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Saronno ordina: la polizia deve multare!

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Saronno – Lo scorso 31 maggio, durante il consiglio comunale, a larga maggioranza, sono stati modificati e approvati 3 articoli del regolamento della polizia locale. Essi riguardano principalmente limitazioni della libertà personale, aspetti e azioni della vita quotidiana censurati e sanzionati con lo scopo di prevenire potenziali situazioni, che creino potenziali contesti, che originino presunto degrado o possibili reati.
Parliamo di deriva securitaria e controllo sociale.
Per capire meglio cosa sta succedendo, abbiamo trovato interessante raccontare la storia delle ordinanze repressive, a cominciare dalla famosa anti-alcolici di Gilli del 2009, e sottolineare (attraverso l’accostamento di fatti e dichiarazioni d’intenti e tentativi maldestri di giustificazioni) l’ipocrisia, la dannosità e l’inefficacia politica e sociale di questi interventi.

FLASH BACK
Aprile 2009: Saronno è amministrata da una giunta a maggioranza Forza Italia, il sindaco è Pierluigi Gilli e mancano due mesi circa alle elezioni amministrative; i partiti si trovano in piena campagna elettorale. La giunta uscente sfrutta il potere, gli strumenti e le risorse della cosa pubblica ancora a disposizione, per re-intercettare il proprio elettorato e l’opposizione si affanna a cercare di rimarcare le differenze, distinguersi, re-coinvolgere il proprio seguito.
La maggioranza di centrodestra emette un’ ordinanza pubblica che vieta di bere alcolici in città, tranne che nei locali pubblici, presumendo che al consumo di alcol consegua un probabile reato. Si tratta di un tipo di prevenzione arbitraria, visto che nei locali pubblici non viene imposto il medesimo divieto. Verrebbe da pensare che il pensiero di fondo sia che l’alcol dei locali pubblici sia meno dannoso per la salute o che chi frequenta questi locali abbia un’ attitudine meno spiccata a compiere reati sotto l’influenza di una sostanza di cui, vale la pena ricordare, l’assunzione è legale.
Ci sono critiche e proteste, da parte di singoli, associazioni, partiti, su internet nascono gruppi di pressione e dibattito sul tema; ricordiamo il gruppo fondato da Riccardo Galetti, membro della sezione PSI di Saronno e fondatore della sezione locale dei giovani socialisti: «Saronno – Contro l’ordinanza Gilli sugli alcolici nei luoghi pubblici».
Ecco alcuni post del 2009 dello stesso Galetti, il cui partito di riferimento era anch’ esso impegnato in campagna elettorale in quel periodo (il PSI paradossalmente oggi esprime un assessore alla sicurezza, Giuseppe Nigro, assolutamente in linea con le delibere restrittive, se non addirittura promotore): «Direi che finalmente gettano la maschera…si chiamano popolo delle libertà, ma con la loro politica propagandistica si dimostrano paladini del proibizionismo…inoltre é un’ordinanza fortemente classista, puoi bere, ma solo se spendi. Se hai un forte potere d’acquisto e puoi permetterti di bere nei locali, la tua ubriachezza é piacevole e civile, se bevi una birra del discount sei un pericoloso e molesto criminale..», e ancora: «Perchè l’ordinanza è “classista” e permette di bere solo nei locali, solo in luoghi con fini di lucro. Perchè considera molesta solo l’ubriachezza che non genera denaro. Perchè è proibizionista. Se riusciamo ad essere in tanti, potremmo porre il gruppo all’attenzione dei media locali.»

Particolarmente indicativa dell’ atmosfera politica attorno a questa ordinanza è la riflessione di Giuseppe Uboldi, che in quel periodo era consigliere comunale per il PD (estratto verbale consiglio comunale di Saronno 21-4-2009):

«Facendomi molta forza perché prevarrebbe la nausea in questo caso, comunque mi viene da ricordare, non posso fare a meno ed è per questo che parlo, che è appena stata emessa un’ordinanza proibizionista che giudico da un lato forcaiola e dall’altro ridicola che vieta l’uso di alcolici in luoghi pubblici con chiare mire a colpire sostanzialmente gli extracomunitari».

Sintetizzando le posizioni dei detrattori dell’ordinanza (chiunque, cioè, non si identificasse politicamente in un’ area di destra):
l’ordinanza è liberticida – esistono già i reati di ubriachezza molesta e tutti gli altri reati sono perseguibili anche se compiuti da sobri, questa ordinanza è assolutamente lesiva delle libertà personali oltre che inefficace e superflua;
l’ordinanza è discriminatoria e classista – permettere di bere alcol solo a chi può permettersi di frequentare i locali, dove i prezzi quintuplicano rispetto all’offerta nei supermercati, quindi si privano di una libertà principalmente le categorie di basso reddito e/o indigenti.
A conferma di quanto scritto, qui di seguito riportiamo il pensiero dell’ allora assessore alla sicurezza Massimiliano Fragata: «Premesso che molti episodi di criminalità, da risse ed episodi di violenza siano causati proprio dall’abuso di alcol, si vieta nelle strade cittadine ma anche nei parchi e nelle aree verdi il consumo di bevande alcoliche di ogni gradazione e tipo. Uniche eccezioni saranno gli esercizi commerciali, bar e locali, al loro interno o che utilizzano il suolo pubblico. Ed eccezionali deroghe saranno rilasciate durante particolari eventi organizzati dall’amministrazione comunale. Per il resto sarà in vigore una linea dura da parte della Polizia Locale, chiamata a far rispettare l’ordinanza. Lo abbiamo deciso per porre un freno alla presenza di italiani e stranieri che con la bella stagione trascorrono le giornate ubriacandosi in pieno centro, aumentando il senso di insicurezza dei cittadini saronnesi. Questa ordinanza non è un prodotto fantasioso, ma la risposta a un decoro della città, per il quale ultimamente sono stati superati troppi limiti».
Il PD, alla fine, vinse quelle elezioni, Porro divenne sindaco di Saronno e l’ordinanza decadde, perchè giudicata incostituzionale, non avendo carattere temporaneo e/o d’urgenza, come dovrebbero avere le ordinanze che limitino libertà individuali.

MISTIFICAZIONI
Nel 2013 la giunta Porro, in difficoltà nel dare risposte politiche agli attacchi dell’ opposizione sul tema della sicurezza, decide di utilizzare esclusivamente strumenti repressivi e sanzionatori e reintroduce l’ordinanza anti-alcolici provvedendo ad alcune modifiche, ma non nel merito, come ci si potrebbe aspettare da una forza che ha criticato fermamente l’esperienza Gilli, bensì nella forma: infatti, per evitare il vizio di anticostituzionalità, rende temporanea la normativa (sarà valida da maggio a settembre, mentre il pubblico decoro, nella stagione invernale sarà salvaguardato da clima e temperature poco accoglienti), per poi reintrodurla ogni anno come fosse una misura eccezionale e non di routine, come è di fatto.
E’ sempre più palese che la politica si concretizzi negli studi di avvocatura e non presso le sedi istituzionali.
E infatti la lezione dei giuristi, che ha l’intento di prendersi gioco di elettori e costituzionalisti, viene mandata a memoria: «Da ieri fino a 22 settembre sarà nuovamente vietato bere in centro». E’ l’effetto dell’ordinanza firmata lunedì dal sindaco Luciano Porro: «E’ un provvedimento nuovo che nulla ha a che fare con quello precedente» (salvo il fatto di essere praticamente identico n.d.r.).
Porro si affanna poi ad attribuire alla stessa iniziativa, etichettata a suo tempo come reazionaria, distinte motivazioni, rispetto a quelle di Gilli e della destra: «…tra le motivazioni non c’è solo la sicurezza, ma anche il decoro e la salute pubblica», quasi a voler auto convincersi che realmente ci siano cause nobili alla radice di questo ordinamento, quasi a voler convincere i cittadini che sia un provvedimento potenzialmente efficace, facendo finta di ignorare l’utilizzo di parole chiave identiche alla vecchia amministrazione, precedentemente contestata.
La nuova ordinanza, questa volta democratica, vieta quindi «il consumo all’aperto di bevande alcooliche di ogni gradazione e tipo  nelle strade e piazze pubbliche od assoggettate ad uso pubblico di ogni tipo e denominazione del territorio comunale, nonché nei parchi, giardini o aree verdi ad uso pubblico del centro abitato».
L’unica eccezione è nei locali o nei chioschi, oppure durante speciali deroghe concesse dall’amministrazione comunale come durante alcuni eventi estivi. «Abbiamo voluto emettere nuovamente questa ordinanza soprattutto per un fattore di sicurezza e di degrado cittadino» spiega il sindaco Luciano Porro.

2014: LA MUTA E’ COMPLETATA
A maggio viene approvato il nuovo regolamento di polizia urbana in consiglio comunale.
Al divieto di consumare alcolici fuori dai locali pubblici vengono aggiunte decine di altre restrizioni, tra le quali il divieto di sedersi sugli schienali delle panchine, di sedersi per terra lungo le vie, strade, piazze, luoghi pubblici o aperti al pubblico, di arrampicarsi sugli alberi, salire sulle fontane, sui monumenti sui pali della pubblica illuminazione e segnaletica stradale nel centro urbano, di passeggiare e sostare a torso nudo o in maniera poco decorosa (?!?), di consumare cibo all’ingresso o sulle scalinate d’accesso a chiese o luoghi di culto, ecc.
Alle forze dell’ordine il sindaco chiede di «applicare il nuovo regolamento con rigore, ma anche con buon senso», dato che forse, aggiungiamo noi, il buon senso è mancato nel redigere questo stesso regolamento.
Sicuramente il fatto che venga delegata alla polizia locale l’interpretazione di queste regole e la loro applicazione con rigore e contemporanea discrezionalità e arbitrarietà, rivela il fatto che il target di questi provvedimenti è selezionato tra le fasce deboli degli abitanti di Saronno: immigrati, giovani non mantenuti dai genitori, disoccupati, ecc.
Qui di seguito riportiamo il pensiero del PD 2014 sul tema, da un estratto del comunicato atto a spiegare i motivi delle modifiche al regolamento di polizia urbana:

«I consiglieri comunali sono stati posti di fronte al dilemma se salvaguardare sempre e comunque la libertà delle persone, anche quella di bere alcolici dove pare e piace, oppure perseguire comportamenti scorretti e lesivi dei diritti altrui, anche a costo di sacrificare un frammento della libertà personale di ciascuno.
Il Consiglio Comunale ha scelto, a larghissima maggioranza, la seconda opzione nella consapevolezza che vivere in una comunità richiede il rispetto delle regole di convivenza civile, anche quelle non scritte, e implica talvolta anche la rinuncia ad una parte della propria libertà personale.»

Così Pierluigi Gilli (ex sindaco di destra), che ironizza sull’ipocrisia della giunta Porro, ma si allinea rispetto ai contenuti dell’ordinanza:
«Finalmente, anche questa Amministrazione ha capito quali insidie vi siano nello smodato consumo di bevande spiritose in pubblico: anzitutto per la sicurezza e, in cascata, per l’ordine ed il decoro, per l’igiene e la sanità; quindi, avevamo fatto bene, l’obiettivo era naturalmente identico».

Concludiamo con un aforisma che parla di libertà come concetto relativo:
«Il concetto di libertà non è assoluto. La libertà non è un diritto: è un dovere. Non è un’ elargizione: è una conquista; non è un’ uguaglianza: è un privilegio. Il concetto di libertà muta col passare del tempo. C’è una libertà in tempo di pace che non è più la libertà in tempo di guerra. C’è una libertà in tempo di ricchezza che non può essere concessa in tempo di miseria».

Queste ultime righe potrebbero essere la coerente conclusione di un comunicato stampa a difesa del nuovo regolamento di polizia locale vigente a Saronno. L’autore è un noto pensatore e uomo politico italiano (Predappio 1883 – Giulino di Mezzegra 1945).

 

 

 

 

 

Orti al posto del cemento: fermare l’urbanizzazione e riportare la campagna in città.

Prenditi il tempo di vagabondare un momento per la tua città. Osserva i luoghi che la caratterizzano: palazzi, supermercati, uffici, banche, parcheggi… cemento a perdita d’occhio. Qua e là ogni tanto un raro parchetto unisce cani e uomini nella rituale passeggiata. Ma la terra, bruna, fertile, di quella neanche l’ombra. Chi è lo stolto che la cercherebbe qui, tra le piazze e i viali trafficati di una città? Sarà da qualche altra parte, fuori, lontano. Allora dovremmo chiederci da dove arriva tutto ciò con cui ci sfamiamo in città, perché col passare degli anni la produzione di beni alimentari si è delocalizzata. Le campagne, i boschi e i sistemi naturali che un tempo erano prossimi ai centri abitati e che ne determinavano la sussistenza, sono stati progressivamente ridotti e colonizzati dall’esplosivo processo di urbanizzazione ed oggi si trovano per lo più altrove, oltre le montagne ed oltre l’oceano, in Sudamerica o in Africa, e i loro frutti ci rag10338807_10203335492935359_1940888165_ngiungono grazie ad aerei, navi e camion. Considerato che 80 anni fa la popolazione mondiale contava 1,6 miliardi di persone e da poco abbiamo superato i 7 miliardi e che mantenendo questi ritmi di crescita, sospinti dai paesi emergenti, un giorno non troppo lontano anche quei luoghi saranno raggiunti dalle metropoli. E come oramai sappiamo dove arriva la città non cresce più nulla.
Il consumo di suolo purtroppo è un fenomeno più vivo che mai: secondo FAI e WWF in un rapporto presentato a fine gennaio 2012 e denominato “terra rubata, viaggio nell’Italia che scompare”, la superficie di terreno libero che viene occupato ogni giorno è pari ad oltre 75 ettari. Solo in Lombardia le nuove costruzioni di quartieri insediativi, industriali o commerciali o di infrastrutture, consumano più di 10 ettari di territorio naturale o agricolo al giorno (una superficie equivalente a 14 campi da calcio).
I nostri territori sono aggrediti costantemente da una espansione urbana senza controllo, con una compulsività che non trova alcuna giustificazione nell’inesistente crescita demografica o nella sovradisponibilità di abitazioni, ma piuttosto nelle trame speculative di palazzinari e banchieri, con la sovente complicità dell’amministrazione e in un quadro di disinteresse della cittadinanza.
Il processo di cementificazione deve essere arrestato ed invertito poiché il suolo è una risorsa non rinnovabile, troppo preziosa e scarsa per poterla perdere.
Ancora oggi pubblico e privato ricercano nel suolo unicamente il valore monetario creato dall’opportunità di costruirci sopra qualcosa. Strutture ed infrastrutture diventano fonti di rendita a prescindere dalla necessità sociale ed economica. Il suolo viene consumato a favore di un uso scriteriato e a discapito di tutti gli altri suoi potenziali usi, persino di quello alimentare. Come se ci potessimo cibare di calcestruzzo e denaro. Si è perso il senso della misura. Il criterio di valutazione ed il metro di giudizio con cui dovremmo fondare la nostra azione deve invece riconoscere alla terra sia un valore di esistenza che un valore rappresentato dalle numerose funzioni che può svolgere per sostenere l’uomo, l’ecosistema e l’ambiente. Questo criterio deve integrarsi nella pratica con un metodo di allocazione delle risorse diametralmente opposto ai tipici processi decisionali verticali, basandosi quindi sui principi di solidarietà e di orizzontalità e adeguandosi al concetto di scala. La scala locale, infatti, ha le dimensioni appropriate perché si possa avere una partecipazione attiva nella gestione del territorio, che si concretizza nella valutazione delle risorse locali e nella esplicitazione dei molteplici interessi sul loro uso attraverso, appunto, pratiche di partecipazione. Uno degli effetti positivi di questo tipo di approccio è che le conseguenze indirette di attività e consumi ricadono sugli autori delle stesse, senza che gli effetti vengano scaricati su terzi o delocalizzati in altri luoghi e paesi: in linguaggio economico le esternalità negative delle azioni individuali che ricadono sulla collettività in forma di danno ambientale o sociale diventano più facilmente individuabili in termini di causa e di effetto. Ad una migliore comprensione di queste dinamiche segue una accresciuta capacità di soppesare le nostre esigenze ed i nostri impatti sul territorio (la nostra impronta ecologica) ed inoltre di valutare in concreto la capacità del territorio in termini di risorse disponibili. Un azione collettiva che tenga conto di questi criteri è sulla buona strada della “sostenibilità” sociale ed economica
Nelle nostre città, nonostante l’aggressività dell’espansione urbana, sopravvivono spazi non ancora occupati, relitti sfuggiti alla cementificazione. Ebbene questi spazi devono diventare oasi di resistenza contro l’avanzamento del cemento. Anche se una reale inversione di tendenza richiederebbe uno sforzo ulteriore e quindi una riconversione degli spazi già edificati, qualora fossero ancora recuperabili (problema della non rinnovabilità della risorsa suolo), è necessario difendere strenuamente ciò che è rimasto e che potrebbe finire sotto una colata di cemento. Gli unici soggetti realmente capaci di poter fermare questo scempio siamo noi che viviamo il territorio e che siamo artefici del suo destino (e così del nostro).
Recentemente si sta affermando a scala cittadina un fenomeno piuttosto significativo che riflette nella sua essenza un cambiamento di esigenze e di interessi sempre più diffuso.
Gli orti urbani non sono certo una novità. Un buon numero di persone coltiva nel proprio giardino, in aree pubbliche o “franche” (come quelle ai lati delle ferrovie), per hobby o anche per cercare di risparmiare qualcosa sulla spesa. Meno scontata e conosciuta è invece l’esperienza dei cosiddetti orti collettivi urbani. La differenza tra le due esperienze è sostanziale e da queste differenze possiamo trarne delle considerazioni sulla preferibilità tra le due rispetto alla loro applicazione nelle aree pubbliche ancora libere dalla speculazione. Nel primo caso tutto si svolge nei limiti della sfera privata: dalla scelta delle piante alle tecniche di coltivazione, dall’utilizzo di erbicidi e pesticidi alla raccolta ed al consumo dei prodotti dell’orto. Nel secondo caso tutto si decide a partire dalla collettività che si occupa in concerto della gestione della coltivazione e del consumo. Il nocciolo della questione è che per quanto gli orti privati possano considerarsi come esperienze positive (quando non vengono usati pesticidi), poiché comunque spesso rivelano uno spirito di iniziativa e di autogestione spontanea, la parcellizzazione di aree pubbliche urbane in tanti piccoli orti-paradisi privati non è assolutamente un auspicabile utilizzo delle risorse comuni. Attraverso un orto collettivo ed autogestito invece viene realmente soddisfatto un fine importante del suolo pubblico: la soddisfazione, ancorché parziale, di un bisogno comune: l’alimentazione.
L’alimentazione è qualcosa di più che la dieta di un individuo; è un enorme business che muove risorse, uomini e terra. Il modello propagandato negli anni 60 come “Rivoluzione Verde” è oggi Il Modello Unico dei paesi occidentali ed è adottato in fretta e furia anche da quelli emergenti. Esso è caratterizzato dalla monocoltura e dall’alto input energetico totalmente dipendente dal petrolio attraverso l’uso dei suoi derivati (fitofarmaci e pesticidi) e attraverso la massiva meccanizzazione. Questo tipo di alimentazione ha creato enormi eccedenze da una parte, ma dall’altra ha causato depauperamento della fertilità del suolo, perdita di varietà locali, perdita di biodiversità, deforestazione, inquinamento delle acque e, nei paesi del Terzo Mondo, ha creato povertà ed iniquità. Un modello scricchiolante e destinato a collassare ma che ancora oggi è il sogno dell’industria dell’alimentazione che cerca in ogni modo e con ogni mezzo politico di inseguire il proprio profitto e che, per completare il quadro, oggi vorrebbe imporci anche l’ingegnerizzazione genetica.
In Europa la ricetta della “Rivoluzione Verde” è stata il leitmotiv della Common Agriculture Policy (CAP) fin dagli anni 60. Quando tuttavia le evidenze oggettive dei suoi danni hanno reso necessario affrontare i problemi da essa stessa generati, è stato inaugurato un nuovo indirizzo politico per il periodo 2013-2020, operando un po’ di make-up in stile green economy.
L’industria dell’alimentazione controlla la filiera dalla produzione alla vendita. Corporazioni come la Monsanto da una parte e grande distribuzione dall’altra vanno a braccetto per riempirci la pancia di alimenti di scarsa qualità e dall’elevato impatto ambientale. I Centri Commerciali sono l’esatto luogo dove avviene la magia: il consumatore compra acriticamente cibo in grandi quantità senza sapere nulla di come venga prodotto e di come venga trasportato. In questo quadro generale gli orti e tutte le iniziative affini rappresentano uno dei metodi sperimentabili e sperimentati per conseguire la liberazione dall’industria dell’alimentazione, attraverso l’uso di varietà locali, il lavoro collettivo e solidale ed il cosiddetto “km zero” (la scala locale).
Anche se l’obiettivo è quello di rendere locale la produzione e i consumi, è difficile pensare che un unico orto collettivo, per quanto grande, possa soddisfare le esigenze di una città di quasi 40.000 abitanti, cifra raggiunta da Saronno. Ciò nonostante un’esperienza del genere rappresenta di per sé un cambiamento di prospettiva fondamentale che permette di scongiurare mire speculative, di evitare l’impermeabilizzazione del suolo e di contribuire all’emancipazione dall’industria dell’alimentazione. In ogni modo gli orti urbani collettivi rappresentano un aspetto ed una espressione di più ampie ed articolate iniziative economiche e sociali accomunate da principi ecologici e di solidarietà. Solo a titolo di esempio, è attivo il progetto Spiga & Madia (sviluppato dal comitato verso il Distretto di Economia Solidale della Brianza) che ha lo scopo di verificare la possibilità di ricostruire una filiera di pane biologico interamente gestita in un territorio (la Brianza monzese) approssimativo di 50 km di raggio.

Uscire dal silenzio. Ma quale?

Il silenzio sulla storia di Giuseppe Uva è stato ormai rotto da tempo. Manca però ancora il racconto di una storia che è nostra, è altra, è tutto.

“A Giuseppe.
Io lo vidi, non lo conobbi mai e me ne dispiace.
Perché nel momento del bisogno, con lui non ero.”

Via Dandolo non era a Varese.
Nel 1816, il conte Vincenzo Dandolo “si fece promotore della realizzazione del primo ’Passeggio pubblico’ alberato di Varese…” “…il terreno era suddiviso in quattro filari ordinati e regolari, così da formare tre ampi viali, ombreggiati da ben 154 esemplari di piante esotiche ”. (Paolo Cottini – “I Giardini della Città Giardino” – Ed. Lativa – 2004 ). Quella che oggi si chiama, appunto, Via Dandolo, un tempo non era che lo “stradone che da Varese mette alla Madonnina ”. Percorrendolo ci si allontanava dalla città, per introdursi nella castellanza di Biumo Inferiore, vero e proprio nucleo indipendente dal centro medievale sviluppatosi intorno alla basilica di San Vittore.
Le castellanze sono state, ormai da decenni, fagocitate dal grigio uniforme di una città sempre meno a misura d’uomo e sempre più funzionale all’economia. Tuttavia, aggirandosi a piedi per questi antichi borghi, magari con la lentezza di chi non corre dietro all’ultima offerta pubblicitaria, è possibile indagare i segnali, a volte indelebili, spesso occultati, di un diverso passato: fra stretti vicoli e cortili, gli antichi edifici, più bassi che altrove, ospitavano case, officine, stalle.
Ed è proprio in uno di questi edifici che dal 1920, è presente la Cooperativa Unione Familiare, storico ritrovo negli ultimi decenni, dei giovani di sinistra, che il sabato sera, da mezza provincia di Varese, venivano ad intasare le scale di ingresso e quelle sul retro. Questo è probabilmente il ricordo più forte che molti hanno di quel luogo: seduti sulle scale, bella gente, pessimo vino. In quel luogo, magari a tarda notte, potevi facilmente incontrare Giuseppe Uva.

Panchine.
Torniamo ora in Via Dandolo, perché dei “154 esemplari di piante esotiche” del Conte Vincenzo, ora non rimane più molto. Tra semafori a due corsie e condomini borghesi, lo “stradone” è ormai dimezzato. Rimane un po’ di passeggio con i vecchi platani, l’edicola, le siepi. E basta. Non c’è più la fontanella né le vecchie panchine, sostituite da sedili monoposto a distanza di circa un metro l’uno dall’altro. Troppo comode, le panchine. La gente le usava, le viveva, sedendosi, baciandosi, leggendo, chiacchierando, mangiando, bevendo, a volte dormendo. Momenti comuni alla vita di ognuno.
Si possono ancora fare queste cose, in Via Dandolo, ma senza stare troppo comodi, senza sdraiarsi, senza poter appoggiare un sacchetto col panino, senza sciacquarsi le mani e la faccia alla fontanella, senza stare seduti vicini.
Niente panchine.

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«Sono panchine perfette che rispecchiano lo scopo per il quale le abbiamo volute» dichiara l’assessore al verde pubblico Stefano Clerici, padrino di un’altra interessante iniziativa: l’intitolazione di un giardino di fronte ad alcune scuole a Giovanni Gentile “assassinato il 15 aprile 1944 negli anni tristi della guerra civile e della divisione tra gli italiani”. Sì proprio lui, il ministro dell’istruzione, teorico del fascismo, sostenitore del regime, firmatario del Manifesto della Razza, giustiziato da un GAP delle Brigate Garibaldi, a Firenze, nell’aprile del 1944.

Giuseppe Uva.
La notte del 14 giugno 2008 Giuseppe Uva si trova proprio vicino a Via Dandolo, quando viene fermato dai carabinieri Dal Bosco e Righetto di Varese e portato nella caserma di Via Saffi, insieme al suo amico Alberto (sono presenti anche degli agenti di polizia). Ed è proprio Alberto a richiedere i primi soccorsi al 118, quando sente il suo amico gridare «Ahi! Ahi! Basta!», ma l’operatore all’altro capo del telefono, dopo averlo rassicurato «Va bene, adesso mando l’ambulanza», chiama in caserma e si accorda coi carabinieri per non inviare alcun aiuto «Sono due ubriachi, ora gli togliamo il cellulare». Saranno poi gli stessi carabinieri, poche ore dopo, a chiamare una guardia medica, che richiederà all’Ospedale di Circolo di Varese di effettuare un T.S.O. (Trattamento Sanitario Obbligatorio).
Il corpo di Giuseppe è pieno di lividi, il suo naso è rotto, i suoi testicoli sono blu, la sua pelle è segnata da alcune bruciature di sigaretta, dal suo ano esce del sangue che forma una grossa macchia sui pantaloni, ma non viene curato per le lesioni e niente di tutto ciò viene trascritto sui documenti del ricovero. Gli vengono però somministrati dei tranquillanti.
Egli inoltre racconta alla psichiatra di essere stato brutalmente pestato in caserma: ma da parte dell’Ospedale non parte nessuna denuncia. La stessa psichiatra aspetterà ben tre anni e mezzo per raccontare queste tragiche parole di Giuseppe, probabilmente le sue ultime. Dovranno passare invece cinque anni perché una donna che afferma di essere stata presente in ospedale testimoni quanto segue: «C’erano guardie e carabinieri. Sono rimasti in quattro – cinque, o sei. E lui continuava a urlare: “bastardi!”. Allora uno di quelli, carabiniere o poliziotto, questo non so, ha detto: «Basta adesso, finiamola!”. Poi si è rivolto a dei colleghi così: “Portiamolo di là e gli facciamo una menata di botte”. Loro hanno aperto una porta e poi hanno chiuso. All’uscita ho notato che lo sorreggevano bene. Io in quel momento ho guardato lui, e al naso aveva questa escoriazione. Ho sentito dire: “prendete la barella, che lo mettiamo sulla barella”. Infatti l’hanno messo la barella e poi hanno chiamato il dottore, che gli ha messo la flebo».

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Uno striscione ad uno dei numerosi presidi fuori dal tribunale di Varese durante il processo per la morte di Uva

In tribunale.
Ma all’inizio, tutti fingono di non vedere, di non sapere. Tutti fingono che sia normale. Anche quando Beppe, dopo poche ore, muore.
E infatti, nonostante il suo corpo presenti evidenti segni di violenza, la magistratura sceglie di indagare solo un paio di medici, attribuendo la morte di Uva ad una errata somministrazione di farmaci, e non a quanto avvenuto in precedenza in caserma. Ma le perizie smentiscono questa ipotesi: Giuseppe non è morto a causa dei farmaci, che in nessun caso potevano ucciderlo; le cause della sua morte sono invece da ricercarsi in un mix di fattori, fra cui le misure di contenzione ed i traumi da corpi contundenti che ha subito.
Grazie alla testarda battaglia portata avanti dalla sorella di Giuseppe Uva, Lucia, col suo legale Fabio Anselmo e con i tanti solidali, la strategia della magistratura di far ricadere la colpa esclusivamente sui medici si è rivelata finora un totale autogol: i PM Abate e Arduni sono stati addirittura rimossi dall’indagine dal procuratore generale di Varese. Un nuovo processo sta per essere celebrato e questa volta contro carabinieri e poliziotti, accusati di omicidio preterintenzionale, abuso dei mezzi di contenzione, arresto illegale e abbandono d’incapace.

Processo allo stato.
Diciamoci la verità, senza ipocrisie: soltanto i suoi servi, possono pensare che non sia lo Stato il vero assassino in questa vicenda. Giuseppe è stato prelevato con la forza, rinchiuso, pestato; non è stato aiutato quando ha chiesto aiuto ed è stato invece drogato contro la sua volontà e messo su un letto a morire.

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Uno dei tanti adesivi apparsi a Varese negli anni successivi all’assassinio di Giuseppe. Non è di certo piaciuto ai servi delle Stato, fra questi Francesco Liparoti, coordinatore provinciale di SEL, che si prodigherà addirittura in un comunicato stampa dai toni demotristi: “le scritte sui muri e gli adesivi apparsi a Varese questa settimana in merito alla tragica vicenda Uva con cui si esprimono giudizi molto pesanti e gravi nei confronti delle Forze dell’Ordine non sono per niente condivisibili nel contenuto e nel metodo.”

Le responsabilità per la morte di Giuseppe non possono quindi essere ricondotte al singolo gesto, al singolo uomo, al singolo momento. La sintonia con cui si è agito o lasciato agire è un evidente risultato di comportamenti ed abitudini a lungo tramandate. Polizia, Carabinieri, 118, Guardia Medica, Pronto Soccorso, Reparto di Psichiatria, Magistratura… queste non sono mele marce, piuttosto le più dirette e manifeste espressioni del potere che lo Stato esercita su tutti noi.
Questo è il processo che dovrebbe interessarci. Un processo allo stato di tutte le cose. Esso non ci attende in futuro, ma ne siamo parte da sempre. Poiché esso è sempre.
Prenderne coscienza significa indagare i luoghi e i tempi attraversati da Giuseppe durante al sua vita e la sua morte, per scoprire che sono gli stessi che attraversiamo e viviamo tutti, nel quotidiano.
Imparare ad leggere anche la forma di una panchina, poiché essa è sempre legata a una precisa funzione che ci racconta di come funziona il mondo.
Allenarsi ad attraversare con lo sguardo le finestre chiuse nella notte di Varese, per accorgersi che ciò che accade giù in strada ci riguarda sempre.
Leggere nei luoghi le trasformazioni avvenute e quelle in corso, conoscerle e conoscersi per uscire dal silenzio, quello vero.
Quello fra di noi.

QUESTIONI DI PALAZZO

Oggi in tv, sui giornali, su internet si parla tanto di palazzi, riferendosi quasi sempre ai palazzi della politica, i palazzi della Repubblica, i palazzi del potere. Ma qui no. Qui oggi si parla di ben altri palazzi, nello specifico si parla di un palazzo ben noto ai cittadini saronnesi, ovvero quello conosciuto con il nome di “Palazzo Visconti”.

Le origini e la storia
Storicamente si fa risalire la costruzione del Palazzo addirittura alla seconda metà del 1500. Il nome deriva dalla famiglia milanese dei Visconti che, nella persona di Giacomo Filippo Visconti, commissionò la costruzione proprio in quell’epoca. Non è un mistero difatti che un ramo della famiglia Visconti risiedesse nel territorio saronnese già agli inizi del ‘500: il Palazzo fu dunque eretto nei pressi del centro cittadino e nei primi anni di vita ebbe sia la funzione di residenza di villeggiatura per la nobile famiglia milanese sia quella di abitazione vera e propria. Nel corso dei secoli si succedettero diversi proprietari: nel 1643 il possesso dell’edificio passò alla famiglia di Pietro Giacomo Rubini e successivamente esso finì nelle mani del nipote, il Conte Diego Rubini, il quale tra il 1724 ed il 1753 decise di apportare notevoli miglioramenti sia a livello architettonico sia a livello decorativo. Nel 1773 l’intero stabile venne acquistato dalla famiglia Schenardi, la quale cedette infine il palazzo a Giuseppe Morandi, il quale decise di trasformarlo in un prestigioso collegio. Nel 1882 il Comune di Saronno finalmente prende possesso del Palazzo e lì decide di trasferirvi il Municipio ed i relativi uffici pubblici. Solamente molti anni dopo, il 27 dicembre 1926, con lo spostamento degli uffici comunali nella vicina Villa Gianetti, il Palazzo diviene sede della Pretura: da qui il nome affettuoso con il quale ancora oggi la popolazione saronnese si riferisce ad esso, cioè la cosiddetta “vecchia pretura”.
Dalla metà degli anni 80’ Palazzogli uffici della Pretura lasciano il Palazzo ed i locali presenti all’interno di esso vengono destinati ad un duplice scopo. Alcuni sono utilizzati come abitazioni mentre nei restanti trovano casa le numerose associazioni presenti sul territorio cittadino, le quali vengono tutte riunite in un’unica e grande sede.
Alcuni ricorderanno sicuramente il KSS, il primo e storico centro sociale di Saronno ed il Circolo dei Briganti, nato dalle ceneri del primo sul finire degli anni ’90: con essi, il Palazzo inizia a vivere una nuova vita notturna fatta di concerti, incontri culturali, dibattiti, cineforum, serate passate sulle grandi ed accoglienti scalinate a bere birra e a chiacchierare in compagnia. Altri ricorderanno invece Palazzo Visconti principalmente come sede delle numerose proiezioni serali ed estive del suggestivo “Cinema sotto le stelle”.

L’incendio e le scoperte
Il 28 settembre del 2007 avviene il disastro: un incendio, divampato nella canna fumaria della sede di una delle numerose associazioni presenti all’interno dell’edificio, distrugge buona parte del Palazzo, rendendolo di fatto inutilizzabile. Le associazioni fanno i bagagli e si trasferiscono nei locali dell’ex istituto scolastico elementare Pizzigoni ed ex liceo classico Legnani: a tutt’oggi molte associazioni saronnesi si trovano ancora presso l’ex scuola e rimangono in attesa di ricevere uno spazio adeguato alle loro esigenze, ma questa è un’altra storia.
Il tremendo incendio che si sviluppa nei locali di Palazzo Visconti, sebbene comporti la rovinosa decadenza dello stabile, porta tuttavia con sé due note positive. La prima è una nota di carattere “artistico” e concerne la scoperta, successiva all’incendio ed ai sopralluoghi effettuati da tecnici ed esperti del settore, di un ciclo di affreschi di origine settecentesca, attribuiti successivamente all’artista Giovanni Antonio Cucchi. Due anni dopo, nel 2009, Sergio Beato, membro della Società Storica Saronnese, ipotizza che nella ristrutturazione di origine settecentesca ordinata dal Conte Diego Rubini vi sia l’opera di Francesco Croce, cioè l’architetto già autore del progetto della guglia maggiore del Duomo di Milano e amico del sopracitato Giovanni Antonio Cucchi. Il tesoro architettonico ed artistico che si cela nelle stanze di Palazzo Visconti inizia pian piano a mostrarsi in tutto il suo splendore.
La seconda nota è tuttavia ancora più importante della prima: difatti, il secondo merito delle fiamme che hanno avvolto l’edificio è stato quello di risvegliare le sopite coscienze cittadine in merito alla “Questione Palazzo Visconti”.
Nei mesi successivi al disastro i giornali locali non tardano invero ad uscire con titoli a caratteri cubitali e riguardanti il futuro dell’edificio : “Palazzo Visconti verrà restaurato”, “Palazzo Visconti: casa d’arte e d’associazioni”, “Quale futuro per Palazzo Visconti? Si riapre il dibattito”. La Società Storica Saronnese apre due conti correnti per avviare una raccolta fondi destinata alla salvaguardia dello stabile: le donazioni sono scarse e serviranno a malapena a coprire i lavori di pulizia ed i minimi interventi per la sistemazione e la “messa in sicurezza”, ovvero la chiusura degli accessi al fine di impedire l’ingresso nello stabile.

Politica di palazzo
La “Questione” non coinvolge solamente il piano dell’opinione pubblica: ben presto ci si accorge che parlando del Palazzo ci si trova di fronte ad un problema prettamente di carattere politico. La campagna elettorale del 2009 vede infatti Palazzo Visconti come uno dei temi caldi sui quali giocarsi la sfida delle urne: tutti ne parlano, tutti hanno una soluzione, nessuno ha i soldi per mettere in pratica la propria idea.
Il Partito Democratico è da subito in prima fila. Il PD saronnese pone infatti la “Questione” tra i “Dieci grandi progetti per cambiare Saronno”, tant’è che la ristrutturazione del Palazzo occupa addirittura il primo posto del programma dei democratici locali e viene declinata secondo una molteplicità di proposte clamorose ed eclatanti: una pinacoteca, un museo, un centro polifunzionale per giovani ed associazioni, un “Palazzo dei Saperi” e chi più ne ha più ne metta. L’entusiasmo è grande, le idee tante, i soldi pochi.
Anche l’ex sindaco Pierluigi Gilli prende la parola sulla “Questione” dalle colonne del proprio blog personale: se da amministratore comunale Gilli aveva pensato di trasferire presso il Palazzo gli uffici del Municipio cittadino, una volta sedutosi nei banchi dell’opposizione l’ex primo cittadino si mostra da subito critico verso tutti i candidati sindaci, colpevoli di speculare e gettare parole al vento su un tema assai delicato come il futuro del prestigioso edificio storico.
In effetti il boato delle voci dei candidati sindaci in relazione alla “Questione” è realmente ampio ed eterogeneo. Lucano, Nappo, Porro, Proserpio, Renoldi, Tramacere: tutti vogliono dire la loro sul futuro di Palazzo Visconti. Anche i Socialisti saronnesi capitanati da Giuseppe Nigro si sbilanciano sul tema ed ipotizzano un “centro di documentazione per Palazzo Visconti”. L’entusiasmo è grandissimo, le idee tantissime, i soldi pochissimi.
Nel 2010, tre anni dopo il fatidico incendio, presso Villa Gianetti si tiene un incontro sul tema alla presenza di Amedeo Bellini, professore ordinario di Teoria e Storia del restauro presso il Politecnico di Milano. Solo pochi mesi prima una delegazione di cittadini aveva segnalato lo stato di degrado del Palazzo: la risposta del neo eletto sindaco Porro si concretizza nell’organizzazione del predetto incontro e, contemporaneamente, nella chiusura ermetica delle entrate del palazzo, per evitare che “gli abusivi” possano entrare e danneggiare l’edificio.
Il primo cittadino fa successivamente approvare una variazione di bilancio da centomila euro per garantire il proseguimento dei lavori: essi prevedono la chiusura definitiva degli accessi, la sostituzione dei vecchi infissi alle finestre e la pulizia dei detriti lasciati dai numerosi ospiti che frequentano illegalmente lo stabile nelle ore notturne. Successivamente il sindaco lancia l’idea di una colletta cittadina affinché ognuno possa dare il proprio contributo per salvare il Palazzo dal degrado. Ora l’entusiasmo è scarso, le idee poche, i soldi sono quasi agli sgoccioli.

Notti nere e notti bianche
Nell’estate del 2010 si verifica un episodio inatteso che contribuisce a gettare nuova luce sulla “Questione Palazzo Visconti”, la quale è oramai praticamente dimenticata da tutti, in primis dai partiti politici cittadini e dall’Amministrazione comunale.
Un gruppo di anarchici locali, costituito principalmente da ragazzi e ragazze del saronnese, progetta la cosiddetta “Notte Nera”: i giovani decidono di occupare un edificio abbandonato e di organizzare al suo interno un concerto ed un dj-set per protestare contro le logiche di mercato e di profitto della Notte Bianca”, così come essi spiegano all’interno del comunicato diffuso in occasione dell’evento. Lo spazio occupato dai ragazzi non è nient’altro che il cortile interno di Palazzo Visconti.
L’evento ha una risonanza davvero notevole: la musica si diffonde dal cortile del Palazzo ed invade le strade adiacenti, molti avventori della “Notte Bianca” si mostrano incuriositi dall’iniziativa e moltissimi approfittano dei cancelli aperti per osservare lo stato dell’edificio oramai in stato di abbandono. I giornali locali ne parlano, i politici nostrani si indignano, sindaco Porro compreso, la polizia interviene ma si limita solamente ad osservare a distanza l’evento organizzato dai ragazzi, i quali tengono viva la festa fino a tarda notte. Durante la serata, l’entusiasmo, quello dei ragazzi, è alle stelle, le idee moltissime, i soldi non servono.
Un anno dopo la tanto osteggiata e criticata “Notte Nera”, l’Amministrazione comunale sorprende la cittadinanza con un’idea geniale ed innovativa: viene infatti deciso di aprire i cancelli di Palazzo Visconti per accedere al cortile interno durante la oramai classica “Notte Bianca” prevista per il 9 luglio 2011. Nello stesso periodo, dopo aver istituito una commissione che si occupi di decidere il futuro dell’edificio, il sindaco Porro rivela che per rimettere in sesto Palazzo Visconti “ci vogliono diversi milioni di Euro”. Nel contempo il primo cittadino, messo alle strette dalla stampa locale, asserisce altresì che “non ci sono ancora novità, né sulla destinazione dell’edificio né sulla reperibilità dei fondi per poter avviare il recupero”. L’entusiasmo è nullo, le idee inesistenti, i soldi finiti.
Nel 2012 finalmente la commissione elabora diverse proposte di recupero dell’edificio e le sottopone all’Amministrazione comunale: tuttavia, a causa delle divergenze e delle liti interne alla maggioranza, non viene trovato un accordo e la commissione rimane ferma. E fermo rimane, da allora, il futuro di Palazzo Visconti.

Il palazzo del futuro?
Oggi la “Questione Palazzo Visconti” sembra non essere più tale: il Palazzo non interessa più a nessuno, oppure non interessa perché non è ancora periodo di campagna elettorale. Forse a breve esso tornerà di nuovo sulla bocca di tanti saronnesi, forse è solo questione di tempo, forse bisogna solamente aspettare, forse.
Ai giorni nostri, se non si considera l’apertura “postuma” effettuata dall’Amministrazione comunale durante la “Notte Bianca” del 2011, il solo ed unico intervento di recupero dello spazio sembra essere stato la tanto temuta “Notte Nera”. Un intervento di recupero, questo, che ha coinvolto in primis un piano di carattere “sociale”: con esso, la possibilità di utilizzare uno spazio abbandonato è stata restituita all’intera comunità cittadina, la quale ha avuto l’occasione, durata tuttavia una sola notte, di poter vivere l’ambiente di Palazzo Visconti in maniera libera, senza imposizioni o ancora peggio divieti.
Bisogna allora prendere atto che l’occupazione del Palazzo da parte dei ragazzi della “Notte Nera”, seppur con tutti i limiti economici, organizzativi e legali che un’occupazione si porta dietro, non solo ha voluto risvegliare l’attenzione dei cittadini sull’annosa “Questione Palazzo Visconti”, ma ha anche saputo tracciare una proposta di recupero dello stabile, mettendo finalmente a tacere il fastidioso vociare della politica saronnese in merito al tema della riqualificazione dell’antico edificio. Quella stessa politica che ai tempi della “Notte Nera” aveva bollato come “insicuro e pericolante” il cortile del Palazzo salvo poi spalancare i cancelli dello stabile esattamente un anno dopo, in occasione dell’attesissima “Notte Bianca”.
E ad oggi, cosa rimane di tutto ciò? Oggi il Palazzo giace ancora lì, avvolto dai giganteschi teloni bianchi, come un immenso regalo che la popolazione saronnese aspetta solo di poter scartare, aprire e fruire. Se l’Amministrazione comunale, il sindaco, gli esponenti dei partiti politici e i numerosi soggetti istituzionali che in questi anni si sono riempiti la bocca di tante belle parole sulla riqualificazione di un pezzo di storia di Saronno non sapranno affrontare fino in fondo la “Questione Palazzo Visconti”, allora il futuro di quest’ultimo sembra essere già da ora irrimediabilmente compromesso. Rimane la speranza che un giorno siano gli stessi cittadini saronnesi a decidere sul destino dell’edificio e a lavorare insieme per restituire questo spazio alla comunità.

PD: parliamo di destra

Nel 2010 il PD vince, con una coalizione aperta a sinistra, le elezioni comunali a Saronno.
Dopo 10 anni di amministrazione forzista (più uno di commissariamento) la città degli amaretti pare essere finalmente pronta al cambiamento. La campagna elettorale è tutta un tripudio di voglia di fare e di cambiare ed il clima tra gli elettori riformisti è di grande speranza, quasi di esaltazione. Finalmente ci si appresta a respirare una ventata di aria nuova e fresca.
La campagna elettorale piddina è tutta infarcita di concetti, parole, temi cari a vari movimenti di piazza, inclusi i grillini di oggi: Partecipazione, Ambiente, Beni Comuni, Solidarietà, Diritti, Attenzione ai deboli. La nuova giunta dice di aver “l’ambizione di poter amministrare in modo diverso”, di poter “cambiare sul serio”. Ecco quindi che si mettono al centro del discorso politico le “vere emergenze: il traffico, la mobilità caotica, l’inquinamento e la scarsa pulizia della città, la mancanza di spazi per i giovani, di un grande parco e aree verdi fruibili da tutti”; “a Saronno inizia un cammino per costruire una reale prospettiva di cambiamento”.

manifesto_PD_il-vento-cambiaLa campagna elettorale del PD saronnese segue, dunque, la scia delle molte altre campagne elettorali messe in piedi in ogni parte d’Italia da coalizioni di centro-sinistra negli stessi anni. Che gli slogan dei partiti di tutto l’arco parlamentare suggerissero all’elettore la necessità e la volontà di intraprendere un cambiamento non è di certo una novità (e questo potrebbe dare da pensare sul livello di soddisfazione dell’ elettore medio, ogni volta deluso da un cambiamento sperato nella cabina elettorale e mai avvenuto). Ma il PD e i suoi alleati sembrano fare qualcosa di più che suggerire la necessità e la promessa di un generico rinnovamento. Nel Partito Democratico paiono aver scoperto che per conquistare voti si debba tornare a parlare di alcuni dei temi cari alla sinistra, lasciando decisamente da parte quelli con cui la destra italiana l’ha fatta da padrone negli ultimi vent’anni: niente più sicurezza, xenofobia, repressione; al loro posto, come detto, entrano il dialogo, i diritti, l’accoglienza.
Insomma, è laddove le coalizioni di centro-sinistra si smarcano decisamente dalle tematiche degli avversari politici che riportano le vittorie più interessanti, dove vengono strappate, spesso dopo anni di dominio incontrastato, comuni, provincie e regioni, di cui molti sono anche i comuni a nord di Milano, da sempre feudi della destra.
A Saronno sono oggi trascorsi quattro lunghi anni dall’elezione del Sindaco Porro, e molta acqua è passata sotto i ponti dove scorre il torrente Lura. La sua acqua pare aver portato via con sè il clima di esaltazione che alcuni saronnesi dicevano di vivere in seguito ai risultati comunali e con esso anche tutti i buoni propositi della campagna elettorale.
I temi al centro della politica paiono oggi essere tornati ad essere quelli convenzionalmente legati a significati di centro-destra, e il linguaggio parlato dalla giunta saronnese non è più quello di qualche anno fa. Non si sente praticamente più parlare di voglia di cambiare, di aiuto alle fasce deboli della popolazione, di solidarietà, di diritti, di ambiente o di ciclabilità. I progetti della giunta paiono essere tutti miseramente falliti, dalla ristrutturazione di Palazzo Visconti, alla realizzazione di una Città dei giardini e della bicicletta, dalla costruzione di un grande parco comunale, all’idea di una Cittadella dello sport. Ma quello su cui vorremmo porre l’accento non è tanto il fallimento delle proposte elettorali: piuttosto ci interessa notare come giorno dopo giorno la politica e le parole d’ordine del sindaco e della sua giunta si siano spostate inesorabilmente e inequivocabilmente verso posizioni di destra.

A questo punto è forse necessario fermarsi per una precisazione, per chiarire cosa si intenda qui per Destra e per Sinistra, quali siano i valori e le parole d’ordine che attribuiamo a ciascuno di questi due schieramenti politici: ma pensiamo che oggi sia diventata impresa difficile, se non impossibile. Lo scopo di questo articolo non è di certo quello di dare una definizione di questi concetti tutt’altro che semplici o determinabili una volta per tutte. Ci piace però pensare che la Sinistra sia quell’area politica capace di lottare contro i soprusi dei potenti, e non quella che si allea e inciucia con i Poteri Forti, che sia quella capace di dare maggior valore alla vita e ad una vita dignitosa, piuttosto che quella che mette al centro di tutto l’economia e il mercato. Che sia quell’area politica rivoluzionaria, capace di combattere contro il senso comune, quando esso si schieri dalla parte delle ingiustizie, di appellarsi ad altro che ai manganelli, alle denunce, ai tribunali e a tutto il potere repressivo. Non è e non è sempre stato così: partiti autoproclamatisi di sinistra si sono spesso comportati diversamente, ma questo non cambia sostanza e dignità di questa idea.
La politica del PD saronnese a fine mandato parla continuamente di sicurezza e di problemi di ordine pubblico; promulga ordinanze liberticide anti-alcoolici contro meno abbienti e indesiderati, sulla linea della continuità con le giunte Gilli; parla di continuo di sgomberi, di denunce e della necessità di reprimere con durezza, e se il PGT non si discosta di molto da quanto avrebbe potuto decidere una giunta di altro colore politico, addirittura il sindaco, stizzito, si dimentica di quando ogni momento, solo qualche anno prima, parlava della necessità di favorire la partecipazione dei cittadini, e si lamenta delle ingerenze esterne alle Sue decisioni.
La domanda sorge spontanea: ma in cosa questo PD è differente, in cosa questo PD differenzia le sue azioni e parole dagli avversari di destra?pisapia-manifesti
Che i temi e il comportamento della giunta comunale saronnese non siano conformi a quanto molti si aspettavano non è solo una nostra idea, ma sono i fatti a parlare. Anno dopo anno la maggioranza perde pezzi, e li perde principalmente da sinistra, dove sia associazioni che partiti, uno dopo l’altro, decidono di voltare le spalle al Dottor Luciano, evidentemente delusi dalla non avvenuta virata di rotta. Comitato Acqua Bene Comune, Rifondazione Comunista, Verdi, una parte di Tu@ Saronno, l’associazione Donne per cambiare, ATTAC% Saronno… I distinguo, le prese di distanza, le critiche alle azioni della giunta arrivano una dopo l’altra, proprio da quei gruppi che più credevano e speravano in un cambiamento.
Guardando dall’esterno quanto fatto e detto dalla giunta saronnese negli ultimi anni appare abbastanza evidente come all’interno della maggioranza, all’inizio della sua avventura, siano convissute anime anche molto diverse tra di loro. Da Rifondazione ai vecchi democristiani, con in mezzo tanta varietà. Con il passare degli anni la convivenza di questi gruppi sembra essere diventata sempre più difficoltosa, e alla fine pare aver prevalso la parte più reazionaria, conservatrice e legalista. E così, quelli che sarebbero dovuti essere 5 anni di forte alterità e rottura rispetto al passato, sono col tempo diventati anni di continuità con le amministrazioni precedenti. L’idea che qualcuno potrebbe farsi è quella che la giunta non abbia saputo reggere sotto le spinte arrivate da sinistra, con le contestazioni e le azioni di vari gruppi attivi nel territorio, e da destra, coi partiti di questa sponda decisi a non lasciare in mano agli avversari politici la palla per altri 5 lunghi anni. A causa dell’evidente paura di perdere consensi la linea politica della giunta si è quindi spostata sempre più, fino a sovrapporsi completamente, con quella dei politici della parte avversa.

A questo punto la nostra riflessione rimbalza nuovamente dal locale al nazionale, e ci viene naturale fare un confronto con quanto avviene fuori dalle mura della nostra città.
L’entrata di prepotenza di Renzi nella politica che conta ha dato una forte spinta al PD. Una spinta spiegata anche da recenti sondaggi che lo indicano come più apprezzato tra gli elettori di destra e centro-destra.
E così, ci si domanda, su tutto il piano nazionale, il PD potrà ancora parlare di aria nuova, cambiamento, svolta di rotta? Dopo anni di governo spalla a spalla con la destra sembra risultare molto difficile, anche se la faccia tosta dei politicanti di tutti gli schieramenti ci ha insegnato a non stupirci più di nulla.

Down By Law – sul 25 aprile

Quando arriva una festa comandata come questa mi capita di documentarmi, perché capita di dover far chiacchiere da bar. Capita. Wikipedia non rappresenta il massimo dell’approfondimento politico, ma è adatto, per i suoi caratteri di semplicità e qualunquismo, alle temute conversazioni.

“Un partigiano è un combattente armato che non appartiene ad un esercito regolare ma ad un movimento di resistenza […], per fronteggiare uno o più eserciti regolari.” “Ciò che contraddistingue il partigiano dal soldato, oltre all’irregolarità, alla accresciuta mobilità e all’impegno politico, è la sua natura territoriale, legata alla difesa di un’area geografica coincidente con l’area culturale di appartenenza.”

Chiaro: i partigiani sono persone che hanno come base comune la rivendicazione di libertà, che condividono e difendono un territorio e una cultura, idee e aspirazioni ed è oltremodo chiaro che agiscono oltre i vincoli della legge. Nonostante ciò, la resistenza, la liberazione e i partigiani vengono ricordati durante una ricorrenza istituzionale, alla quale partecipano proprio tutti: sindaco, rappresentanti di partiti da destra a sinistra, sindacalisti, associazioni varie, due alpini, arcigay, casalinghe devote, clero, leghisti secessionisti, farmacista, operai (i cantieri sono chiusi) e anziani (i cantieri sono chiusi). Nel corteo non ci sono (quasi mai) i partigiani veri, sono estinti come il rinoceronte nero, peccato. Ma è importante tenerne in vita la memoria, che si sappia che hanno liberato l’Italia, che l’Italia ora va bene così e che quindi dei partigiani in realtà non c’è più bisogno, così come della resistenza e si sta tutti bene: sindaco,i rappresentanti dei partiti da destra a sinistra, sindacalisti, associazioni varie, due alpini, arcigay, clero, casalinghe devote, leghisti secessionisti, farmacista, operai e anziani. Il premio per il loro sacrificio è stato la “Costituzione Italiana”, da difendere a costo della vita, oppure, più sobriamente, moderatamente e modernamente, con un “like” su Facebook o, ancora meglio, reinterpretarla, come per l’Antico Testamento, come fosse un insieme di allegorie da non prendere propriamente alla lettera: a volte ci vuole del sano realismo! Pensiamo ad esempio ai Valori portanti indicati nei “Principi Fondamentali e costituenti”:

SUFFRAGIO UNIVERSALE: la Costituzione afferma che votano tutti e, a partire da questo principio, il sistema attuale viene esaltato dai suoi fans come il migliore e unico al mondo. E’ meraviglioso vederli annuire convinti, anche quando viene spiegato loro che, però: “non si può certo votare se si è in crisi come siamo ora e, forse, per sempre, specialmente se si tratta di crisi economica e finanziaria, basata su sistema bancario e liberismo (che tante soddisfazioni ci ha dato e per cui sono morti, quasi certamente, i nostri partigiani). Renzi, Monti, Letta erano e sono i più adatti per trovare soluzioni, non si può rischiare non siano votati, quindi vanno nominati; la democrazia non è uno scherzo, il popolo in 60 anni non ha ancora capito come si vota e il 25 aprile bisogna ribadire l’accettazione delle regole e le conseguenti eccezioni, per il bene di tutti: restare insieme, stare tutti più vicini…sindaco, rappresentanti di partiti da destra a sinistra, sindacalisti, associazioni varie, due alpini, arcigay, casalinghe devote, clero, leghisti secessionisti, farmacista, operai e anziani”. Il Comandante Bruno sarebbe stato d’accordo.

UGUAGLIANZA: rileggendola ai giorni nostri, sotto voce, senza turbare il riposo dei caduti, è quel principio secondo il quale, se non possono più votare le donne, allora neanche gli uomini; la legge elettorale sarà anche incostituzionale, ma è uguale per tutti, come la giustizia! È quel principio secondo cui se vendi carciofi al mercato o sei un ambulante abusivo di colore (tendente al nero) potresti avere parecchi problemi ed essere accusato di essere la rovina dell’Italia, le forze dell’ordine potrebbero anche essere autorizzate (dalla legge che è buona e giusta) a usar maniere poco ortodosse, che “altrimenti chi ci difende”; ma se evadi centinaia di milioni di euro, dividi appalti miliardari appoggiandoti ad amicizie particolari, te la puoi cavare, basta che indossi una cravatta; certo: quattro ore a settimana di volontariato non te le leva nessuno. Mia madre lo fa da una vita, mi sa che ha evaso milioni pure lei. E a me nemmeno mai una mancia. Il Comandante Bruno sarebbe stato d’accordo.

TUTELA DEL LAVORO: su questo la situazione attuale si è evoluta positivamente; la precarizzazione del lavoro, lo svilimento e abbattimento dello statuto dei lavoratori, la creazione di tipologie di contratto che neanche prevedano tutele, la mancanza di fatto di lavoro, hanno portato al principio della Tutela del Tempo Libero e, tenendo conto che lavorare fa malissimo alla salute e priva di moltissimo tempo prezioso, a me va bene anche così. Il Comandante Bruno si sarebbe riposato insieme a me.

RIFIUTO DELLA VIOLENZA E DELLA GUERRA COME MEZZI PER RISOLVERE I PROBLEMI INTERNI E INTERNAZIONALI: questa poi è una baggianata; storicamente si sa che la violenza è necessaria alla pace, l’importante è che “chi la usi sia dalla parte giusta della storia”, quindi a favore di libertà e democrazia, contro i brutti, i cattivi, gli antipatici, i non moderati, i provocatori, i non decorosi, i non decorati, chi chiacchiera al cinema, chi indossa calzini bianchi coi mocassini. Basta che ce lo chieda l’Europa, l’ America, l’Onu, la Nato, la Germania nazista, insomma, basta chiedere. L’importante è individuare e colpire con esattezza chi non marcia accanto al sindaco, rappresentanti dei partiti da destra a sinistra, sindacalisti, associazioni varie, due alpini, arcigay, clero, casalinghe devote, leghisti secessionisti, farmacista, operai e anziani. Il Comandante Bruno fa partire gli applausi.

Quindi, evviva la Costituzione che ci hanno donato i partigiani (era sicuramente l’unica cosa che avevano in mente scorrazzando su e giù per le montagne). E un bravo a chi la difende oggi, con il piglio e gli strumenti di chi sta nel giusto, di chi usa la legge e le istituzioni, perché la limitazione dei diritti e una giusta dose di violenza, non possono essere cattive se vengono usate con l’attitudine del buon padre di famiglia, se le definiamo per legge potere coercitivo di stato, se rendiamo tutto perfettamente legale. Ecco l’eredità, così come l’hanno accolta e capita sindaco, i rappresentanti dei partiti tutti, sindacalisti, associazioni varie, due alpini, arcigay, clero, casalinghe devote, leghisti secessionisti, farmacista e anziani e anche alcuni operai: la legge non è un mezzo per regolare la convivenza all’interno di una comunità, dove il popolo ha sovranità, libertà e autonomia, magari anche autogestione, ma le legge è il fine, a costo di tornare a soffrire, non realizzare desideri, non esprimere un libero pensiero; la legge deve educare a stare dove si è e se la legge è sbagliata ci sarà ancora più onore e gratificazione nel tollerarla, accettarla e rispettarla. E’ come “il palo salva”, “la legge pure” e quindi, se si sono costituiti legalmente, possono condividere le nostre piazze anche Casapound, Forza Nuova e i Nazisti dell’Illinois, se sono in regola non ci si può far nulla, neanche esprimere un’opinione politica lievemente perplessa.

“Ma se i partigiani redivivi avessero chiesto la piazza?” “Eh, dipende: bene se fossero costituiti legalmente tipo ANPI, ma se non la chiedono ai vigili, la pretendono, solo per far polemica, e neanche hanno statuto, referente e sede legale…”25aprile

E quindi il dissenso, la resistenza, oggi non sono più un diritto, un respiro, anticorpi per una governance compromessa, malata, corrotta, ma brandelli di utopia e maleducazione, spolverate di terrorismo e sfascismo. Meglio non ascoltare, far tacere, per il bene di quasi tutti, rappresentanti dei partiti (tutti), sindacalisti, ecc. E qui il Comandante Bruno, forse avrebbe aggrottato un sopracciglio. Chissà cos’avrebbe detto il Comandante a quelli che oggi mi sembrano così vicini alle descrizioni lette su wikipedia, sui testi della resistenza saronnese, nei racconti dei nonni partigiani in quinta elementare, cosa avrebbe detto ai “comitati senza casa”, agli sfrattati e gli sfrattandi che non accettano lo stato di cose. Avrebbe forse detto loro: “Monelli: non tenete conto del fatto che c’è gente che ha lavorato tutta la vita per le sue proprietà; sappiate che i servizi sociali aprono il lunedì, mercoledì e venerdì dalle 10:00 alle 12:00”; ai No Tav, ai No Muos avrebbe detto: “Monelli: un No Tav non è neanche lontanamente accomunabile a un partigiano, perché, perché… perché… insomma, non rompere le balle che tanto non potete capire e poi, i partigiani, come noto, sulla montagna ci eran costretti, ma preferivano il mare, quindi smamma o unisciti al trenino”.

In realtà, forse sarebbe andato a casa della gente di sinistra, sindaco, rappresentanti di partiti da destra a sinistra, sindacati, associazioni varie, arcigay, clero, leghisti secessionisti, farmacisti, operai e anziani e avrebbe spiegato senza troppa solidarietà o moderazione che il fascismo era legale, ma non è stato sconfitto con le carte bollate! Gli avrebbe spiegato che i partigiani erano pochi e combattevano con le poche risorse che avevano, e che dovrebbero essere felici che non si siano allineati alla maggioranza per ragioni di Stato, perché la maggioranza, in Italia, stava coi Savoia, poi coi fascisti e con Andreotti e negli ultimi anni si sa con chi, perché la maggioranza, prima di capire che c’era qualcosa che non andava, ha accettato le guerre coloniali, le leggi razziali, l’entrata in guerra, cioè, un po’ come ora, la maggioranza prende tempo e fa finta di nulla, e si scandalizza pure se qualcuno s’incazza, finché c’è qualcuno che le lanci un osso. E spiegherebbe a questa gente di sinistra che se usa la memoria solo come strumento retorico, tanto vale seppellirla con i corpi di chi l’ha creata. Perché il fascismo c’è, ci sono i CIE, le spese militari, il controllo sociale, lo sfruttamento sul lavoro, la mafia collusa con lo Stato, le grandi opere che devastano il territorio per la ricchezza di pochi, le discriminazioni economiche, razziali, sociali, sessuali, religiose, perché ripetere su un palco “non dovrà più accadere” (alludendo a un futuro astratto e lontano) e non accorgersi che “sta accadendo ora”, fa incazzare il Comandante e piangere Gesù.

Grazie di cuore, quindi, al Comandante Bruno e ai partigiani tutti, quelli che hanno resistito ieri e quelli che continuano a farlo; grazie oggi come allora, perché non accettate la retorica del cambiamento dall’interno, la legge come confine ineluttabile tra ciò che è giusto e ciò che non lo è, grazie a chi non vota né utile né utilitarista, a chi non abbraccia soluzioni facili, soluzioni finali o soluzioni dalle larghe intese, come fossero la fucina per una nuova base costituente. Se l’avessero fatto nel ’43, se avessero lasciato stare, se fossero stati sobri e moderati, oggi non festeggeremmo il 25 aprile, avremmo qualche fascista in più, faremmo qualche grigliata in meno, ma, voglio pensare anche positivo: forse le Ferrovie Nord arriverebbero in orario.

Lo Stroligh

Cambiare il mondo non basta. Lo facciamo comunque. E, in larga misura, questo cambiamento avviene persino senza la nostra collaborazione. Nostro compito è anche d’interpretarlo. E ciò, precisamente, per cambiare il cambiamento.
Affinché il mondo non continui a cambiare senza di noi. E, alla fine, non si cambi in un mondo senza di noi.
Günther Anders, L’uomo è antiquato

 

Lo Stroligh: vagabondo, forestiero, girovago, scapestrato, piantagrane. Così ci sentiamo.
Sempre più forte sentiamo l’esigenza di uno spazio comune, in cui discutere e analizzare ciò che avviene dentro la società in cui viviamo, le dinamiche e le lotte dentro e fuori dalla stessa. Una società che leggiamo e recepiamo con lenti altre e che vogliamo raccontare servendoci di linguaggi, strumenti interpretativi diversi, per comunicare, condividere.
In questi anni una varietà di singoli e di gruppi si è trovata a discutere, anche animatamente, incrociando opinioni su ciò che accadeva sul nostro territorio. A volte si è raggiunta una sintesi, altre volte no.
Uno di questi incontri ha portato alla genesi di un progetto comune: un blog come strumento per cominciare, per porsi e porre domande prima di abbozzare delle risposte
, per insinuare criticità, mettere in luce problemi e percorsi possibili. Un luogo d’incontro tra punti di vista differenti nel quale affinare le analisi, ispirare l’azione, superarla.
Non siamo un gruppo chiuso e omogeneo: ognuno declina nella quotidianità le proprie scelte e pratiche secondo le proprie attitudini e risorse, ma viviamo insieme un’agorà, uno spazio di dialogo e scambio, senza mediazioni verticistiche.

Non ci interessa sovrapporci all’informazione già esistente: ci interessa proporre un punto di vista, che sarà inevitabilmente il punto di vista delle persone che si trovano a confrontarsi, che accettano e vivono le condizioni del libero pensiero, che rifiutano il pensiero unico, la subordinazione alle ideologie, l’accettazione di un sistema precostituito, necessario, considerato dai più come il migliore dei mondi possibili.
Daremo invece spazio a quelle notizie ritenute poco significative da chi ha come interesse prioritario vendere e guadagnare.
Non inseguiremo lo scoop, l’ultimissima, non ci saranno capo redattori e correttori di bozze. Non ci saranno
nemmeno firme, perché anche un articolo scritto a due mani sarà frutto di una dialettica comune.

Ci interessa partire ragionando e discutendo del territorio in cui viviamo, quello saronnese, senza che ciò ci impedisca di vagabondare liberi, tentando con gli strumenti che abbiamo scelto di incidere sul mondo in cui viviamo e quindi sulle nostre vite.

Vagabondi, forestieri, girovaghi, scapestrati, piantagrane. Così ci sentiamo.