livello e Terzo Livello;
  • Ricovero: Primo Livello.

Nello specifico, il paziente cronico può decidere se su ogni singola cronicità voglia essere seguito da un Gestore o dal proprio medico di base. Qualora scelga il Gestore, questo diventa  l’unica figura autorizzata a programmare esami e terapie legati alla malattia cronica per la quale ha scelto di affidarsi a lui.

Dice Regione Lombardia:

«Il Gestore organizza tutti i servizi sanitari e sociosanitari necessari a rispondere alle necessità del paziente, programmando prestazioni ed interventi di cura specifici, prescrivendo le cure farmacologiche più appropriate, garantendo un’assistenza continuativa e alleggerendo il cittadino dalla responsabilità di prenotare visite ed esami. Il Gestore è il soggetto “titolare” della presa in carico. Operativamente il rapporto con il paziente viene seguito da una figura sanitaria medica (il “Clinical Manager”) e da una figura sanitaria non medica – ad es. un infermiere (il “Case Manager”) per gli aspetti organizzativi.»

Riassumendo quindi, il Gestore:

  • sottoscrive il patto di cura con il paziente e redige il Piano Assistenziale Individuale (PAI);
  • prende in carico proattivamente il paziente, anche attraverso la prenotazione delle prestazioni;
  • eroga le prestazioni previste dal PAI, direttamente o tramite partner di rete accreditati;
  • monitora l’aderenza del paziente al percorso programmato.

La realtà è che qualora il paziente scelga di affidarsi al Gestore, l’accesso alle cure diventa per lui ancor più complicato e macchinoso rispetto al passato. Questo a causa dei conflitti di competenze tra medico di base e Gestore. Infatti, quando un paziente ha necessità di sottoporsi ad un esame, la prima cosa da accertare è se questo rientri in quelli legati alla patologia cronica o meno. In caso positivo, la prescrizione può farla solamente il Gestore: il paziente rischia di essere rimbalzato dal medico al Gestore e viceversa solo per stabilire di chi sia la competenza.

Chi sono questi gestori, nello specifico?

Secondo Regione Lombardia:

«Possono essere Gestori solo i soggetti risultati idonei a trattare una o più patologie croniche, in base alla valutazione effettuata dalle Agenzie di Tutela della Salute territorialmente competenti, tra questi: Aziende Socio Sanitarie Territoriali, ospedali pubblici e privati accreditati, le associazioni o cooperative di Medici di Medicina Generale e Pediatri di Libera Scelta, le strutture sociosanitarie quali ad esempio: Residenze Sanitarie Assistenziali (RSA), Centri Diurni Integrati (CDI), Strutture riabilitative ambulatoriali. Un ente sanitario o sociosanitario con ruolo di Gestore può avere più Punti di Accesso sul territorio (presidi sanitari/sociosanitari, ambulatori, ecc.).»

Anche ai medici di base è stata offerta la possibilità di entrare in questi enti, diventando di fatto dei gestori, o di continuare nel proprio ambulatorio in qualità di co-gestori. La maggior parte dei medici lombardi, attualmente, ha rifiutato questa opzione, scegliendo di continuare il proprio lavoro come ha sempre fatto.

La scelta ha validità di un anno, al termine del quale il paziente può decidere di rinnovare, può cambiare Gestore o tornare a farsi seguire dal proprio medico di base. 

Nel caso del Gestore, ogni anno la regione stabilisce un budget pro-paziente relativo ad ogni singola cronicità: qualora il Gestore faccia spendere alla Regione meno di quanto pianificato, questo ottiene un premio in denaro. Non è quindi fantascienza immaginare che il Gestore farà di tutto per risparmiare e ottenere il premio, e che la Regione, grazie a questo stratagemma, spenderà sempre meno di quanto previsto inizialmente.

Prendiamo, l’esempio di una persona con patologie partico-larmente acute e che ha esaurito il suo “budget” prima del previsto:  il Gestore farà di tutto per risparmiare e far tornare i conti. Questo significa che il Gestore lo costringerà a rinunciare a visite, esami e cure, con tutti i rischi che questo comporta. Inoltre, un Gestore, è libero di non rinnovare il proprio “contratto” con un paziente, se questo dovesse essere particolarmente problematico e avesse un costo troppo elevato.

Un altro aspetto che andrà ulteriormente a complicare la vita delle persone affette da patologie croniche è quello di un’altra figura che affianca il Gestore, ovvero l’erogatore.

Come visto in precedenza, lo scopo del Gestore è quello di risparmiare e fare risparmiare alla regione il più possibile. Per questo motivo stipula accordi di natura economica con strutture sanitarie quali ospedali o ambulatori all’interno delle quali mandare i propri pazienti: ecco gli erogatori, ossia coloro che materialmente erogano le prestazioni mediche per conto del Gestore.

I pazienti dovranno obbligatoriamente recarsi presso le strutture imposte dal Gestore, altrimenti pagheranno le prestazioni come visite private. Questo potrebbe significare per molti dover abbandonare le strutture e i medici che li seguivano da anni, e magari doversi recare in ospedali lontani dalla propria zona di residenza.

Eppure abbiamo visto che qualora un paziente non si trovi bene col proprio Gestore, alla fine dell’anno può decidere di cambiarlo: vero, ma cambiare Gestore significa perdere tutte le prestazioni che erano state programmate. Questo proprio perché ogni Gestore ha i suoi differenti erogatori con i quali ha stabilito accordi. Oltre a tutto ciò c’è da aggiungere che il Gestore può essere allo stesso tempo erogatore di servizi, con un evidente conflitto di interessi nella eventuale prescrizione di esami o visite mediche.

Ciò che emerge è che attraverso questa delibera viene sperimentata l’applicazione del “libero mercato” all’ambito della sanità: come per la luce, il gas e il telefono, i pazienti potranno scegliere di affidarsi ad un Gestore piuttosto che ad un altro, ossia a fornitori privati di prestazioni medici. I vari gestori cercheranno di accaparrarsi i pazienti-clienti con offerte e promesse: non ci stupiremo quindi se inizieremo a vedere pubblicità e campagne di marketing che invoglino i pazienti a scegliere un Gestore piuttosto che un altro.

È pur vero che al momento c’è possibilità di scelta e che questa sia legata solo alle malattie croniche, ma l’esperimento potrebbe estendersi ad altri campi e a tutto il territorio nazionale, fino a diventare la prassi comune. In Inghilterra è già successo, e  il sistema sanitario è stato devastato da un’operazione di privatizzazione simile (e a cui probabilmente i leghisti si sono ispirati). Ovviamente a pagarne le spese, con conseguenze spesso tragiche, sono i meno abbienti, che non hanno la possibilità di compensare le mancanze del sistema sanitario pubblico attraverso il pagamento di prestazioni private.

Come già accennato ad inizio articolo, questo tentativo è stato fallimentare per i primi mesi di sperimentazione. In ogni caso il livello di attenzione a riguardo non deve calare, tanto più in un periodo in cui si sta ridiscutendo il contratto nazionale dei medici, il quale può portare a notevoli sconvolgimenti nel panorama delle competenze regionali e nazionali. Questo potrebbe obbligare i medici ad adottare i provvedimenti “caldamente” promossi da Regione Lombardia, il cui modello potrebbe poi essere esportato anche in altre Regioni e zone d’Italia.

 Sempre meglio tenere la guardia alta, poiché si ha a che fare con un sistema di potere che è peggio della mitologica Medusa .

ARIDI ARDITI

Dobbiamo ammettere che ci ha strappato un sorriso il manifesto con cui l’ANAI (Associazione Nazionale Arditi d’Italia) ha organizzato un programma di incontri con base logistica la Casa Militare Umberto I di Turate. Si va dalla partecipazione alla commemorazione della morte di Mussolini a Predappio – sì, la stessa della decerebrata di Budrio con la maglietta di Aushwitzland – alla partecipazione alla manifestazione a Trieste in ricordo della “vittoria” della I guerra mondiale.
Il manifesto si apre con l’invito rivolto “a tutti i credenti”.
Questi nostalgici più che arditi appaiono aridi, giacchè gli Arditi – prima di essere cappellati e in parte assimilati, dapprima dai fasci da combattimento del ’19 e poi dal nascente regime fascista, e prima anche della scissione in Arditi e Arditi del Popolo – erano senza dubbio figli del tempo, di un tempo lontano un secolo da noi in cui la spavalderia, la violenza, il coraggio e l’azione libertaria erano assai più di gradimento rispetto a oggi.
Come se non bastasse la Casa Militare di Turate è intitolata a Umberto I, Re passato alla storia, sia per aver ordinato al generale Bava Beccaris di sparare sulla folla insorta a Milano nel 1898, sia per essere stato ucciso a Monza da un anarchico, Gaetano Bresci.
Ci è piaciuto darvi notizia di questa loro presenza e di queste loro iniziative, perchè ancora oggi c’è chi sente proprio lo spirito libertario che spinse Gaetano Bresci a vendicare i morti di due anni prima. E ancora oggi c’è chi ha nelle vene l’arditismo di certi che non barattarono mai la propria indipendenza di pensiero per seguire il gregge o il dogma del regime nascente, di chi di una guerra mondiale non potrebbe mai parlare di vittoria, perchè la propria patria sono il mondo e gli sfruttati, propria legge la libertà, e i propri nemici sfruttatori, oppressori, sgherri e i loro complici da sempre: i fascisti.

SARONNO, UOVA SUGLI ESPONENTI NAZIONALI DI FDI

Apprendiamo dalla stampa locale che nella giornata di sabato 27 l’inaugurazione della nuova sede di Fratelli d’Italia, intitolata ad Italo Balbo, in via Ramazzotti 33 a Saronno, è stata accolta con calore dalla cittadinanza. Infatti attorno alle 18.30 i pochi presenti – fra loro Ignazio La Russa, Riccardo De Corato e il sindaco leghista Alessandro Fagioli – sono stati oggetto di un lancio di uova. Ad accompagnare il tutto anche qualche coro che ricordava loro che ruolo hanno nella guerra civile che stanno fomentando: fascisti di merda.

Nella foto i numerosi giovani accorsi alla presentazione:

Inaugurazione sede Fratelli d’Italia a Saronno in via Ramazzotti 33, da notare i numerosi giovani accorsi

NO NATO – NO GUERRE

27 Ottobre 2018: nonostante la giornata fredda e ventosa, circa un centinaio di persone hanno partecipato al presidio davanti alla base NATO di Solbiate Olona (VA). La mobilitazione lanciava un messaggio forte e chiaro: radicale contrarietà alla Nato e ad un sistema  che rende possibile e necessaria la guerra.

Diverse volte è stato perturbato il tranquillo sabato pomeriggio del centro commerciale adiacente alla base. Ci sono stati ripetuti volantinaggi agli automobilisti e agli avventori del centro e un piccolo ma colorito corteo che ha attraversato il parcheggio e la galleria dei negozi, con slogan ed interventi  al megafono.

 

OTTOBRE CON TEMPERATURE ALTE

Il mese di ottobre, oltre a un clima decisamente sopra le linee, ci ha regalato alcune pennellate utili a dare colore all’umore dei tempi, troppo spesso incolore, ma che la persona dotata di buon olfatto non fatica a riconoscere. E allora ecco la nostra carrellata di ottobre, tra notizie di merda e altre utili a rinfrancare lo spirito:

OMERO
Lo scorso 12 ottobre nel tardo pomeriggio, nel corso di una delle tante operazioni di controllo realizzata dalla sempre più militarizzata Polizia Locale a firma Alessandro Fagioli, è successo un inciampo. In zona stazione un agente della Locale si è rotto l’omero.
E’ successo in via Ferrari dove l’agente ha cercato di controllare due persone le quali, per una volta, si sono date alla fuga. L’agente, tutt’altro che agile e sportivo, cercando di trattenere uno dei due fuggitivi è rocambolescamente caduto riportando la frattura dell’omero.

NEGRI AL SUPERMERCATO
Il giorno dopo, nel capoluogo di provincia, uno dei tanti episodi che spesso rimangono nell’ombra è invece uscito alla ribalta nazionale. “Non voglio essere servita da un negro. Non mi va proprio”. Così una donna sulla quarantina, bianca, italiana, rispettosa della Legge, ha lasciato la spesa sul nastro trasportatore della cassa di un supermercato di Varese. Subito dopo ha lanciato alcune lattine in direzione del malcapitato e se n’è andata pur di non dover interagire con il cassiere di colore che in quel momento era l’unico a cui i clienti potevano rivolgersi.

NEGRI SULLE PANCHINE
Torniamo a Saronno, città in cui negli ultimi 5 anni si sono susseguite allucinanti ordinanze liberticide prima a tinta PD e poi Lega. Si è passati dal divieto di sedersi sui gradini o di bere dalle fontanelle, all’uso regolare del Daspo Urbano. Avete già i brividi? Ma il bello deve ancora arrivare. Allo sceriffo Fagioli è arriva una lettera con la firma di tanti commercianti di corso Italia per chiedere di “aumentare i controlli contro il degrado” e di “spostare le nuove panchine in altre location”.
A scatenare l’ultima presa di posizione, l’arrivo in centro di una dozzina di nuove panchine in piazza Volontari del Sangue, la preoccupazione dei negozianti è che invece di accogliere clienti affaticati tra un acquisto e l’altro servano ad altre persone per sedersi in non produttive attività di svago. “Tempo sfaccendato trascorso né a produrre né a consumare? Orrore! Sceriffo, pensaci tu!”
Parrebbe il Medioevo, per l’idea distorta che i più ne hanno, e invece è la quotidianità che ci viviamo. Finita qui? Ma va! L’ex assessore silurato Francesco Banfi direttamente dall’oratorio ci tiene a ricordare che “sbaglia chi legge un blando no alle panchine, al povero o un accenno di razzismo: nulla di tutto ciò. La richiesta che avanzano i commercianti è pulizia, ordine e decoro, da intendersi anche sprofondanti nelle questioni presidio del territorio e sicurezza: basterebbe questo per non avere sporcizia e panchine popolate da gente che beve alcolici, dorme, minaccia, fa risse o urina in bella vista. […]
Per dare un suggerimento all’amministrazione: occorre dare mandato alla Polizia Locale di controllare le panchine; può essere redatta una mappa della dislocazione dell’arredo urbano.”

Dobbiamo ammetterlo: non avremmo una fantasia tale da riuscire a inventare un racconto fantastico all’altezza.

PICCHETTO ALLA GLS A BRUNELLO
Il 23 ottobre a Brunello mattinata dei tensione ai cancelli dalla GLS, la compagnia di trasporto che ha una filiale gestita da un subappaltatore.
Un gruppo di lavoratori, 4 della ditta stessa e una decina di rappresentanti del sindacato Sol Cobas, ha bloccato attorno alle 7.30 l’ingresso della ditta fermando i camion in arrivo.
Ci sono stati momenti di alta tensione e uno dei titolari dell’azienda finito a terra è stato soccorso per un malore.
Sono intervenuti i carabinieri che hanno presidiato il picchetto di protesta.
I dipendenti lamentano la violazione dell’orario di lavoro con turni troppo pesanti e atteggiamenti intimidatori da parte dei manager.

NUOVA SEDE FDI A SARONNO
E infine torniamo nuovamente a Saronno, dove tra omeri fratturati e panchine vietate non ci si annoia mai. Il prossimo sabato 27 ottobre la città degli amaretti subirà l’ennesima violenza, è prevista l’inaugurazione del nuovo circolo Fratelli d’Italia, infatti in via Ramazzotti al civico 33 troverà casa la sezione di Saronno e di Cislago.
Dopo l’apertura, a fini esclusivamente elettoralistici, della sede adiacente corso Italia ora l’apertura di una nuova sede. E anche stavolta non mancano i nomi ad accompagnare la pantomima: annunciata la presenza di Ignazio La Russa e Daniela Santanchè, dell’onorevole Paola Frassinetti, Carlo Fidanza, Andrea del Mastro e degli assessori regionali Riccardo De Corato e Lara Magoni.

LA GUERRA DIETRO L’ANGOLO

Ringraziamo i compagni di Radio Cane per la realizzazione di questo prezioso contributo audio.

Da radiocane.info :

Nell’industrioso territorio lombardo non possono certo mancare fabbriche di morte e aziende coinvolte nell’indotto della guerra. Farne una mappatura è, per gli animi sensibili al ticchettio, cosa buona e giusta. Così han fatto alcuni compagni in vista del presidio alla base Nato di Solbiate Olona (Va) di sabato 27 ottobre 2018. Un compagno attivo nel Forum contro la guerra ci illustra i contorni di questa iniziativa.

DISCORSO SULLA SANITÁ – PARTE 1

Introduzione

Abbiamo deciso di iniziare a scrivere questo documento circa un anno fa, quando abbiamo letto sulla stampa a proposito di un nuovo sistema di gestione dei pazienti cronici introdotto dalla Regione Lombardia a partire dal 2018: il cosiddetto Gestore.

Questo ci ha portato a fare delle riflessioni tra di noi su quello che oggi rappresenta la sanità per la società in cui viviamo, e ci siamo resi conto di quanto questo ambito (spesso trascurato) abbia oggi un ruolo centrale in termini di produzione di valore e conseguentemente ci siamo interessati all’impatto che questo produce sulla vita delle persone.

Il quadro che oggi si delinea è quello di una sanità proiettata sempre più verso la privatizzazione, con uno Stato che assume sempre meno la funzione assistenziale nei confronti degli strati più deboli della sua popolazione. L’idea diffusa che la salute sia un diritto sta venendo meno, con una parte di persone sempre più ampia esclusa dalle cure sanitarie, che vi accede con forti difficoltà per ragioni economiche, o che si è indebitata a causa di queste.

Noi pensiamo che le ragioni di questa trasformazione siano strettamente collegate all’evoluzione delle condizioni produttive che hanno determinato una forte modifica del ruolo assistenziale che lo Stato è chiamato ad assumere.

Nell’affrontare queste discussioni, abbiamo dovuto fare i conti con la scarsità di materiale in grado di offrire un punto di vista radicale e approfondito sull’argomento, cosa che ci ha portato a decidere di sviluppare questo documento.

Il testo  “Tutt’attorno. Ristrutturazione del Welfare e nuove frontiere dell’esclusione e dell’inclusione sociale”, pubblicato circa un anno fa da alcuni compagni e compagne di Torino, include un capitolo sulle trasformazioni del sistema sanitario ed è stato per noi uno strumento molto valido e con il quale ci siamo confrontati per lo sviluppo di questo testo.

Il  nostro documento cercherà di comprendere, in termini innanzitutto storici, le ragioni che hanno portato alla situazione attuale, per poi approfondire più nel dettaglio alcuni meccanismi nell’auspicio che possa fungere, in futuro, da strumento utile ad eventuali lotte. Con questo facciamo riferimento sia alle lotte interne alle strutture ospedaliere, che coinvolgono quindi i lavoratori di questo settore, sia lotte più “esterne”, che coinvolgono coloro che pagano sulla propria pelle le conseguenze di queste trasformazioni (es. lotte contro accorpamenti di strutture ospedaliere, contro le chiusure dei reparti, contro tagli di posti letto ecc.)

Il documento sarà diviso in tre parti così definite:

  1. La sanità si trasforma in settore produttivo.
  2. Analisi della trasformazione: l’ambito nazionale.
  3. Analisi della trasformazione: l’avanguardia lombarda.

 sanità

Capitolo 1

La sanità si trasforma in settore produttivo

In Italia, prima del 1958, l’accesso alle cure sanitarie era un qualcosa di strettamente legato al lavoro. Il sistema era basato su numerosi enti mutualistici, le cosiddette casse mutue, ossia delle assicurazioni sociali alle quali aderivano i lavoratori, che venivano finanziate attraverso contributi versati da loro e dai datori di lavoro. Ognuno di questi enti era responsabile per una specifica categoria di lavoratori, e garantiva copertura sanitaria anche ai familiari dell’iscritto.
Si trattava di un sistema profondamente disomogeneo poiché ognuna di queste mutue permetteva l’accesso sulla base delle caratteristiche contributive, delle condizioni lavorative, della residenza e questo comportava una diversità nel tipo di assistenza offerta.

Coloro che invece non lavoravano dovevano fare affidamento sugli enti benefici e le opere pie.

Il 1958 è un anno di svolta: viene istituito il Ministero della Sanità, scorporandolo dal Ministero degli Interni, che era dotato di una struttura che si occupava della salute. Questo segna l’avvio di un processo che porterà nel 1968 alla trasformazione degli ospedali da enti benefici a enti pubblici e infine nel 1978 all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

Istituito attraverso la legge 833/78, il SSN era organizzato principalmente intorno a questi punti:

  1. a) uniformità di trattamento di tutti i cittadini;
  2. b) competenze diversificate ai diversi livelli del sistema amministrativo (Stato: programmazione generale; Regioni: legislazione e programmazione nell’ambito territoriale; Comuni, singoli od associati: gestione tramite le Unità Sanitarie Locali);
  3. c) articolazione ed organizzazione territoriale del Servizio;
  4. d) riconoscimento della prevenzione quale attività prioritaria per la tutela e la promozione della salute.

Se prima gli enti mutualistici erano indipendenti e non coordinati, lo stato dà un’unica struttura omogenea a questo servizio alla cui base ci sono le Unità Sanitarie Locali, ossia strutture territoriali che provvedevano all’erogazione dei servizi di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione alla popolazione.

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Il Servizio Sanitario Nazionale fu istituito con lo scopo di garantire il diritto alla salute a tutti i cittadini secondo le stesse modalità, e con uniformità geografica e sociale. Il nostro punto di vista è che l’istituzione di questo servizio non fu dettata da ragioni umanitarie e di amore verso il prossimo, ma perché funzionale al modello produttivo che si stava imponendo all’epoca. Era proprio a partire dal secondo dopoguerra che l’Italia e in generale l’Europa erano nel pieno della cosiddetta fase fordista.

Grandi centri di produzione localizzati principalmente intorno alle metropoli del nord, modernizzazione e meccanizzazione dei macchinari, catene di montaggio ed efficienza nei tempi di produzione sono le caratteristiche principali di questo modello che ha avuto il suo apice tra l’immediato dopoguerra e gli anni ’70.

In quest’epoca prende forma quel modello di famiglia moderna che vive in casa confortevole con automobile ed elettrodomestici – che prendiamo come esempio principale di beni di consumo di massa. Questo era reso possibile innanzitutto dalla stabilità del salario che il lavoro in fabbrica offriva, soprattutto se confrontato con l’incertezza economica di chi in precedenza era bracciante agricolo o mezzadro. Questo fu motivo che spinse moltissime persone ad abbandonare le campagne per trasferirsi nelle città – e nei quartieri dormitorio, costruiti appositamente per accogliere questo enorme flusso di persone – alla ricerca di una vita più stabile e agiata. Nel caso della Lombardia il primo flusso fu quello dei Veneti e il secondo fu quello delle persone provenienti da tutto il mezzogiorno.

A questa stabilità lavorativo-salariale si associava un salario indiretto, erogato dallo Stato sotto forma di servizi. Era il principio dell’economia Keynesiana: facendo aumentare il potere d’acquisto dei salari, ne sarebbe conseguito un incremento dei consumi, e quindi anche degli investimenti, della produzione e dell’occupazione. Uno di questi servizi, era proprio quello dell’assistenza sanitaria gratuita. Si arrivò a queste misure, sia perché le condizioni materiali lo permettevano o addirittura lo rendevano necessario, sia sotto la spinta di un Movimento sempre più incalzante e conflittuale che spesso obbligava lo Stato a retrocedere su molte delle istanze rivendicate.

Negli anni ’70, questo ciclo di accumulazione che durava ormai da lungo tempo, iniziò ad entrare in crisi.

In Italia, le lotte erano state in grado di esercitare un peso e una pressione che troppo spesso avevano costretto lo Stato ad una ripartizione dei profitti più ampia di quello che il modello Keynesiano già prevedeva. Inoltre, l’economia entrò in una fase di sovrapproduzione – determinata,  in questo caso, non dal basso potere di acquisto del salario operaio (come avvenuto negli anni ’20) – ma al contrario, da un consumo di massa che aveva portato molte famiglie ad accumulare un numero eccessivo di beni. Inevitabilmente si arrivò a un calo della domanda di nuove merci e di conseguenza le strategie di produzione e di vendita delle imprese dovettero riorientarsi per far sì che le famiglie anziché comprare ex novo un bene che prima non possedevano (televisore, automobile), si limitassero a sostituire i beni che già avevano con altri, più belli, più grandi, più colorati e pieni di optional. Finiva l’epoca del  mercato di riempimento e iniziava quella dei mercati di sostituzione (assai meno redditizi perché la concorrenza nel disputarsi la sostituzione di un prodotto obbligava le diverse case produttrici a ribassare i prezzi e a farsi una guerra commerciale feroce).

Tutto questo portò all’avvio di una grande e complessa fase di ristrutturazione del Capitale in termini di organizzazione del lavoro, dei processi produttivi e degli equilibri sociali.

Per comprendere meglio quanto stava avvenendo riportiamo qui un breve estratto dal testo

Astrazione e movimento reale di Raffaele Sbardella che pensiamo riassuma il processo in maniera esaustiva.

«Gli anni ’80 sono gli anni della sconfitta operaia e, come già detto, della nascita di movimenti con caratteristiche strutturali del tutto diverse. La rivoluzione informatica che investe in questi anni il processo produttivo, sconvolge radicalmente l’organizzazione del lavoro: al lavoro ora si chiede di svolgere un’azione esclusivamente coscienziale che interagisca con la logica binaria della macchina informatica. Il lavoro alla catena di montaggio viene progressivamente sostituito dai bracci meccanici del robot. E’ la fine dei gruppi omogenei e della rigidità operaia, la fine lenta ma irreversibile della fabbrica fordista quale luogo di grandi concentrazioni operaie e della contiguità fisica degli operai tra loro. La cooperazione degli operai in fabbrica mediata, come era stata fino ad allora, dalla macchina, si rovescia nella cooperazione delle macchine tra loro mediata ora dai singoli operai. Questa trasformazione spezza ogni legame, divide, isola gli uni dagli altri cristallizzando le coscienze che ora sono direttamente messe al lavoro.»

La fine della fabbrica fordista segnò la fine anche dell’economia Keynesiana con gli Stati che non venivano più chiamati ad assumere funzioni assistenziali così forti come in passato.

Anche grazie alla progressiva diminuzione della conflittualità, il Capitale ha potuto farsi molto più aggressivo, abbassando il costo della forza-lavoro, imponendo condizioni di sfruttamento maggiori, delocalizzando la produzione, smantellando il sistema di erogazione del salario indiretto attraverso i servizi del welfare.

Anzi, ci fu l’intuizione che questi ultimi potevano essere trasformati in canali attraverso i quali il Capitale avrebbe potuto estendere la propria auto valorizzazione. All’avanguardia, in Europa, fu il governo di Margaret Thatcher, che inaugurò bruscamente una stagione di privatizzazioni, le quali aprirono le porte della gestione di molti servizi (non solo sanitari) a diversi gruppi capitalisti.

Era ovvio che questo avrebbe prodotto un’esclusione dal benessere per una fascia sempre più ampia della popolazione. In Italia, il passaggio non fu così rapido.

Nell’ambito sanitario un primo passo fu quello dell’introduzione del ticket sulle prestazioni diagnostiche (legge 26/82) a carico dei pazienti allo scopo di iniziare ad alleggerire il costo di questi servizi per lo Stato. Scaricando questo costo direttamente sui pazienti, si iniziarono a gettare le basi per lo smantellamento del concetto di una sanità universale e gratuita.

Ma ciò che segnò davvero un punto di svolta fu l’introduzione dell’aziendalizzazione, nel 1992. Quelle che prima erano unità sanitarie locali (USL), furono trasformate in aziende sanitarie locali (ASL) con una modifica sostanziale della loro funzione.

Qui sotto proponiamo una sintesi dei Decreti Legislativi 502/92 e 517/93 pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale e dai quali emergono alcuni significativi punti:

  1. a) si attribuiscono allo Stato compiti di pianificazione in materia sanitaria, da attuarsi mediate l’approvazione del Piano Sanitario Nazionale triennale;
  2. b) lo Stato individua i “livelli uniformi di assistenza” sanitaria che debbono essere obbligatoriamente garantiti dal SSN ai cittadini aventi diritto, e definisce annualmente, nel contesto delle leggi finanziarie, l’ammontare complessivo delle risorse attribuibili al finanziamento delle attività sanitarie; altre prestazioni sanitarie, non previste dai livelli uniformi di assistenza e comunque costi esorbitanti i finanziamenti previsti debbono essere eventualmente finanziati con risorse delle Regioni;
  3. c) si prevede una forte regionalizzazione della sanità: alle Regioni sono attribuite funzioni rilevanti nel campo della programmazione sanitaria, nel finanziamento e nel controllo delle attività sanitarie gestite dalle Aziende, nel governo di attività di igiene pubblica anche in raccordo con la neocostituita ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale);
  4. d) le aziende USL non sono più strumenti operativi dei Comuni singoli od associati, ma aziende regionali con propria personalità giuridica ed autonomia organizzativa, amministrativa e patrimoniale;
  5. e) il nuovo sistema di finanziamento dell’assistenza sanitaria è basato sulla remunerazione delle prestazioni effettuate, a tariffe predeterminate dalle Regioni.
  6. f) si prevede la separazione ai fini contabili e finanziari degli interventi sanitari da quelli socioassistenziali: le funzioni sanitarie sono a carico dell’Azienda Sanitaria, mentre quelli socioassistenziali sono di competenza degli Enti Locali; le Aziende Sanitarie possono gestire interventi socioassistenziali soltanto a seguito di delega da parte degli Enti Locali.

Il passo si è compiuto e la sanità oggi rappresenta a tutti gli effetti un settore produttivo attraverso il quale il Capitale è in grado di autovalorizzarsi. Intendiamo con ciò la capacità del Capitale di estrarre valore anche da campi fino a qualche decennio fa inesplorati, quali la salute e la sanità.

Se è vero che un oggetto costituisce un valore in conseguenza del lavoro in esso contenuto, allora nuova frontiera del lavoro sarà l’induzione di inediti criteri sanitari da soddisfare; medicalizzata la vita di ognuno, creata la cura, soddisfatto il bisogno del Capitale.

Le USL erano i terminali locali di un servizio statale centralizzato, le nuove ASL sono invece aziende autonome con relativo bilancio e in forte competizione tra di loro. Ogni prestazione erogata ha una determinata tariffa e viene venduta come un prodotto: la capacità di saper vendere al meglio i propri servizi sanitari è ciò che determina le fortune e le sfortune delle varie aziende sanitarie.

Nel corso degli anni l’ospedale ha assunto sempre più le sembianze di un nuovo modello di fabbrica che non differisce molto dal resto degli apparati produttivi, la differenza sta nell’oggetto prodotto: in questo caso non si tratta di automobili o frigoriferi, ma di servizi sanitari. In questa nuova fabbrica ciò che viene realmente messo a valore, sono i corpi delle persone, il cui benessere passa in subordine, rispetto ai profitti che essi possono generare. E come nel caso di ogni grande industria, anche intorno a quella sanitaria si è sviluppato un indotto di notevole portata. La produzione principale è quella dei medicinali e dei prodotti farmaceutici, ben supportata da aggressive campagne di marketing. In TV, nelle stazioni, sui cartelloni pubblicitari, su Internet e persino negli ambulatori dei medici:  ovunque vengono pubblicizzati prodotti farmaceutici che propongono rimedi ad ogni genere di malessere. L’indurre (commercialmente) a pensare che ci sia sempre un rimedio per tutto e che non si debba mai stare male, si è tradotto,  in termini pratici, in numerosi casi di abuso di medicinali, e in un numero sempre maggiore di prescrizioni farmacologiche.

Inoltre, come nel caso di altre aziende, si assiste ad una crescente esternalizzazione dei servizi e relativa diminuzione del personale effettivamente assunto dalle strutture. Ristorazione, lavanderia, manutenzione, pulizie e trasporto dei barellati sono servizi affidati ad imprese esterne nella quasi totalità delle aziende ospedaliere. Ne consegue una frammentazione totale della forza lavoro in termini di inquadramento professionale e tipologia di contratto: cooperative che gestiscono i servizi di pulizia, infermieri e Oss costretti a lavorare con partita iva o assunti da agenzie interinali, tirocinanti di vario genere, malpagati o direttamente non pagati.

Gli organici delle imprese esterne sono quasi sempre sottodimensionati, situazione che costringe i lavoratori a turni massacranti e allo svolgimento di mansioni che vanno oltre quelle per cui sono assunti contrattualmente. Un caso molto diffuso è quello degli Oss obbligati dai datori di lavoro a ricoprire anche le funzioni di infermieri, in particolare durante i turni notturni. L’estrema condizione di ricattabilità dei lavoratori è molto funzionale a questo modello, in quanto elimina ogni forma di  dissenso.

A farne le spese sono i pazienti, spesso trascurati (si pensi ai barellati abbandonati nei corridoi per mancanza di personale), assistiti in situazioni non idonee da un punto di vista igienico-sanitario (se non addirittura fatiscenti) e spesso impossibilitati a ricevere i trattamenti medici adeguati a causa della mancanza di personale.

Oggi assistiamo al manifestarsi dei primi segni di ciò che questo processo sta producendo.

L’impossibilità per molte persone di sostenere i costi per le cure mediche, ha portato nel 2015 ad un’inversione nella curva dell’aspettativa di vita, sempre in crescita fino a quel momento. Si è passati da una speranza di 83,09 anni del 2014 a 82,54 del 2016. Il numero maggiore dei casi di mortalità si registra tra le fasce più deboli della popolazione. (fonte dati: Banca Mondiale)

Secondo uno studio effettuato dall’università Tor Vergata di Roma e basato su dati Istat, nel 2014 circa il 58% delle famiglie hanno sostenuto spese sanitarie di tasca propria, prevalentemente per visite specialistiche, esami e farmaci. La spesa sanitaria italiana, risulta infatti, complessivamente più bassa del 32,5% rispetto a quella degli altri paesi dell’Europa Occidentale. Queste carenze della sanità pubblica obbligano molte persone a curarsi attraverso la via privata: secondo questo studio, la percentuale di popolazione che ha avuto difficoltà a sostenere le spese sanitarie è stata del 35,3%, con punte del 53,8 nel Sud e nelle Isole. Il 5% delle famiglie ha dichiarato di trovarsi spesso a rinunciare a qualche farmaco, terapia o test diagnostico.

Un altro dato che emerge dal rapporto, riguarda i  316mila i nuclei familiari che si sono impoveriti per spese sanitarie. Si tratta soprattutto di famiglie residenti nel Mezzogiorno: Calabria, Sicilia e Abruzzo sono le Regioni più colpite. E non bisogna trascurare anche le spese indirette: se pensiamo che la maggior parte delle persone provenienti da queste regioni, si spostano al nord per curarsi, ai costi già cari della sanità, si devono aggiungere anche quelli di viaggio e di alloggio. Nel Capitolo 2 di questo documento approfondiremo nel dettaglio queste migrazioni sanitarie.

Tutto questo ha messo in seria discussione quell’idea dell’universalità del diritto alla salute, in passato molto diffusa tra la popolazione.

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Capitolo 2

Analisi della trasformazione: l’ambito nazionale

Nel corso degli ultimi anni è sempre più frequente che le persone dal sud si spostino nelle più ricche regioni del nord per sottoporsi a cure di diverso tipo, in particolar modo operazioni chirurgiche e terapie oncologiche. Questo succede per diverse cause, tra cui quella di maggior rilievo è l’opinione (alle volte confermata dai fatti) che le strutture ospedaliere del sud siano per la maggior parte fatiscenti ed inadeguate. In aggiunta a questa che è indubbiamente una sensazione diffusa soprattutto al meridione, vi è il fatto che in moltissime regioni i posti letto sono ridotti a causa di fondi sempre più limitati (più avanti vedremo come da questa situazione non vi sia via di uscita, ma la forbice al contrario diverrà sempre più accentuata) e gli ospedali sono pochissimi per delle aree molto vaste. In questo modo i tempi si dilatano a dismisura per visite ed esami strumentali che diventano in molti casi una “condanna a morte”. Qui, attraverso un meccanismo cinico e perverso, si inseriscono le aziende sanitarie del nord. È risaputo, all’interno delle strutture stesse, che molti medici vengano invogliati ad aprire studi privati nelle regioni del mezzogiorno, così da poter aumentare gli ingressi e i ricoveri nei propri presidi. Ovviamente tutte le spese (ticket a parte) a cui si dovrà far fronte verranno coperte dalle Regioni di provenienza. È evidente che in questo modo si crei un circolo vizioso all’interno del quale le regioni del sud riceveranno meno fondi (in quanto meno efficienti agli occhi dello Stato e con un numero limitato di posti letto) mentre quelle del nord avranno a disposizione molti più soldi, aumentando la sopracitata forbice di differenza. Oltretutto, le aziende ospedaliere del nord Italia, essendo finanziate da gruppi imprenditoriali molto forti – come ad esempio Techint (più di 25 miliardi di fatturato annui), la quale possiede Humanitas e quindi due ospedali molto grossi nell’hinterland milanese –  sono avvantaggiate in partenza rispetto alle strutture del sud e quindi hanno una posizione di dominanza nel “mercato” delle prestazioni ospedaliere. Così i macchinari più all’avanguardia, i medici più preparati (che non necessariamente sono del nord, ma qui molto spesso vi finiscono per le maggiori opportunità remunerative e di carriera), i reparti nuovi e i poli specializzati, oltre ai tempi di attesa minori finiscono col creare un’attrattiva maggiore per chi è in cerca delle condizioni migliori per essere curato.

Come già accennato i costi vengono coperti dalle casse delle Regioni del sud, che quindi devono alienare parte dei (già miseri) fondi per la sanità in favore delle casse lombarde/emiliane/piemontesi…etc  Un esempio? La Regione Calabria ha un saldo negativo per le migrazioni di quasi 320 milioni di Euro (dati dal 2013 in avanti). [http://www.quotidianosanita.it/regioni-e-asl/articolo.php?articolo_id=60080]

Per inquadrare meglio la situazione, citiamo testualmente un articolo de ilsole24ore, il quale  analizza in maniera abbastanza lucida, prendendo in considerazione alcuni dati forniti dal Censis e dalla fondazione CasAmica, una Onlus che si occupa di offrire ospitalità ai familiari dei pazienti “fuori sede”:

Secondo la ricerca che abbiamo commissionato al Censis “Migrare per curarsi” sono infatti 750.000 i ricoveri fuori dalla regione di appartenenza ogni anno in Italia, un esodo biblico se aggiungiamo i circa 650.000 accompagnatori, con la valigia sempre pronta per le necessità di ripetere ricoveri e cure a centinaia di chilometri dalla propria casa più volte l’anno.
Il 54% dei malati migra in direzione dei poli ospedalieri altamente specializzati, il 21% a causa dell’impossibilità di fruire delle prestazioni di cui ha bisogno nella propria regione, o perché le liste d’attesa sono lunghissime. Parliamo di oltre 200.000 malati che versano in situazioni drammatiche sotto il profilo umano-logistico-economico, a causa della forzata permanenza lontano dalla casa, dagli affetti, dallo studio, dal lavoro, anche per mesi. Problematiche che affliggono anche una grande parte di chi li assiste, con particolare accento su quelle dei genitori con bambini malati di cancro, leucemie, malattie rare. Nel caso per esempio dei pazienti oncologici, e dei loro accompagnatori, le spese annuali sostenute sono circa 7.000 euro l’anno per “costi diretti” (visite mediche, farmaci, infermieri privati e viaggi) e mediamente un malato perde, da mancati guadagni, circa 10.000 euro l’anno, 6.000 il familiare accompagnatore. L’accompagnatore riconosce che nel 70% dei casi ha avuto problemi inerenti l’attività lavorativa, fino al licenziamento per il 2%.

[http://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/aziende-e-regioni/2017-03-21/migrazione-sanitaria-dati-e-analisi-un-fenomeno-fantasma-132422.php?uuid=AEz63Yq&refresh_ce=1]

Anche sull’impoverimento e la rinuncia alle cure bisognerebbe focalizzarsi: l’istituto di ricerca e statistica Demoskopika afferma che nel 2016 poco meno di una famiglia su due  (47%) ha rinunciato alle cure. I principali fattori sono per più del 17% l’impossibilità a sostenere le cure dal punto di vista economico, per il 12,8% per le lunghe liste d’attesa e per quasi il 5% il fatto di non potersi allontanare a lungo dal luogo di lavoro. Vi sono poi un grandissimo numero di persone che hanno rinunciato a migrare altrove per mancanza di possibilità economiche, non fidandosi dei servizi erogati nelle regioni di residenza. https://www.quicosenza.it/news/in-evidenza/130020-sanita-calabria-la-piu-malata-maglia-nera-anche-per-impoverimento-e-spese-legali

Lo stesso istituto, con un documento del 2016, indica in 28 mila i nuclei familiari che sono finiti al di sotto della soglia di povertà in Calabria, 69 mila in Sicilia e 53 mila in Campania; allarmante se si considerano incluse spese per farmaci, case di cura, visite specialistiche e cure odontoiatriche.

[ricerca demoskopika del 4 gennaio 2017]

In questo quadro già disastroso, vanno inseriti anche altri fattori determinanti: tagli, ridimensionamenti ed accorpamenti. L’esempio principe ce lo abbiamo sotto gli occhi qui in Provincia di Varese: invece di potenziare i singoli presidi ospedalieri, a Gallarate e Busto Arsizio c’è in progetto l’Ospedale Unico, che sarà il culmine di una serie di accorpamenti di interi reparti, sia ambulatoriali che di ricovero (ad esempio otorinolaringoiatria), già in atto da anni. In questo modo, oltre alla speculazione edilizia per la quale già si strofinano le mani in parecchi, vi sarà una riduzione di personale e una riduzione di capacità di erogare servizi, ossia una “ottimizzazione” dei costi per edulcorare il concetto.

Altro esempio sotto questo aspetto è uno studio che ha effettuato l’Università Bocconi, che prevede l’attuazione del modello fabbrica anche nell’ambito medico, con una riduzione delle tempistiche di visita a 15 minuti per paziente. La suddetta università sta già formando il personale sanitario sulla “ottimizzazione dei tempi” – concetto che ritorna costantemente – riducendo, e ci pare abbastanza ovvio, la qualità del servizio offerto. Questo percorso evidenzia come la centralità del profitto, che in questo ambito della società la fa da padrona, porti a nuove frontiere dal punto di vista dell’estrazione del valore. In pochi altri settori della società questo avviene in maniera così forte.

In definitiva, per essere molto sintetici nelle conclusioni, quello che viene fuori è il ritratto di un sistema sanitario malato, che è continuamente depredato da gruppi di potere che hanno le mani in pasta in parecchi ambiti, soprattutto quello in questione. Gruppi di potere che trovano una certa agibilità perché facilitati dalla componente politica (soprattutto in Lombardia con CL e Lega, vedi i vari Formigoni & co), e hanno la possibilità di gonfiare le proprie casse e quelle dei contigui, alimentando un sistema fatto di favori e mazzette quando necessario, a discapito delle tasche e della salute di milioni di persone. Molti di questi aspetti sono affrontati in maniera un po’ più completa nel prossimo capitolo, quello riguardante il caso lombardo.

Clicca qui per leggere la seconda parte.

UN VOLANTINAGGIO A GALLARATE

Nel corso della mattinata di sabato 13 Ottobre, è stato distribuito un volantino al mercato di Gallarate. Il testo trattava la questione del tentativo di sfratto di un uomo, che ha resistito alla brutalità della Polizia Locale, minacciando di darsi fuoco. Qui abbiamo in seguito riportato alcune precisazioni sulla vicenda.

Qui sotto, riportiamo il volantino integrale.

L’ARTE DELLA MANIPOLAZIONE E L’AZIONE DIRETTA

Legalità: una questione di potere, non di giustizia

Alcuni fatti di queste ultime settimane ci danno l’occasione di parlare di certi nodi che puntualmente emergono nei discorsi, nelle riflessioni di chi agisce, o quanto meno si auspica, uno stravolgimento dello stato di cose presenti.

Ha destato molto scalpore la vicenda del sindaco di Riace, Mimmo Lucano, arrestato perché accusato di aver violato la Legge per aiutare alcuni migranti a integrarsi nel suo paese. Un po’ il circo mediatico delle carogne razziste che non hanno perso tempo per attaccare un sindaco arrestato per aver violato la Legge non per interesse personale (vedi l’ex sindaco di Seregno della coalizione Lega Nord e Forza Italia) ma per seguire la propria coscienza; un po’ per quei rimasugli sparsi di sinistra – pericolosi come meteoriti nello spazio dotati di gravità e con la possibilità (spesso anche l’intenzione) di attirare a sé quanta più materia possibile – costretti a fare i conti con la scelta della deriva liberal-conservatrice che ha connotato ogni governo di centro-sinistra da almeno trent’anni, la stessa deriva che vede nella Legge e nella Costituzione le uniche armi a propria disposizione per combattere fascismo e razzismo.

Sul circo razzista non ci soffermiamo. Crediamo che in questi tempi ognuno con una testa pensante possa osservare cosa gli accade attorno, individuare chi sta traendo giovamento da questa situazione di guerra civile in potenza, chi soffia sul fuoco del razzismo e della reazione.
Pur riconoscendo nella pluralità del possibile intervento una forza, ci pare che con questo nuovo Decreto Salvini, in grado di peggiorare il già terribile Decreto Minniti, la linea tra umanità e cieco rispetto della legalità si sia ulteriormente marcata. Certo, la risposta secondo cui “ha ragione, ma ha violato la Legge” la sentiamo e la sentiremo ancora, ma ci pare l’ennessimo tassello volto a legittimare la barbarie razzista a cui stiamo assistendo.

Perchè?

Perchè l’Apartheid era legale, così come il Colonialismo, le Leggi Razziali in Italia, i Campi di Concentramento, la presa del potere di Hitler, il Delitto d’Onore.
In tempi bui come questi pararsi dietro l’apatia dettata dall’ossequioso rispetto della legalità significa abdicare a determinare la realtà per come è.
A chi si permette il lusso di dire che “un conto erano i lager nazisti, ora non siamo a quei livelli” rispondiamo con questo breve estratto da questo articolo:

Becky Moses aveva 26 anni quando è morta carbonizzata, nella notte tra il 27 e il 28 gennaio 2018, a causa di un rogo scoppiato nel ghetto di San Ferdinando, vicino Rosarno, in Calabria.
La sua storia forse non la ricorderanno tutti, per alcuni era probabilmente solo un’immigrata che si era trovata nel momento sbagliato al posto sbagliato. […] Becky Moses era arrivata in Italia nel 2016 dalla Nigeria.
A Riace era stata ospite di un centro di accoglienza straordinario: nel piccolo paese in provincia di Reggio Calabria stava mettendo radici ma la commissione territoriale le aveva negato la richiesta di asilo politico. Quindi, avendo ricevuto il diniego e non potendo essere trasferita in uno Sprar, Becky aveva fatto ricorso, ma non era riuscita a vincerlo.
Le cose si erano messe male, la vita nei Cas era diventata impossibile e aveva di andare via.
Lasciava Riace, sola e con in mano un diniego della prefettura. Decise di spostarsi a San Ferdinando, dove c’erano altri nigeriani suoi conoscenti. Lì, in uno dei ghetti più grandi d’Italia, Becky Moses ha trovato la morte dopo essere stata avvolta dalle fiamme di un braciere rimasto accesso per scaldarsi in una fredda notte d’inverno.
Becky a Riace abitava in un alloggio, condiviso con altre sue coetanee. La sua carta d’identità portava ancora la firma del sindaco Domenico Lucano, che all’epoca aveva voluto riconoscerle la dignità di essere umano
.”

La domanda è la più immediata e al contempo la meno semplice a cui rispondere: di fronte alla normalizzazione della catastrofe che avanza, che fare?

Vi sono delle persone che dicono: la rivoluzione dev’esser fatta dal paese. Ciò è incontestabile. Ma il paese è composto di individui, e se attendessero tranquillamente il giorno della rivoluzione senza prepararla colla cospirazione, la rivoluzione non scoppierebbe mai.
[…]
Si può non esser d’accordo sulla forma di una cospirazione,
sul luogo e sul tempo in cui una cospirazione debba compiersi:
ma non essere d’accordo sul principio è un’assurdità, un’ipocrisia,
un modo di celare il piú basso egoismo.
Io stimo colui che approva la cospirazione ed egli stesso non cospira: ma non sento che disprezzo per coloro, che non solo non voglion far niente ma che si compiacciono nel biasimare e nel maledire gli uomini d’azione.

Carlo Pisacane

Che fare?

La sensazione è di essere su di un piano inclinato, in cui ogni forza che imprimiamo alla sfera posta su questo piano non faccia altro che farla rotolare più velocemente verso il basso. Altro, a ben vedere, non potrebbe accadere.
La sensazione è che i tempi stiano inesorabilmente rotolando verso la barbarie di Stato.

La catastrofe non la avvertiamo solo quando apre la bocca Salvini (o Minniti), né solamente quando il vicino di casa calabrese ci dice che ha votato Lega, neppure quando assistiamo alla reintroduzione dello schiavismo sotto forma di caporalato nelle piantagioni del sud e poi man mano in tutta Italia.
La avvertiamo anche quando la vulgata diffusa ci dice che no, non è utile ribellarsi, perché a ogni forma di ribellione tocca due sorti: o viene tacciata di fascismo (secondo quella tanto nefasta quanto onnipresente propaganda democratica che ha trasformato la parola “fascismo” in un sinonimo di “violenza”; di questo passo finiremo a credere che la Rivoluzione Francese o i moti insurrezionali di metà ‘800 furono opera dei fascisti!) oppure viene ingurgitata dalla Lega (o da chi per essa) che ne trae giovamento.

Ma è vero?

Che la Lega sia una forza significativa, e abbia la capacità di crescere, crediamo sia fuori da ogni discussione. I sindaci leghisti del circondario primeggiano sui rivali nell’uso dei social network e nella capacità di generare fake news o di rigirare a proprio uso qualunque notizia che li riguardi da più o meno vicino.

La Lega mostra di sé il volto che più crea consenso, quello che cerca lo scontro, ed è nello scontro che cresce. Questo non siginifica che la Lega sarebbe pronta a gestire conflitto e propaganda/politica, ma anche in questo contesto si inseriscono le amicizie sempre più salde con l’estrema destra tout court. La Lega cresce perché la sua narrazione è diventata la narrazione più diffusa nel paese. Anche chi non è d’accordo con la Lega finisce per parlare la sua lingua. Nel dizionario leghista non esiste la solidarietà umana, esiste il buonismo. È con questo dominio della narrazione che la Lega ha ottenuto e ottiene sempre più consenso.
La Lega sembra cercare lo scontro perché ormai è forte e radicata, è lo stesso motivo, ma al rovescio, per cui invece i partiti di estrema destra, che hanno ben altro seguito (ad esempio Lealtà Azione su tutti) non cercano al momento lo scontro, semmai cercano realtà territoriali tranquille in cui poter crescere e aggregare forza. Quando una realtà è solida e robusta può permettersi, attraverso la ricerca dello scontro, di inglobare la forza di chi gli si contrappone, viceversa quando una realtà politica è in via di consolidamento, è alla ricerca della tranquillità per poter lasciare ai semi la possibilità di germogliare e rinforzare il tronco.

In queste settimane nel saronnese si è fatto un gran parlare di Lega Nord, l’occasione l’ha fornita la festa leghista a Dal Pozzo e le relative proteste degli abitanti.
I leghisti, tramite il sindaco Dante Cattaneo, hanno dapprima lamentato un tentativo di boicottaggio con delle strisce recanti “Evento Annullato” sui propri manifesti che pubblicizzavano la festa, poi un volantinaggio a tappeto che invitava i cittadini a non partecipare a quella che era a tutti gli effetti una festa razzista.
Il Sindaco leghista, per delegittimare la protesta, ha accusato i firmatari del volantino di boicottaggio della festa di essere dei criminali e di aver tentato di uccidere, collocando delle reti acuminate sulla carreggiata, chi transitava su una strada nelle zone limitrofe. Nei giorni seguenti un secondo volantino ha informato gli abitanti di Dal Pozzo che i due fatti sono scollegati e solo un sindaco in malafede poteva unirli.

Nella melma mediatica è difficile districarsi, è difficile riuscire a scorgere con lucidità cosa è vero, e cosa non lo è. Le cosiddette bufale, o fake news, esistono dall’alba dei tempi. Così come esiste dall’alba dei tempi la strategia di chi è al potere di tentare di delegittimare alcune proteste o ribellioni, incolpando di malefatte contro la popolazione gli stessi ribelli.
Ma questo ragionamento scivoloso non deve nemmeno portarci a considerare ogni fatto, ogni avvenimento, come strategia dei potenti. Questo ragionamento è doppiamente castrante, prima perché vede il “popolo” come dei semplici burattini da governare senza spina dorsale, la seconda è perché mostra i governanti come gli invincibili, cosa che invece non sono. La nostra storia recente, in particolare la seconda metà dell’800, è costellata di moti insurrezionali. Cosa se ne direbbe oggi? Che si direbbe oggi di un tentativo di insurrezione in una qualche campagna del meridione?
Siamo in due epoche storiche talmente lontane, e così diverse, da rendere impossibile una risposta, eppure l’esercizio può aiutare a districarsi tra ciò che accade.

Tornando ai giorni nostri: è vero che ogni azione contro la Lega non fa altro che darle nuova linfa?
Quello di cui siamo certi è che l’inazione, dettata dalla sensazione di non poter fare altro, sarebbe sinonimo di rassegnazione.
Quello di cui abbiamo timore è che la forza narrativa della Lega sia al momento inavvicinabile, ma che rimanga un tema su cui confrontarsi e da tenere in considerazione, perché ne va dell’agibilità, della solidarietà umana, della ricerca della libertà contro ogni sfruttamento e discriminazione, nei piccoli paesi come nelle città.

ALCUNE PRECISAZIONI SULLO SFRATTO DI GALLARATE

In merito all’articolo pubblicato alcuni giorni fa e relativo allo sfratto di Gallarate, ci sono alcune precisazioni che meritano di essere riportate.

Abbiamo avuto modo di conoscere personalmente la famiglia protagonista della vicenda: chiacchierando con loro, abbiamo ascoltato una versione dei fatti che parecchio differisce da quelle riportate da stampa locale e voci ascoltate in giro.

Innanzitutto non è vero che l’uomo (di cui non riportiamo il nome per volontà sua) minacciasse di fare saltare il palazzo con il gas. La bombola sequestrata dai carabinieri (semivuota, per altro), veniva utilizzata dalla famiglia per cucinare, dopo il diniego di allaccio da parte dell’azienda fornitrice del metano. Nello specifico, la presa d’aria della cucina non è a norma di legge, ma il proprietario (che tanto si premura nel volerli in mezzo ad una strada) non è mai intervenuto per modificare la situazione. La procedura di sfratto non è stata interrotta, nonostante il proprietario stia comunque percependo il pagamento degli arretrati, prelevando direttamente dal conto corrente della famiglia, attraverso RID bancario.

La mattina del 3 Ottobre, dopo aver chiesto ai suoi vicini di uscire di casa, l’uomo si è rovesciato la benzina addosso, minacciando di uccidere sé stesso, qualora lo sfratto non fosse stato sospeso e rinviato.

La famiglia parteciperà al bando (in programma dal 15 ottobre) per l’assegnazione di una casa popolare. Poiché potrebbero volerci parecchi mesi fino a quando venga loro affidato un alloggio, la loro preoccupazione è quella di non sapere dove andare in quest’attesa, qualora lo sfratto venga reso esecutivo.

Alla famiglia, che ha due figli minori, viene negata dal comune anche la possibilità di avere un alloggio di emergenza temporaneo.

Sfidiamo chiunque a non perdere le staffe davanti ad una situazione simile!

A questo bisogna aggiungere una situazione lavorativa di estrema delicatezza. L’uomo infatti è intenzionato ad avviare una vertenza sindacale, per una errata applicazione del contratto del contratto di categoria. Le stime del sindacato parlano di circa 70.000€ non percepiti a causa di ciò, in quindici anni di lavoro. Dopo una lunga serie di trasferimenti punitivi e demansionamenti saltuari, proprio alcuni giorni fa, l’uomo ha ricevuto una lettera di avvertimento, nella quale viene minacciata la possibilità di licenziamento.
Non è vero quindi, come riportato precedentemente, che il licenziamento fosse già avvenuto.

Un’altra precisazione doverosa è quella relativa ad una voce che circolava tra vicini di casa e giornalisti presenti il 3 ottobre: ossia che l’uomo fosse stato accompagnato in ospedale e sottoposto a Trattamento Sanitario Obbligatorio. Non è vero, e al termine della mattinata l’uomo è stato accompagnato presso la caserma dei carabinieri dove è stato denunciato per procurato allarme.

C’è un’ultima cosa, molto grave, da riportare. Il quotidiano locale “La Prealpina”, oltre alla deplorevole spettacolarizzazione di una vicenda così delicata, ha pesantemente violato la privacy di questa famiglia. In un articolo, infatti, il trattamento riservato all’uomo era proprio quello di un mostro da sbattere in prima pagina, con tanto di nome, cognome ed indirizzo. Ma questo non era sufficiente, probabilmente. E così gli arguti redattori hanno pensato bene di aggiungere una foto dell’uomo in visibile difficoltà, scattata dalla strada con un teleobiettivo, approfittando di uno spiraglio della tapparella. Non solo, anche alla figlia adolescente, accorsa sul luogo per stare vicina al padre, è stato riservato lo stesso trattamento.

Questo articolo ha contribuito ad aumentare ancor più la situazione di estrema difficoltà e fragilità di una famiglia che rischia di perdere tutto. Tant’è vero,  che l’intenzione della famiglia è quella di avviare una causa per diffamazione, ai danni del quotidiano locale.

In conclusione, lo sfratto è stato rinviato al 6 Novembre (e non come erroneamente riportato, al 6 Ottobre) e fino a tale data sarà molto importante costruire una forte solidarietà umana intorno a questa famiglia. Per evitare che vengano sbattuti in mezzo alla strada, e per ribadire che quello degli sfratti non è un problema individuale delle singole famiglie, ma un problema sociale collettivo, determinato dalle condizioni economiche a cui tutti siamo sottoposti.