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UNO STRISCIONE A SARONNO

Che al PD saronnese non difetti la faccia tosta ce ne siamo accorti da tempo. Nei 5 lunghi anni di amministrazione Porro a Saronno abbiamo assistito, tra le altre cose, al taglio dell’acqua di una casa occupata e a sgomberi a ripetizione. A livello nazionale il PD ha sempre cercato di essere all’avanguardia sia con manovre economiche e di politica del lavoro tutte a scapito dei lavoratori, introducendo nuove forme di sfruttamento, sia di politica sociale con il celebre decreto Minniti, vero e proprio apripista all’attuale decreto Salvini.

Lunedì sera hanno organizzato un incontro in Villa Gianetti dal titolo “siamo in recessione”. Vedere alla voce “avere la faccia come il culo”.
Questo lo striscione appeso durante l’incontro:

RIMPATRIO

Rimpatrio a Saronno. Un tunisino di 22 anni (ricordate l’agente di Polizia Locale che si ruppe l’omero inseguendo un fuggitivo?) è stato braccato dalla Polizia Locale nei paraggi della stazione di Saronno. Questa volta i localotti non si sono rotti l’omero, ma anzi hanno consumato la loro personale vendetta. Gli sgherri dello sceriffo Fagioli lo hanno infatti consegnato alla Polizia di Stato. Poichè sprovvisto di documenti è stato coattamente portato all’aeroporto di Malpensa, imbarcato sul primo volo direzione Bari. Nel capoluogo pugliese è stato rinchiuso nel Cie, il Centro di identificazione ed espulsione, in vista dell’espulsione dall’Italia.

PRESIDI CONTRO I CPR

Dieci giorni fa una ventina di persone ha percorso il centro e il mercato di Como, distribuendo volantini e parlando al megafono, per contrastare la possibile apertura di un CIE (o CPR) in città. Sabato scorso un altro presidio ha ricordato, questa volta alla città di Monza, l’avversione ai proclami del governo in tema di gestione dei flussi migratori. Ultimo di questo ciclo di presidi sarà domenica 5 marzo alle ore 15 in stazione centrale, piazza Duca d’Aosta, Milano.

TRA PROCLAMI E SECONDA ACCOGLIENZA IN PROVINCIA

In questi mesi di ridefinizione del sistema accoglienza, tra proclami nazionali e gestione locale, sempre più si evidenzia come la cosiddetta seconda accoglienza sia sempre più stampella indispensabile al sistema di gestione dei flussi migratori, vera e propria conditio sine qua non di retate, CIE (o, seconda la nuova definizione, CPR) e rimpatri coatti.

Nella provincia di Varese la gestione della seconda accoglienza di migranti richiedenti asilo all’interno di CAS o SPRAR è distribuita in 43 Comuni.
Sono circa 1700 (1676 ottobre 2016) i richiedenti asilo smistati all’interno di questi centri sulle 879.480 presenze complessive della popolazione varesotta. Nei fatti, nonostante il clima di assedio generale diffuso dai media locali e dai politicanti di destra, la percentuale di richiedenti asilo ricopre solo lo 0,19% della popolazione varesotta.
Una discreta parte degli appalti di gestione di questi centri è stata affidata alla KB SRL di Katiusha Balansino, che dall’ottobre del 2014 è misteriosamente passata dall’allevamento di capre e asine nel comune di Arona (sua attività precedente) all’attuale gestione di circa 700 richiedenti asilo nell’area del varesotto (circa il 40% dei presenti sul territorio). La prefettura di Varese in questi ultimi due anni ha affidato alla KB ben 11 appalti ad assegnazione diretta, per un valore di 2.681.000 euro. Da sottolineare anche la figura di Roberto Garavello, marito della Balansino. Immobiliarista, socio o amministratore di ben 17 società, quasi tutte nel settore edilizio, è colui che si occupa di reperire gli stabili in affitto (ad esempio la palazzina dell’Enel in via dei Mille a Busto Arsizio) nei quali mettere i migranti. Chiaramente l’accoglienza qui non c’entra, o c’entra solo come possibile business.
Minima spesa, massima resa.
Nel complesso il giro di affari che ruota intorno alla KB in merito alla gestione e all’accoglienza dei richiedenti asilo ruota intorno agli 8.000.000 di euro annui.

Nei vari centri sotto la gestione KB spesso gli ospiti sono costretti a vivere stipati in piccoli appartamenti, a volte non riscaldati e con scarsi servizi igienici (nel CAS di Busto Arsizio c’è un bagno ogni 25 persone). Scarse anche la qualità del cibo e l’eccessiva attesa per l’ottenimento dei documenti.
Stanchi di questo clima di attendismo e di scarsa qualità della vita, nonché di infantilizzazione e costrizione, i migranti hanno messo in campo numerose proteste. La scorsa estate a Busto Arsizio per esempio, i 176 richiedenti asilo che si trovano nel CAS di via dei Mille, bloccarono il traffico per almeno un’ora nei pressi di piazza Plebiscito, vicino al Teatro Sociale. Stessa cosa avvenne qualche mese fa a Uboldo, dove gli “ospiti” bloccarono il traffico in segno di protesta contro il cibo scadente.
Di più. A Tradate, in un centro di accoglienza straordinaria gestito dalla Croce Rossa Italiana, i migranti hanno protestato a più riprese, lamentando la lentezza della burocrazia e pretendendo il rilascio dei documenti necessari alla loro permanenza in Italia. A partire dalla scorsa primavera si sono succeduti sit in davanti al comune e blocchi del traffico. Ma l’episodio più eclatante è avvenuto quando gli stessi migranti si sono barricati all’interno del centro impedendo l’ingresso ad operatori e volontari. A Samarate invece la polizia ha sgomberato un altro centro, ritenuto non idoneo, ridistribuendo gli inquilini in altre quattro località: Busto Arsizio (già sovraffollato), Uboldo, Fagnano e Somma Lombardo). Tra i motivi che hanno portato allo sgombero pare esserci il fatto che il gruppo era piuttosto coeso e “autogestivano” in parte il centro: lo sgombero sarebbe nato anche dalla volontà di dividere il gruppo e di estromettere alcune persone che non avevano più diritto di stare all’interno della struttura.

Spostandoci di qualche chilometro, paradigmatica è la situazione del campo della Croce Rossa di Como. Dopo un’estate decisamente movimentata, con il tentativo di autogestione del parco davanti la stazione di San Giovanni e diversi momenti decisamente inusuali per una città placida come Como (tra cui un numeroso e rumoroso corteo serale per la libertà di circolazione e contro le frontiere) e con l’apertura del campo della Croce Rossa, l’autorità ha creduto di essersi tolta la patata bollente dalle mani. Tuttavia l’ingresso al campo è rimasto consentito solo a donne considerate in cattivo stato di salute, minori, famiglie. I cosiddetti cani sciolti, uomini soli, o in piccoli gruppi – che continuano a cercare di attraversare le frontiere, per loro chiuse, verso mete in cui hanno affetti o nutrono speranze per una vita migliore -, non vengono fatti entrare, a meno che non presentino richiesta d’asilo, permettendo di farsi fotosegnalare dalla Questura, che però a volte li rilascia con un bel decreto d’espulsione alla mano.

L’ingresso all’interno del campo non prevede ovviamente chi arriva da un altro centro di accoglienza. Chi non passa questa ardua selezione ovviamente rimane fuori: molti tentano di accamparsi in situazioni di fortuna, o fuori dal campo stesso, ma vengono puntualmente sfollati e allontanati dalle Forze dell’Ordine. Proprio lunedì scorso la polizia di Como ha dato vita a un’autentica caccia all’uomo nelle strade della città, nei luoghi abitualmente frequentati dai migranti e in quelli che danno loro rifugio. Complessivamente sono state rastrellate una cinquantina di persone prive di documenti o presunte tali, di diversa età e nazionalità. Queste persone sono state portate alla sede della polizia di frontiera da dove circa trenta migranti “irregolari” sono stati deportati a Taranto, nell’ottica di un rimpatrio quasi certo.
Un gran numero di persone testimonia il carattere violento e razzista del rastrellamento: manette, pestaggi e identificazioni forzate di chiunque non fosse bianco, inclusi due studenti medi che prendevano il bus dopo la scuola. A chi ha provato a filmare l’episodio è stato distrutto il telefono.
(Yallahcomo)

Da dentro il campo invece giungono notizie e lamentele sulla scarsità del cibo (appalto in gestione alla Camst, vecchia conoscenza, azienda operante nel settore della ristorazione che fornisce pasti dalle scuole alle carceri, dalle fabbriche ai CIE), il freddo, il poco spazio e la scarsità di assistenza legale. Le informazioni riguardanti il centro sono difficilmente reperibili, data la chiusura ermetica della Prefettura. Sappiamo che il malessere diffuso all’interno di questo campo è sfociato anche in un tentativo di suicidio, e che l’eccessiva gestione detentiva e poliziesca di esso abbia persino portato all’allontanamento di un nutrito gruppo di volontari.

In generale, in una fase di transizione del sistema di gestione dei flussi migratori, notiamo da una parte come ampi siano ancora i margini di speculazione sulla vita di migliaia di persone, e dall’altra come non si ponga nemmeno troppa attenzione di fronte alle sparate razziste e violente di politici in cerca di consenso. E’ sempre più evidente come la tanto decantata buona – per gli affaristi – accoglienza sia propedeutica alla cattiva.
E tuttavia ampi, e in gran parte ancora non visitati, rimangono anche gli orizzonti di chi pone la solidarietà contro la violenza di gabbie e frontiere.

Saronno, presidio contro i CPR (CIE)

Domenica 12 febbraio in piazza Portici a Saronno si è svolto un presidio contro i CIE (rinominati CPR: Centri Permanenti di Rimpatrio) in risposta alle dichiarazioni del ministro Minniti sulla volontà governativa di aprire uno di questi centri in ogni regione. Scopo di questa nuova politica sarebbe il velocizzare ed incrementare il processo d’espulsione dei migranti che arrivano “clandestinamente” sul suolo italiano. Durante il presidio è stato volantinato un testo per le vie del centro, ribadendo la totale avversione nei confronti di queste strutture, di chi specula sulla pelle dei migranti e della propaganda razzista che viene divulgata dai media.

GIÙ LA MASCHERA

Notizia di questi giorni è la rinuncia di una buona parte dei volontari che operavano nel centro per migranti di Como a continuare a prestare servizio all’interno dello stesso. Il vaso di pandora è stato scoperchiato e la verità è venuta a galla anche per coloro che riponevano fiducia nelle istituzioni ed in CRI, arrivando ad essere testimoni diretti del fatto che questo tipo di soluzione non è percorribile e cozza con qualsiasi pulsione umanitaria al di fuori delle logiche di business e controllo. Recentemente un ragazzo di quindici anni ha tentato di togliersi la vita ed è stato rispedito all’interno del campo nonostante fosse stato salvato in extremis due giorni prima. L’unico scopo per cui questa struttura (ed altre come questa) è stata creata è lo stipamento di persone per la messa in valore delle stesse da parte del capitale, attraverso la coercizione e la disumanizzazione.

AREE DISMESSE AL SETACCIO NEL BASSO VARESOTTO

Mattinata di rastrellamenti settimana scorsa per i Carabinieri del basso varesotto. Tra Castellanza e Saronno sono state messe al setaccio diverse aree dismesse di ex-fabbriche alla ricerca di irregolari che con la colpa di essere poveri cercano alloggi di fortuna per avere un quasi-tetto sotto cui dormire. Quindici di questi sono stati sgomberati da una delle ex-Cantoni (quella di Castellanza), in nome della sicurezza della cittadinanza. Questa serie di episodi, purtroppo sempre più frequenti, ci ricorda che la lotta di classe è sempre più dilagante, ma a senso unico e a discapito dei più oppressi.

CIE O NON CIE?

I sindaci dei Comuni intorno a Malpensa hanno preparato una lettera che invieranno al ministro dell’interno Minniti sulla questione CIE. Temono infatti, essendo l’aeroporto internazionale un punto sensibile per quanto riguarda le migrazioni e soprattutto le deportazioni, si possa proporre la costruzione di un centro di identificazione ed espulsione nella zona. Tutto questo a causa del vociferare da parte del nuovo (?) governo sulla proposta di costruire almeno un CIE in ogni regione. Una lettera è poca cosa, ma è degna di nota la CIE-fobia che i politicanti in cerca di consenso trasmettono tramite gli istinti più bassi alla popolazione varesotta.

Di sbirri, provocazioni leghiste e altre quisquilie

A distanza di 15 giorni proponiamo qualche riflessione sul dispositivo repressivo, sia forze dell’ordine sia forze politiche, durante la tre giorni contro le frontiere a Saronno, focalizzando l’attenzione sui momenti di continuità e su quelli di discontinuità con il passato.

La solita canea mediatica, tipica di ogni momento di piazza nella città degli amaretti, ha seguito anche in questo caso la tre giorni contro le frontiere a Saronno.
Una tre giorni che oltre a favorire lo scambio, il confronto e la critica su idee e pratiche contro le frontiere, ha anche lasciato intravedere, volta più volta meno, alcune criticità riguardo la gestione dell’ordine pubblico e il dispositivo repressivo in generale, intendendo con questa espressione generica le forze politiche, le forze reazionarie, le forze dell’ordine e i mass media.
Partiamo dai fatti, conditi da qualche considerazione a margine.
Mercoledì 14 dicembre nel primo pomeriggio viene occupata la vecchia sede della Mutua in via Stampa Soncino 6. Uno stabile piuttosto grande e abbandonato dai primi anni duemila a ridosso del centro storico e a pochi passi dal Municipio e dalla Caserma dei Carabinieri.
Le iniziative della tre giorni iniziano il venerdì, con alcune iniziative di piazza pubbliche, alcune non pubbliche, e due momenti di discussione molto partecipati: uno riguardo le deportazioni e uno riguardo la seconda accoglienza.
Il venerdì due presidi alle due sedi di Poste Italiane a Saronno, uno mattutino improvvisato, e l’altro serale invece pubblico, informano decine di passanti del ruolo di Mistral Air e di Poste Italiane nella gestione delle deportazioni. Nel frattempo una quindicina di agenti in borghese presidia la stazione di Saronno armati di videocamere, pronti a riprendere da capo a piedi ogni persona considerata sospetta e/o giunta in città per prendere parte alla tre giorni.
Il presidio serale è costretto tra le forze dell’ordine, che però vengono eluse sia con blocchi a singhiozzo, sia in seguito sparpagliandosi tra il traffico serale, ricompattandosi poco dopo per un corteo in centro con cori e fumogeni.
La mattina seguente è la volta di un presidio a Fino Mornasco davanti alla sede della Rampinini, azienda privata di viaggi e trasporti che si presta, come Mistral Air (e quindi Poste Italiane), alla deportazione di migranti. Fuori dalla stazione un nutrito dispiegamento di celere e digos attende i manifestanti, che li aggirano e si piazzano davanti alla sede per il presidio.
La mattina del corteo il centro storico si sveglia con diversi occhi elettronici non funzionanti e ricoperto di scritte contro la sorveglianza, contro le deportazioni, contro le forze dell’ordine, contro Unicredit collusa con Erdogan, e in generale contro la gentrificazione lenta ma perpetua del centro storico, che con le nuove ordinanze e l’installazione di decine di nuove telecamere è sempre più un centro commerciale a cielo aperto, simbolo della Saronno che vorrebbe chi detiene, a vario titolo, il potere in città.
Nel pomeriggio il concentramento per il corteo è come al solito nei pressi della stazione, in piazza San Francesco, che però viene occupata un’oretta prima del ritrovo da un gazebo della Lega Nord, partito di maggioranza dell’amministrazione comunale. I compagni che provano a raggiungerla in corteo dallo spazio occupato vengono impacchettati, scortati e poi spostati a poche decine di metri dal gazebo leghista, in direzione della stazione ferroviaria, divisi da un nutrito cordone di celere. Un altro cordone blocca la via nell’altro senso, bloccando e impedendo quindi ogni possibilità di movimento. Il corteo si trasforma quindi in presidio, che dura un paio d’ore prima di sciogliersi dopo qualche coro e qualche intervento al megafono.
Nei giorni seguenti la solita pioggia di polemiche e condanne unisce i diversi schieramenti politici, lamentandosi del traffico e delle scritte, oltre che della presunta impunità (?!) di questi refrattari all’ordine costituito.

Dai fatti di questi giorni constatiamo come la Questura di Varese, oltre all’ormai consueto lavoro di schedatura e videoripresa, abbia predisposto un pacchetto sicurezza da grandi occasioni. La scelta è ovviamente politica e concerne tanto il Questore quanto Sindaco e Prefetto. Il cambio di passo consiste proprio nell’alzare il livello della repressione di piazza: da un lato con la forza poliziesca e di Stato, dall’altro – non meno subdolo e rilevante, con una strategia politica infima – con il posizionarsidei leghisti,con tanto di bandiere, a poche decine di metri dal punto di partenza di un corteo antirazzista e contro le frontiere (ovviamentescortati da un dispositivo di un centinaio di forze dell’ordine),mettendo in atto una chiara provocazione. Non è un caso inoltre, che a poche centinaia di metri dal gazebo leghista ci fosse un altro gazebo, presidiato dai militanti del partito di maggioranza più spostato a destra.
Nelle dichiarazioni postume del sindaco-sceriffo emerge il vanto riguardo i provvedimenti repressivi e polizieschi presi in questi primi mesi di governo della città: militarizzazione della Polizia Locale, aumento del controllo e della repressione verso venditori di strada e poveri in generale, raddoppio del sistema di videosorveglianza cittadino.
Riguardo la presenza conflittuale in città la nuova politica repressiva consiste quindi, come anche dichiarato dal sindaco stesso, nel pugno di ferro: pioggia di fogli di via ad hoc, pretestuose multe per volantinaggi o attacchinaggi, per arrivare infine alla provocazionedi piazza.
Nient’altro che cose di cui prendere atto.
Al pari di come c’è da prendere atto che la scelta di impedire con il dispositivo repressivo il corteo di domenica non sia stata una scelta di ordine pubblico o di gestione della viabilità, tant’è che rimanendo costretti in presidio in stazione il centro è rimasto sia blindato sia off limits alla viabilità, non risolvendo nessuna delle due questioni di cui sopra.
Al contrario le ragioni di questa scelta sono ben diverse da quelle decantate dalla canea mediatica che ha fedelmente riportato le parole dei partiti di maggioranza. Si è palesato invece l’intento repressivo di contenere una presenza indesiderata in quanto non dialogante con l’autorità, ma così facendo è stata impedita soltanto la comunicatività del corteo, non la presenza in piazza o le code alle porte della città.
E proprio questo è stato nei fatti l’intento poliziesco: dividere il corteo/presidio dai saronnesi, creare e blindare una sorta di “zona rossa”, impacchettare i manifestanti e quindi creare un clima di tensione che ha poi impedito ogni possibilità di comunicazione con la città.
Ogni momento, ogni situazione potenzialmente conflittuale si inseriscono nel più ampio rapporto con le forze dell’ordine, che in questi ultimi anni hanno provato in ogni modo (denunce a raffica, avvisi orali, fogli di via, goffi tentativi di reati associativi e sorveglianza speciale) a limitare e ridurre la presenza conflittuale sul territorio. Anche in quest’ottica può essere letta, secondo noi, la provocazione poliziesca e il dispositivo messo in piedi.
Di tutto questo c’è da prendere atto, consapevoli di come la comunicazione sia praticabile sotto diverse forme, e la fantasia in questo è una buona compagna di avventura, ma ben consapevoli di come l’agibilità politica si conquisti e si difenda metro per metro, colpo su colpo.

E che la presenza in città di chi degrada le nostre vite con la miseria della guerra tra poveri, con la silenziosa violenza di chi ha dalla sua la Legge, di chi specula – da sciacallo – sulla vita e sulla morte di migliaia di persone continui a necessitare della protezione dei servi in divisa, perché le parole hanno un peso. E le azioni anche.

Saronno, 3 gennaio 2017