Uscire dal silenzio. Ma quale?

Il silenzio sulla storia di Giuseppe Uva è stato ormai rotto da tempo. Manca però ancora il racconto di una storia che è nostra, è altra, è tutto.

“A Giuseppe.
Io lo vidi, non lo conobbi mai e me ne dispiace.
Perché nel momento del bisogno, con lui non ero.”

Via Dandolo non era a Varese.
Nel 1816, il conte Vincenzo Dandolo “si fece promotore della realizzazione del primo ’Passeggio pubblico’ alberato di Varese…” “…il terreno era suddiviso in quattro filari ordinati e regolari, così da formare tre ampi viali, ombreggiati da ben 154 esemplari di piante esotiche ”. (Paolo Cottini – “I Giardini della Città Giardino” – Ed. Lativa – 2004 ). Quella che oggi si chiama, appunto, Via Dandolo, un tempo non era che lo “stradone che da Varese mette alla Madonnina ”. Percorrendolo ci si allontanava dalla città, per introdursi nella castellanza di Biumo Inferiore, vero e proprio nucleo indipendente dal centro medievale sviluppatosi intorno alla basilica di San Vittore.
Le castellanze sono state, ormai da decenni, fagocitate dal grigio uniforme di una città sempre meno a misura d’uomo e sempre più funzionale all’economia. Tuttavia, aggirandosi a piedi per questi antichi borghi, magari con la lentezza di chi non corre dietro all’ultima offerta pubblicitaria, è possibile indagare i segnali, a volte indelebili, spesso occultati, di un diverso passato: fra stretti vicoli e cortili, gli antichi edifici, più bassi che altrove, ospitavano case, officine, stalle.
Ed è proprio in uno di questi edifici che dal 1920, è presente la Cooperativa Unione Familiare, storico ritrovo negli ultimi decenni, dei giovani di sinistra, che il sabato sera, da mezza provincia di Varese, venivano ad intasare le scale di ingresso e quelle sul retro. Questo è probabilmente il ricordo più forte che molti hanno di quel luogo: seduti sulle scale, bella gente, pessimo vino. In quel luogo, magari a tarda notte, potevi facilmente incontrare Giuseppe Uva.

Panchine.
Torniamo ora in Via Dandolo, perché dei “154 esemplari di piante esotiche” del Conte Vincenzo, ora non rimane più molto. Tra semafori a due corsie e condomini borghesi, lo “stradone” è ormai dimezzato. Rimane un po’ di passeggio con i vecchi platani, l’edicola, le siepi. E basta. Non c’è più la fontanella né le vecchie panchine, sostituite da sedili monoposto a distanza di circa un metro l’uno dall’altro. Troppo comode, le panchine. La gente le usava, le viveva, sedendosi, baciandosi, leggendo, chiacchierando, mangiando, bevendo, a volte dormendo. Momenti comuni alla vita di ognuno.
Si possono ancora fare queste cose, in Via Dandolo, ma senza stare troppo comodi, senza sdraiarsi, senza poter appoggiare un sacchetto col panino, senza sciacquarsi le mani e la faccia alla fontanella, senza stare seduti vicini.
Niente panchine.

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«Sono panchine perfette che rispecchiano lo scopo per il quale le abbiamo volute» dichiara l’assessore al verde pubblico Stefano Clerici, padrino di un’altra interessante iniziativa: l’intitolazione di un giardino di fronte ad alcune scuole a Giovanni Gentile “assassinato il 15 aprile 1944 negli anni tristi della guerra civile e della divisione tra gli italiani”. Sì proprio lui, il ministro dell’istruzione, teorico del fascismo, sostenitore del regime, firmatario del Manifesto della Razza, giustiziato da un GAP delle Brigate Garibaldi, a Firenze, nell’aprile del 1944.

Giuseppe Uva.
La notte del 14 giugno 2008 Giuseppe Uva si trova proprio vicino a Via Dandolo, quando viene fermato dai carabinieri Dal Bosco e Righetto di Varese e portato nella caserma di Via Saffi, insieme al suo amico Alberto (sono presenti anche degli agenti di polizia). Ed è proprio Alberto a richiedere i primi soccorsi al 118, quando sente il suo amico gridare «Ahi! Ahi! Basta!», ma l’operatore all’altro capo del telefono, dopo averlo rassicurato «Va bene, adesso mando l’ambulanza», chiama in caserma e si accorda coi carabinieri per non inviare alcun aiuto «Sono due ubriachi, ora gli togliamo il cellulare». Saranno poi gli stessi carabinieri, poche ore dopo, a chiamare una guardia medica, che richiederà all’Ospedale di Circolo di Varese di effettuare un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Il corpo di Giuseppe è pieno di lividi, il suo naso è rotto, i suoi testicoli sono blu, la sua pelle è segnata da alcune bruciature di sigaretta, dal suo ano esce del sangue che forma una grossa macchia sui pantaloni, ma non viene curato per le lesioni e niente di tutto ciò viene trascritto sui documenti del ricovero. Gli vengono però somministrati dei tranquillanti.
Egli inoltre racconta alla psichiatra di essere stato brutalmente pestato in caserma: ma da parte dell’Ospedale non parte nessuna denuncia. La stessa psichiatra aspetterà ben tre anni e mezzo per raccontare queste tragiche parole di Giuseppe, probabilmente le sue ultime. Dovranno passare invece cinque anni perché una donna che afferma di essere stata presente in ospedale testimoni quanto segue: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finiamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo la barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo».

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Uno striscione ad uno dei numerosi presidi fuori dal tribunale di Varese durante il processo per la morte di Uva

In tribunale.
Ma all’inizio, tutti fingono di non vedere, di non sapere. Tutti fingono che sia normale. Anche quando Beppe, dopo poche ore, muore.
E infatti, nonostante il suo corpo presenti evidenti segni di violenza, la magistratura sceglie di indagare solo un paio di medici, attribuendo la morte di Uva ad una errata somministrazione di farmaci, e non a quanto avvenuto in precedenza in caserma. Ma le perizie smentiscono questa ipotesi: Giuseppe non è morto a causa dei farmaci, che in nessun caso potevano ucciderlo; le cause della sua morte sono invece da ricercarsi in un mix di fattori, fra cui le misure di contenzione ed i traumi da corpi contundenti che ha subito.
Grazie alla testarda battaglia portata avanti dalla sorella di Giuseppe Uva, Lucia, col suo legale Fabio Anselmo e con i tanti solidali, la strategia della magistratura di far ricadere la colpa esclusivamente sui medici si è rivelata finora un totale autogol: i PM Abate e Arduni sono stati addirittura rimossi dall’indagine dal procuratore generale di Varese. Un nuovo processo sta per essere celebrato e questa volta contro carabinieri e poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale, abuso dei mezzi di contenzione, arresto illegale e abbandono d’incapace.

Processo allo stato.
Diciamoci la verità, senza ipocrisie: soltanto i suoi servi, possono pensare che non sia lo Stato il vero assassino in questa vicenda. Giuseppe è stato prelevato con la forza, rinchiuso, pestato; non è stato aiutato quando ha chiesto aiuto ed è stato invece drogato contro la sua volontà e messo su un letto a morire.

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Uno dei tanti adesivi apparsi a Varese negli anni successivi all’assassinio di Giuseppe. Non è di certo piaciuto ai servi delle Stato, fra questi Francesco Liparoti, coordinatore provinciale di SEL, che si prodigherà addirittura in un comunicato stampa dai toni demotristi: “le scritte sui muri e gli adesivi apparsi a Varese questa settimana in merito alla tragica vicenda Uva con cui si esprimono giudizi molto pesanti e gravi nei confronti delle Forze dell’Ordine non sono per niente condivisibili nel contenuto e nel metodo.”

Le responsabilità per la morte di Giuseppe non possono quindi essere ricondotte al singolo gesto, al singolo uomo, al singolo momento. La sintonia con cui si è agito o lasciato agire è un evidente risultato di comportamenti ed abitudini a lungo tramandate. Polizia, Carabinieri, 118, Guardia Medica, Pronto Soccorso, Reparto di Psichiatria, Magistratura… queste non sono mele marce, piuttosto le più dirette e manifeste espressioni del potere che lo Stato esercita su tutti noi.
Questo è il processo che dovrebbe interessarci. Un processo allo stato di tutte le cose. Esso non ci attende in futuro, ma ne siamo parte da sempre. Poiché esso è sempre.
Prenderne coscienza significa indagare i luoghi e i tempi attraversati da Giuseppe durante al sua vita e la sua morte, per scoprire che sono gli stessi che attraversiamo e viviamo tutti, nel quotidiano.
Imparare ad leggere anche la forma di una panchina, poiché essa è sempre legata a una precisa funzione che ci racconta di come funziona il mondo.
Allenarsi ad attraversare con lo sguardo le finestre chiuse nella notte di Varese, per accorgersi che ciò che accade giù in strada ci riguarda sempre.
Leggere nei luoghi le trasformazioni avvenute e quelle in corso, conoscerle e conoscersi per uscire dal silenzio, quello vero.
Quello fra di noi.