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Solidarietà con i detenuti di Oristano

A Oristano, nel carcere di Massama, alcuni detenuti hanno annunciato una serie di proteste pacifiche se non saranno ascoltati. In 160 hanno firmato un appello indirizzato al Presidente della Repubblica e alla Ministra della Giustizia. Difficile vivibilità nel carcere costruito nel 2012 ma con già le problematiche di un edificio di 50’anni: infiltrazioni d’acqua piovana nelle celle, citofoni che non funzionano mettendo a repentaglio la salute dei detenuti in caso di emergenza, sovraffollamento, carenze trattamentali, muffa, umidità. “Siamo stanchi di subire, ingiustamente, restrizioni e privazioni di ogni tipo in modo del tutto gratuito. Sia ben chiaro, non chiediamo niente di straordinario. Chiediamo solo di vivere i giorni, o anni che siano, in modo dignitoso e con il rispetto della persona!”
Questo è il contenuto della lettera dei prigionieri in Alta Sorveglianza che sono disposti ad arrivare fino allo sciopero della fame e della sete pur di veder esaudite le loro richieste. Una situazione incompatibile con le minime tutele in materia di dignità umana, situazione resa ancora più difficile con le temperature che questa estate hanno reso l’aria irrespirabile. Le proteste dovrebbero iniziare il prossimo 10 novembre.

Naufragio delle coscienze

A luglio un peschereccio con 62 migranti a bordo s’inabissa a 500 metri dall’isola di Lampedusa. 46 i naufraghi salvati dalla Guardia Costiera. Per 16 migranti non c’è stato, però, nulla da fare: 7 i corpi ripescati immediatamente, tutte donne di cui una in stato di gravidanza. Gli altri nove hanno seguito l’imbarcazione a 80 metri di profondità, 2 bambini accanto a quelle che potrebbero esser forse le loro madri, altre tre donne e l’unico corpo maschile tra i 16 morti, quello dello scafista intrappolato sul ponte di comando. I drammi tra i flutti sono sempre quelli: se non arrivano immediati i soccorsi sul luogo di un naufragio i primi a morire sono i bambini, seguiti dalle loro madri e dalle donne.
50.000 euro il prezzo per ripescarli con i mezzi della Marina Militare, ma il governo non li ha stanziati. 50.000 euro è il prezzo che devi pagare se sei un migrante che muore in mare. Molto meno costa il funerale di qualsiasi italiano. Allora si è mossa la solidarietà delle persone e delle associazioni ma non basta: la Marina Militare non può ricevere fondi da privati quindi ha le mani legate. L’opzione di recuperare i corpi resta quella di reclutare società private ma i costi salirebbero alle stelle e i 50.000 euro non sarebbero più sufficienti. Soluzione: restano in fondo al mare finché ci dimenticheremo di loro.
Ad oggi non è stato possibile ripescare quei corpi che da più di due mesi giacciono in fondo al mare, in fondo alle nostre coscienze, giacciono sotto una frontiera e sotto la politica di accoglienza europea.

Sull’ergastolo ostativo

Novità per chi è condannato all’ergastolo ostativo: la Prima sezione Penale, con sentenza n. 3374, ha affermato che per l’ammissibilità della domanda del permesso premio avanzata dal detenuto non collaborante, dopo la sentenza della Corte Costituzionale n. 253 del 2019, è sufficiente sia dimostrare di non aver avuto più rapporti con l’organizzazione criminale per la quale era stata motivata la condanna per reati associativi, sia dimostrare di non essere più un soggetto pericoloso. Ma come funzionava prima? Per legge a un detenuto condannato all’ergastolo ostativo, cioè non collaborante, non potevano essere riconosciti permessi premio, il Tribunale di sorveglianza aveva queste direttive: nessuno può uscire, in contrasto con le direttive della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo. In parole povere, mentre prima si determinava l’inammissibilità di una domanda, ora si prende in considerazione la finalità rieducativa e non vessativa della detenzione, esautorando l’autorità giudiziaria e mettendo tutto nelle mani di un giudice che esaminerà il percorso riabilitativo del detenuto richiedente. Un piccolo passo verso la possibilità di veder riconosciuti i legami familiari e affettivi di diritto per tutti gli esseri umani.

News da Modena

Sembra che finalmente nel consiglio comunale di Modena si sia capito che per un carcere cosi complesso come il Sant’Anna sia necessaria la figura del Garante per i detenuti anche nel territorio modenese, quindi il partito di maggioranza presenterà a breve un ordine del giorno per poterlo istituire. Dopo un 2020 da dimenticare con una rivolta sedata nel sangue, con detenuti massacrati di botte e ben 9 morti, per 8 di loro – ricordiamo – la procura cittadina ha chiuso frettolosamente e senza vergogna il capitolo addebitando il decesso a overdose di metadone, senza curarsi dei ritardi nei soccorsi e il fatto che alcuni di loro sono stati lasciati morire dopo il trasferimento in altri istituti. Dopo un anno e mezzo è ora che il territorio modenese si doti di una figura necessaria per monitorare la situazione detentiva e le sue criticità. Speriamo bene….

News da Piacenza

A fine agosto si è aperto un processo per lesioni commesse nel carcere cittadino delle Novate di Piacenza, stavolta sotto indagine un ispettore capo della Polizia Penitenziaria, che tra l’altro si trova già a processo con un altro agente per un episodio simile, ma di un anno prima e sempre nello stesso istituto piacentino. Il Gip del tribunale, Luca Milani, ha voluto vederci chiaro e ha ordinato nuove indagini per il pestaggio subito da un detenuto tunisino il 20 luglio 2017. Nonostante la procura abbia richiesto l’archiviazione del fascicolo, il Gip ha accolto l’opposizione del legale del prigioniero che lamentava alcune contraddizioni nelle dichiarazioni rilasciate dall’agente. Il giorno prima del pestaggio ci sarebbe stata una protesta nella sezione del carcere che vide protagonista il detenuto tunisino. Successivamente sarebbe avvenuto il raid punitivo da parte di alcuni agenti dove la vittima riconobbe proprio l’ispettore capo ora sotto processo per lesioni.

News da Ferrara

Si tratta di una delle prime condanne in Italia per tortura. Gli accusati sono agenti penitenziari del carcere di Ferrara e un’infermiera; La vittima è Antonio Colopi, detenuto condannato per omicidio, oggi si trova nel carcere di Reggio Emilia. Nel dettaglio la sua testimonianza: “Mi accusavano di essere stato io ad aggredire. Così ho deciso di denunciarli”. “Mi hanno fatto spogliare e mettere in ginocchio. Poi mi hanno attaccato con le manette al letto. Mi hanno colpito con calci allo stomaco e colpi in faccia e in testa, anche con il ferro di battitura”. I fatti risalgono al settembre del 2017 quando a seguito di una perquisizione della cella inizia il calvario per il prigioniero. Per Pietro Licari, 51 anni, agente della polizia penitenziaria del carcere di Ferrara, la condanna a 3 anni per reato di tortura è già stata emessa in rito abbreviato con le aggravanti di crudeltà e violenza grave. Per lo stesso reato sono a processo ordinario altri due agenti: il sovrintendente Geremia Casullo e l’assistente capo Massimo Vertuani. Secondo la ricostruzione, mentre uno di loro faceva il palo in corridoio, gli altri due infierivano sul prigioniero. Il sovrintendente si guadagnò una testata da parte del detenuto che si difendeva dal pestaggio che in risposta subì ulteriori violenze. Anche un’infermiera del carcere ferrarese, Eva Tonini, è accusata di favoreggiamento e falso poichè, sembra per coprire gli agenti, dichiarò di aver visto il detenuto sbattere la testa contro il portone blindato della cella. Di falso e calunnia ora potrebbero essere chiamati a rispondere anche gli agenti che hanno dichiarato nel rapporto di essersi difesi da un’aggressione.
Il 1° settembre, sempre all’Arginone di Ferrara, muore suicida un 29’enne arrestato a Cento per detenzione di stupefacenti e di un’arma, una pistola semi-automatica, risultata rubata. Ora la Procura estense mette al vaglio la posizione di una decina di persone a vario livello nel carcere, che hanno avuto un ruolo nella carcerazione del ragazzo. Si vuole capire se ci siano responsabilità e mancanze in una morte che poteva essere evitata.

Dopo 8 anni e mezzo inizia la nuova stagione

Rieccoci con la nuova stagione, è dalla primavera del 2013 che radio Città Fujiko ci sopporta, un grazie agli amici della Radio per la pazienza. E’ dalla primavera del 2013 che vi diamo notizie da dentro e fuori il carcere, da 8 anni e mezzo siamo ancora qua a dirvi che un mondo senza gabbie è un mondo migliore, che ci può essere una giustizia dettata dagli uomini e non dai governi, dettata dai popoli in pace, dalla solidarietà e dalla tolleranza.

Perché quella giustizia che ci è imposta dall’avidità delle economie globali, che ci è imposta dalla repressione di polizia e tribunali, la giustizia delle frontiere, degli eserciti, degli arricchiti, del lavoro di merda sottopagato, quella del razzismo di chi non si sente razzista, quella giustizia la conosciamo già, la viviamo giorno dopo giorno, la giustizia dell’ingiustizia.

I detenuti oggi in Italia sono 53.557, di cui 17.066 gli stranieri, ovvero quasi il 32% sul totale. La percentuale del sovraffollamento rispetto la capienza consentita è del 5%. Sono circa 300 prigionieri in meno di un anno fa, quindi si può dire che un anno di pandemia non ha sortito alcun effetto sulla popolazione detenuta. Il primato spetta come sempre alla Lombardia con 7.736 ristretti, seguita dalla Campania con 6.432 e dalla Sicilia con 5.888.

L’Emilia Romagna si piazza settima con 3.224 detenuti, il 7.6% in più del consentito, il 47% è di origine straniera. Il carcere della Dozza a Bologna conta 736 ristretti, il 47% in più del consentito. Parma al secondo posto con 665 ristretti, esattamente il numero consentito. Al terzo posto Piacenza con 372 detenuti, ben sotto la capienza regolamentare.

Le percentuali della popolazione detenuta di origine straniera ci disegna una mappa dell’Italia disomogenea, con bassissime percentuali al sud mentre molto alte invece al nord, con concentrazioni in regioni di frontiera e lungo i tragitti delle migrazioni verso il centro-nord dell’Europa. Questo ci ricorda che dove c’è molta ricchezza si trova anche molta emarginazione, dove c’è più chiusura delle frontiere si vivono tensioni sociali più elevate.

Il naufragio della coscienza

 

A luglio un peschereccio con 62 migranti a bordo s’inabissa a 500 metri dall’isola di Lampedusa. 46 i naufraghi salvati dalla Guardia Costiera. Per 16 migranti non c’è stato, però, nulla da fare: 7 i corpi ripescati immediatamente, tutte donne di cui una in stato di gravidanza. Gli altri nove hanno seguito l’imbarcazione a 80 metri di profondità, 2 bambini accanto a quelle che potrebbero esser forse le loro madri, altre tre donne e l’unico corpo maschile tra i 16 morti, quello dello scafista intrappolato sul ponte di comando. I drammi tra i flutti sono sempre quelli: se non arrivano immediati i soccorsi sul luogo di un naufragio i primi a morire sono i bambini, seguiti dalle loro madri e dalle donne.
50.000 euro il prezzo per ripescarli con i mezzi della Marina Militare, ma il governo non li ha stanziati. 50.000 euro è il prezzo che devi pagare se sei un migrante che muore in mare. Molto meno costa il funerale di qualsiasi italiano. Allora si è mossa la solidarietà delle persone e delle associazioni ma non basta: la Marina Militare non può ricevere fondi da privati quindi ha le mani legate. L’opzione di recuperare i corpi resta quella di reclutare società private ma i costi salirebbero alle stelle e i 50.000 euro non sarebbero più sufficienti. Soluzione: restano in fondo al mare finché ci dimenticheremo di loro.
Ad oggi non è stato possibile ripescare quei corpi che da più di due mesi giacciono in fondo al mare, in fondo alle nostre coscienze, giacciono sotto una frontiera e sotto la politica di accoglienza europea.

L’assurda morte di Moussa

Si chiamava Moussa Balde e veniva dalla Guinea. Moussa Balde aveva 23 anni e si è impiccato nel CPR di Torino il 23 maggio dopo due settimane di isolamento sanitario. 23 anni. Moussa è stato pestato da tre uomini a Ventimiglia mentre chiedeva l’elemosina. Il video del suo pestaggio ha fatto il giro della rete. I suoi aggressori sono stati identificati e si difendono parlando del tentativo di furto di un cellulare. Il giudice ha deciso di non indagarli con l’aggravante dell’odio razziale.

Fatto è che Moussa, già colpito da provvedimento di espulsione per alcuni piccoli precedenti per furto, da vittima di un’aggressione diviene colpevole di essere irregolare in Italia. Poco importa se hai delle fragilità psicologiche o delle debolezze che potrebbe avere qualunque 23’enne che affronti la traversata del Mediterraneo e approdi in una terra, quella italiana, che non lo vuole e fa di tutto per rendergli la vita un inferno. Quando si muove quella macchina, quella dell’espulsione, non si ferma davanti a niente: a corpi, fragilità, esistenze, esperienze, affetti e legami, speranze, inghiotte tutto e tritura, snocciola e tu diventi un numero da appuntare sulla medaglia di tutti quei razzisti che non si considerano razzisti. Così è stato anche per Moussa, un numero tra i tanti che ha conosciuto sulla sua pelle l’accoglienza degli italiani. Cosa ne può sapere un ragazzo di 23 anni dalla Guinea dei patti tra Roma e Tripoli, tra Roma e Tunisi, tra Roma e Bruxelles, lui sa solo che, se dovesse tornare nel suo paese, parole sue, sarebbe stato ammazzato dalle stesse persone che lo hanno costretto alla fuga.
Tutto è mancato al giovane Mousse, dall’assistenza psicologica alla comprensione della sua situazione, dalla fragilità di 23’enne fino alla minima pietà umana. Ora lo vediamo in uno scatto, sorridente in una manifestazione a Roma per i diritti dei migranti, con indosso una maglietta bianca. Scritto in rosso sul petto si legge: “Imperia Antirazzista”. Nulla di più amaro.
Ora tutti si stringono al suo feretro, dall’avvocato difensore ai Garanti per i detenuti nazionale e locale, dagli amici alle associazioni religiose e dei migranti. Una faccia della giustizia fatta di carteggi, di ricorsi, di colloqui, di udienze, di rinvii, di attese, una macchina che viaggia molto più lentamente di quello che divora la disperazione umana. Anche noi siamo tra loro a protestare per un morte così assurda, ma probabilmente il tempo cancellerà ciò che Moussa ha lasciato sulle nostre coscienze, un poco alla volta, come onde sul bagnasciuga, fino al prossimo lenzuolo annodato al collo dell’accoglienza italiana, nel silenzio mediatico, tra reti e cemento in un lontano lager per migranti.

Fermiamo questi omicidi di Stato! Basta frontiere!

Lettera di Enrik dal carcere di Busto Arsizio

Riceviamo da internet questa lettera scritta dal carcere di Busto Arsizio:

(11 febbraio 2021)

Buongiorno a tutti voi
Come prima cosa vorremmo ringraziarvi per la vostra lettera, ci ha tirato molto su di morale sapere che là fuori c’è qualcuno che ha molto a cuore le nostre condizioni e la nostra causa.
Vorrei come prima cosa scusarmi in anticipo per il mio italiano non perfetto, e spiegarvi i motivi per i quali si è arrivati alla protesta nel carcere di Varese.
Il primo episodio avviene ai primi di ottobre dove un uomo viene trovato morto suicida nella sua cella singola, non voglio entrare in merito ai motivi i quali lo hanno spinto a questa estrema decisione, ma sappiamo per certo che alcuni sintomi c’erano, nonché la mancanza di sorveglianza. Quello che vorremmo far notare è che la notizia non è uscita, almeno per ciò che sappiamo, né sui giornali o altro, e anche che il carcere se ne è ben presto dimenticato.
Il secondo episodio riguarda (Pasquale Siciliano) un uomo e amico di 50 anni che muore precocemente dopo appena un giorno dalla notizia di essere diventato nonno. (Siamo ai primi di settembre). Premetto che a Varese, essendo un carcere piccolo, il sistema sanitario funzionava in questo modo che: alle 18.00 il medico finisce il suo turno lavorativo e fino alle 08:00 del mattino non c’è personale sanitario.
Sono le 21.00 circa, e Pasquale si sente poco bene lamentando dolori all’addome all’altezza del cuore ed un formicolio al braccio, per questo gli viene data la medicina magica che secondo loro cura ogni cosa e che viene data veramente come cura ad ogni malessere, a questo punto, dopo aver preso la TACCHIPIRINA viene rimandato in cella.
Verso le 24:30/01.00 non si sente bene chiede aiuto e viene portato dalle guardie in infermeria, e dopo un’attenta valutazione medica di un’ora e mezza, dalle guardie viene rimandato in cella, sono le 02:30 circa. 10 minuti più tardi dalla sua cella si leva un grido di aiuto suo e del suo concellino al quale si sente rispondere dal capoposto di turno (FINISCILA DI SCASSARE). Sembra una storia da film, ma qui al carcere di Varese è realtà perché sotto atroci dolori Pasquale muore verso le 03:00 del mattino. Lo chiamano infarto o morte naturale, ma non è così: Pasquale muore per la negligenza e l’omissione di soccorso delle guardie di turno, situazione che per noi non si può chiamare morte naturale ma assassinio senza ancora un colpevole.
Il giorno dopo tutti i detenuti ci siamo recati fuori all’aria dove al grido di “SIETE ASSASSINI” chiediamo spiegazioni, chiediamo di poter parlare con il magistrato di sorveglianza e ci rifiutiamo di entrare. Bhè non avevamo fatto i conti che era domenica e come normale che anche il magistrato ha di meglio da fare. A quel punto arriva il comandante che dà rassicurazioni: che avrebbe preso le nostre testimonianze e che non avrebbe più fatto rientrare in sezione il capoposto, rientriamo. Quel giorno abbiamo richiamato l’avvocato di Pasquale e ci siamo messi a disposizione per qualsiasi cosa, inoltre sappiamo che era presente a quell’ora anche un parente di Pasquale. Se avete possibilità di contattare la sua famiglia, siamo di nuovo a disposizione per ciò che necessitano e di fare le nostre più sentite condoglianze alla famiglia.
L’ultimo episodio, il quale ha portato poi alla rivolta, riguarda LONGO FRANCESCO.
Longo è colpevole di essere andato dal capoposto a chiedere la sostituzione del televisore perché rotto, viene invitato ad entrare nell’ufficio del capoposto dove era presente anche l’ispettore del MOF, chiudono la porta e viene malmenato selvaggiamente a calci e pugni. Premetto che Francesco entra senza segni in un ufficio chiuso e senza telecamere, e dopo le grida che vengono da dentro, lo vediamo uscire con segni sulla faccia e sulle costole.
Frastornati da ciò ed essendo l’ora di rientrare nelle celle per la conta, ci rifiutiamo di rientrare perché pretendiamo risposte e spiegazioni. Si sussegue un via vai di agenti, ispettori e comandante che vengono a parlare con noi negando e cercando di insabbiare ciò che è successo, promettendo che avrebbero fatto chiarezza e giustizia. Longo viene portato in infermeria e scrivono che non ha segni, che sta bene e che il fatto non sussiste.
Passa mezz’ora nel trambusto di chiunque ha qualcosa da dire e pensieri e richieste diverse, a quel punto Longo si accascia al suolo, chiediamo l’intervento dell’ambulanza a gran voce, ci vediamo arrivare il medico dell’istituto (il quale aveva detto che non avesse nulla) e delle guardie che vogliono portarlo in infermeria, non glielo permettiamo perché ha segni alle costole e può essere nocivo e che vogliamo l’ambulanza. Aspettiamo 5-10-20-30 minuti ma l’ambulanza non arriva.
Dovete pensare che le carceri sono come le leggi massoniche, che tutto deve rimanere tra loro insabbiato, non deve uscire, perché nessuno deve pagare. E pensare che la nostra richiesta è semplice, ossia che Francesco venga portato in ospedale curato e refertato per i danni provocati dall’ispettore. A quel punto sentendoci presi per il culo inizia la rivolta del carcere di Varese.
Qualcuno allaga l’istituto con gli idranti e qualcuno spacca le telecamere, luci, reti, porte, finestre, blindi, ufficio capoposto, gabbiotto blindato delle guardie, quadri elettrici. A questo punto arriva una squadretta. La chiamano squadretta, ma entrano in 30 armati con manganelli, armi, caschi, scudi, lacrimogeni. (Polizia penitenziaria, carabinieri, polizia), mancava la forestale. Non essendo in grado di entrare fanno uso di lacrimogeni e gas di estintori, essendo presenti in sezione e nell’istituto anziani, persone con problemi di ansia ecc., decidiamo di rientrare. In tutto ciò rimane ferito per modo di dire un detenuto che dentro la cella, avendo aspirato i gas, ha problemi respiratori e si accascia al suolo, soccorso dopo 10 minuti da una guardia folgorata dalla presenza di acqua e cavi di corrente aperti.
Da questa situazione ci arrestano in 6 i quali siamo tutti stati portati in carcere a Busto Arsizio, sappiamo che ci sono stati altri 31 trasferimenti a Como-Monza-Sondrio-Pavia-Vigevano, ma purtroppo di loro non sappiamo nulla e non abbiamo notizie.
Possiamo dire di noi 6: nessuno fino ad oggi ha subito problemi fisici, torture o altro, anche perché hanno fatto abbastanza, essendo che ci contestano reati di danneggiamento, resistenza a pubblico ufficiale e devastazione (che prevede pena minima di 8 anni).
Per quanto riguarda noi a Busto Arsizio, nei nostri confronti c’è un clima ostile da parte delle guardie: è 3 settimane che siamo qui e c’è ancora chi non riesce a parlare con la famiglia, siamo in Sezione Covid dove tutti fanno 14 giorni e dopo il secondo tampone negativo li spostano in sezione, per noi no. Ci hanno dato 10 giorni di isolamento da fare che faremo più avanti perché siamo ancora pieni.
Noi siamo gli arrestati per la rivolta di Varese e vogliamo anche firmarci su chi siamo:

Lenkstakas Enrik (Albania); Younas Waqar (Pakistan); Vyzas Rudin (Albania); Tutino Stefano (Italia); Abubakar Mustapha (Ghana); Konrad Lofti (Tunisia).

Per quanto riguarda i problemi di altri detenuti qui a Busto, che vogliono rimanere anonimi, posso dirvi: l’area trattamentale non funziona anche se continui a iscriverti nessuno ti chiama.
– Ti segni in sorveglianza ma funziona uguale o non ti chiamano o dopo molto tempo;
– Fai le richieste tramite domandine (mod.393) e spariscono, questo sia per quelli già qua che per noi che veniamo da Varese;
– Chiedi di lavorare, ma le condizioni sono due o devi cominciare a fare l’infame o devi stargli simpatico. Hanno un criterio tutto loro per decidere;
– Le linee telefoniche non vanno e il centralinista non c’è mai per recuperare una chiamata;
– Il mangiare addirittura a volte è arrivato con la muffa, per non parlare della frutta sempre marcia di routine.

E con questo vi ringrazio per le lettere (buste) e per volerci dare voce, vi prego di risponderci se mai questa lettera vi arriverà, se non sarà cestinata, letta da loro (ma non mi interessa) o chissà.
Vi ringraziamo e vi mandiamo un caloroso abbraccio, i detenuti di Varese e Busto Arsizio.

 

Per dimostrare solidarietà e supportare i detenuti potete scrivere il loro nome seguito da:

Casa Circondariale – Via Cassano Magnago 102 – 21052 Busto Arsizio (VA)

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