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i CIE oggi

i CIE oggi

Di seguito il testo integrale sui CIE, del quale è stata letta una parte nella puntata 8, andata in onda il 21 novembre 2013.

 

In un CIE ci finisci se non hai i documenti che riconoscono il tuo diritto a transitare o vivere sul territorio europeo, e in particolare italiano.

Istituiti dalla legge Turco-Napolitano nel ’98 col nome di CPT e confermati nel 2002 dalla Bossi-Fini, ora si chiamano CIE e vi si può essere rinchiusi fino a 18 mesi.

In quali condizioni? Infime, come raccontano non solo molte storie di chi c’è stato rinchiuso, ma ultimamente anche i rapporti e le testimonianze di associazioni e autorità che li visitano. Come mai, sebbene i CIE esistano da ben quindici anni, solo ora è cambiato il vento e tutti, tranne i soliti razzisti irriducibili, ne affermano l’indecenza e ne chiedono a gran voce la chiusura?

Con la puntata di oggi vorremmo tralasciare per un momento cosa significa essere rinchiusi dentro un CIE, e perché e percome, e vedere cosa rappresentano oggi. Tutti potrebbero dirsi antirazzisti, o parlare a lungo di diritti e umanità e così via. Ma noi vorremmo andare sul terra-terra. Le leggi razziste e profondamente discriminatorie rendono possibili e istituiscono i CIE come strutture che hanno essenzialmente scopi ben diversi da quelli ufficialmente dichiarati.

Infatti, basta consultare i dati che le stesse autorità europee e italiane hanno raccolto, per vedere che come strutture di raccolta, identificazione ed espulsione, i CIE non hanno mai funzionato un granché. A cosa sono serviti dunque? A garantire la sicurezza? Difficile, considerando che sono centri di detenzione amministrativa, quindi vi finisce rinchiuso non chi ha commesso un reato riconosciuto dal codice penale, ma chi non ha i documenti giusti; sulla difficoltà e ingiustizia di come questi documenti vengono concessi, ne parleremo meglio nella prossima puntata sui CIE.

A cosa dovrebbero veramente servire dunque i CIE?

Ad esempio a controllare flussi immigratori. A fronte di una situazione internazionale che vede le guerre moltiplicarsi nel mondo (con il loro strascico di fame, morti, feriti e mutilati, malattie, e, appunto, migrazione di popolazioni) e a fronte di un benessere che, nonostante la crisi economica, è comunque tendenzialmente maggiore nei paesi europei piuttosto che in quelli oltre-mediterraneo, l’immigrazione verso l’Europa è riconosciuta come emergenziale fin dall’inizio degli anni ’90 almeno.

L’Europa ha stanziato fondi e piani specifici per i paesi che geograficamente sono stati considerati maggiormente esposti a forti flussi immigratori, tra cui l’Italia. L’amministrazione dei fondi, le leggi per la gestione dell’immigrazione e l’applicazione di come averci a che fare, però, sono a discrezionalità almeno parziale di ogni singolo stato, e qui si viene all’Italia.

Sul terreno di una cultura che individua nell’immigrato una persona pericolosa, un delinquente almeno potenziale, a meno che non si abbassi a “rimanere al suo posto”, quindi magari in un CIE, ecco che i fondi finiscono nei vari centri di cosiddetta accoglienza. Lo Stato ha la gestione dei CIE, dove vengono impiegati reparti dell’esercito e di polizia, ma i fondi finiscono, tramite appalti, nelle casse di cooperative che con questi soldi dovrebbero garantire ai rinchiusi un sostentamento minimamente decente. Questo non è mai successo. Mentre i rinchiusi soffrono di carenze, dal cibo scadente e condito con psicofarmaci fino ad una ridicola assistenza medica, passando per mancanza di una valida assistenza legale e per carenza di necessità minime, diverse cooperative hanno speculato sulla pelle di queste persone con la complicità dello stato. Ecco dunque una cosa in cui i CIE, almeno fino ad ora, hanno funzionato benissimo: come mangiatoia di soldi.

I tredici CIE ufficialmente esistenti in Italia sono stati appaltati a Croce Rossa Italiana, Consorzio Connecting People, Misericordie Italia, Cooperativa Auxilium, e l’Oasi. Quest’ultima ha avuto in mano i CIE di Modena e Bologna per ultima, con esito economico disastroso visto che non è riuscita nemmeno a pagare i suoi dipendenti, stipendi poi garantiti dalle prefetture. Le cifre ribassate per il bando della gestione dei CIE, però, provenivano direttamente dal ministero, che l’anno scorso ha imposto una base d’asta di 30 euro a persona al giorno e che la cooperativa venisse selezionata non in base alla qualità ma in base allo sconto maggiore. Prima invece le cooperative avevano potuto speculare sui fondi affidati loro, come dimostrerebbero anche molte cause in corso per gonfiature di bilanci, accuse che si dividono in alcuni casi tra cooperativa e prefettura. La stessa Oasi era già stata inquisita per questo, e nonostante ciò vinceva anche il bando per la gestione del CIE di Trapani località Milo.

La gestione dei fondi per i rimpatri forzati va invece da sempre a Frontex, l’ l’agenzia per il pattugliamento delle frontiere esterne dell’Unione europea.

Mentre si straparla di progetti di integrazione, quindi, i maggiori fondi sono sempre andati per rinchiudere e buttare fuori o rimpatriare forzatamente i migranti. Ora che i fondi languono, i CIE sono considerati un peso.

Ad oggi, sembra che di quei tredici CIE ufficialmente esistenti, siano ormai fuori gioco quello di Serraino di Vulpitta a Trapani, quello di Lamezia Terme a Catanzaro, quello di Brindisi, quelli di Bologna e Modena e, per ultimo, quello di Gradisca d’Isonzo.

A decretarne la chiusura sono stati spesso un insieme di fattori, tra la mancanza di fondi, la denuncia di associazioni che sono riuscite ad entrarvi, ma molto spesso e fondamentalmente il susseguirsi di proteste e rivolte dei rinchiusi, che negli anni sono riusciti a renderli almeno in parte strutture non più in grado di rinchiuderli in condizioni torturanti.

Entrare in un CIE se non per lavorarci o esserci rinchiuso, d’altro canto, non è mai stato semplice: i dati che li riguardano sono considerati ‘sensibili per motivi di sicurezza’; possono entrare per ispezione solo sindaci e presidenti di provincia, giunta e consiglio regionale, e privato sociale. I giornalisti devono presentare domanda al prefetto, che deve poi segnalare ai ministeri chi ha fatto entrare e con quali sue valutazioni.

Molti CIE quindi stanno chiudendo, con buona pace di chi ora si scaglia contro la loro esistenza, magari cercando di guadagnarne dalla carcassa almeno qualche vanto umanitario, politico, d’immagine pubblica.

Ma lo stato emergenziale, lo stesso che ha permesso di specularvi sopra economicamente e/o verbalmente fino ad ora, non è certo venuto meno. Emergenza che, pur essendo vissuta da chi migra, viene scaravoltata in emergenza gestionale, meccanismo che permette appunto di guadagnarvi e specularvi, e di controllarla securitariamente.

L’Europa, la stessa che stila piani e fondi per gestione e controllo dei flussi migratori, denuncia l’Italia per aver rimpatriato forzatamente o non protetto persone migranti che meritavano perlomeno una valutazione del rischio che correvano nel loro paese d’origine; il Comitato Nazionale per la Bioetica denunciava nel 2012 che nei CIE vengono continuamente negati i diritti fondamentali degli esseri umani.

Intanto, però, altri fondi vengono stanziati per ristrutturare i CIE e riportarli alla loro funzione, compreso quello di Bologna. Esiste poi un documento programmatico sui CIE, redatto da una task force costituita l’anno scorso dalla Cancellieri, per riformare il sistema italiano dei CIE. Vediamone i punti essenziali e cerchiamo di analizzarli:

1. l’assegnazione dell’appalto di tutti i CIE ad un unico ente, compreso di un corpo di operatori specificatamente addestrati per affiancare – noi leggiamo più propriamente ‘spalleggiare’ – le forze dell’ordine

2. di ridurre da 18 a 12 mesi il tempo di permanenza, magari aumentando gli accordi con i paesi di provenienza per permettere il rimpatrio forzato del “clandestino”, che in questo caso potrebbe non venire nemmeno identificato (es.: Processo Verbale firmato a Tunisi, 5 aprile 2011, tra Tunisia e Italia), in pratica una cooperazione tra stati per impedire alle persone di spostarsi e cercare di cambiare vita o di migliorarla, senza contare che alcuni fuggono dai loro paesi per evitare morte, fame, e altre condizioni indicibili…

3. l’inaccessibilità ai CIE rimane invariata, magari rendendola ancora più ad arbitrio dei prefetti

4. standard sanitari omogenei, ma soprattutto potenziamento dell’assistenza medica interna al CIE. Questo, dichiaratamente per rendere ai rinchiusi più difficile tentare la fuga attraverso un ricovero in ospedale, e, non dichiaratamente, per evitare che le condizioni di salute ed eventuali abusi fisici subiti escano all’esterno del CIE. Sono sempre stati all’ordine del giorno, nei CIE, casi di malattie infettive non curate appropriatamente e conseguenti contagi, e l’omertà degli operatori sanitari interni nei confronti degli abusi che subivano dalle forze dell’ordine, oltre alle terapie di psicofarmaci e tranquillizzanti per renderli più disposti all’oppressione della reclusione e degli abusi.

5. Un potenziamento e maggiore collaborazione tra forze dell’ordine, per far funzionare meglio la macchina delle identificazioni ed espulsioni e rendere meno mista a livello di status giuridico la popolazione rinchiusa nei CIE; anche qui con lo scopo dichiarato di evitare tensioni e rivolte che danneggino i CIE stessi

6. La repressione di coloro che vengono considerati ‘pericolosi’ in base al fatto che protestano e si rivoltano contro le condizioni interne al CIE, in particolare si propone di:

a. Incoraggiare il frazionamento di gruppi uniti nelle proteste, con trasferimenti in altri CIE o separazione all’interno dello stesso CIE (pratica che viene già da sempre messa in atto)

b. Istituire una specie di tribunale indipendente, partecipato da prefetto o questore e da un collegio interno, che valuta la pericolosità di un rinchiuso nel CIE e ne decide l’isolamento in apposite sezioni

c. Costruire un sistema di attività interne, sostanzialmente per distrarre i rinchiusi dalla loro rabbia e insofferenza, purché si stia attenti ad alzare le mura e a evitare quindi assembramenti o tentativi di fuga dai cortili

7. Dotare ogni CIE di un’aula interna per svolgere le udienze di convalida per il trattenimento nel CIE; insomma, un po’ come le aule-bunker che esistono già in alcune carceri, e che in altre si stanno proponendo di fare

8. Uniformare in tutti i CIE l’assistenza legale, con lo scopo di informare bene i rinchiusi – insomma, o raggirarli o intimidirli perlopiù – riguardo il fatto che potrebbero scegliere di andarsene volontariamente invece che forzatamente, il che permetterebbe allo stato di risparmiare in costi e organizzazione

9. Che in tutti i CIE i rinchiusi possano utilizzare il cellulare, permesso che può essere negato alla singola persona se con esso, invece di distrarcisi e non arrabbiarsi contro il suo essere rinchiuso, inizia a cercare di comunicare con l’esterno in maniera pericolosa, ad esempio denunciando cosa sta succedendo… infatti i cellulari non possono essere dotati di fotocamera né telecamera, che permetterebbe di documentare condizioni indecenti e abusi…

10. Protocolli e convenzioni tra CIE e specifici consigli di ordini di avvocati locali o associazioni di categoria; il che naturalmente permetterebbe di controllare meglio anche quale tipo di avvocato e quale tipo di informazione legale può entrare e uscire da un CIE

11. Maggiore presenza di forze dell’ordine, miglioramento delle strutture per evitare fughe, e un maggiore impegno del gestore del CIE per canalizzare il disagio in modo da evitare che sfoci in proteste e rivolte

12. Localizzare meglio i CIE, vicino a consolati e ambasciate dei paesi di provenienza dei rinchiusi, per facilitare le procedure di identificazione, espulsione, rimpatrio

Insomma, altro che chiusura! In teoria si vorrebbe rendere i CIE più simili a vere e proprie carceri, comprese di tribunale interno per i “reati disciplinari” e di celle d’isolamento. E questa linea italiana sembra sia passata anche a livello europeo; in uno degli ultimi summit europei, sull’immigrazione Letta ha proposto un potenziamento dell’Eurosur, il Sistema europeo di sorveglianza delle frontiere gestito dall’agenzia Frontex. Sul tema dell’immigrazione il consiglio europeo tornerà non prima di giugno 2014, ma nel frattempo è stata istituita una task-force Italia-Europa, che riferirà alla riunione del consiglio degli affari interni il 5-6 dicembre.

Ricordiamo che i CIE non sono le uniche strutture dove vengono trattenuti i migranti. Esistono infatti anche i CSPA (Centri di Primo Soccorso e Assistenza), i CDA (Centri di Accoglienza), i CARA (Centri di accoglienza per i richiedenti asilo).

Intanto però, chi da sempre è contro i CIE viene processato. Come 21 sotto processo per l’operazione outlaw contro il Fuoriluogo di Bologna, o come i tre ragazzi di Modena che, dopo essere stati fermati dopo un presidio sotto al CIE di Modena questa estate, da allora sono sottoposti a misure restrittive e attendono l’udienza del 2 dicembre qui a Bologna.

Per questa puntata è tutto, ma torneremo ancora a parlare di CIE in altre puntate dedicate.

 

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