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DISCORSO SULLA SANITÁ – PARTE 1

Introduzione

Abbiamo deciso di iniziare a scrivere questo documento circa un anno fa, quando abbiamo letto sulla stampa a proposito di un nuovo sistema di gestione dei pazienti cronici introdotto dalla Regione Lombardia a partire dal 2018: il cosiddetto Gestore.

Questo ci ha portato a fare delle riflessioni tra di noi su quello che oggi rappresenta la sanità per la società in cui viviamo, e ci siamo resi conto di quanto questo ambito (spesso trascurato) abbia oggi un ruolo centrale in termini di produzione di valore e conseguentemente ci siamo interessati all’impatto che questo produce sulla vita delle persone.

Il quadro che oggi si delinea è quello di una sanità proiettata sempre più verso la privatizzazione, con uno Stato che assume sempre meno la funzione assistenziale nei confronti degli strati più deboli della sua popolazione. L’idea diffusa che la salute sia un diritto sta venendo meno, con una parte di persone sempre più ampia esclusa dalle cure sanitarie, che vi accede con forti difficoltà per ragioni economiche, o che si è indebitata a causa di queste.

Noi pensiamo che le ragioni di questa trasformazione siano strettamente collegate all’evoluzione delle condizioni produttive che hanno determinato una forte modifica del ruolo assistenziale che lo Stato è chiamato ad assumere.

Nell’affrontare queste discussioni, abbiamo dovuto fare i conti con la scarsità di materiale in grado di offrire un punto di vista radicale e approfondito sull’argomento, cosa che ci ha portato a decidere di sviluppare questo documento.

Il testo  “Tutt’attorno. Ristrutturazione del Welfare e nuove frontiere dell’esclusione e dell’inclusione sociale”, pubblicato circa un anno fa da alcuni compagni e compagne di Torino, include un capitolo sulle trasformazioni del sistema sanitario ed è stato per noi uno strumento molto valido e con il quale ci siamo confrontati per lo sviluppo di questo testo.

Il  nostro documento cercherà di comprendere, in termini innanzitutto storici, le ragioni che hanno portato alla situazione attuale, per poi approfondire più nel dettaglio alcuni meccanismi nell’auspicio che possa fungere, in futuro, da strumento utile ad eventuali lotte. Con questo facciamo riferimento sia alle lotte interne alle strutture ospedaliere, che coinvolgono quindi i lavoratori di questo settore, sia lotte più “esterne”, che coinvolgono coloro che pagano sulla propria pelle le conseguenze di queste trasformazioni (es. lotte contro accorpamenti di strutture ospedaliere, contro le chiusure dei reparti, contro tagli di posti letto ecc.)

Il documento sarà diviso in tre parti così definite:

  1. La sanità si trasforma in settore produttivo.
  2. Analisi della trasformazione: l’ambito nazionale.
  3. Analisi della trasformazione: l’avanguardia lombarda.

 sanità

Capitolo 1

La sanità si trasforma in settore produttivo

In Italia, prima del 1958, l’accesso alle cure sanitarie era un qualcosa di strettamente legato al lavoro. Il sistema era basato su numerosi enti mutualistici, le cosiddette casse mutue, ossia delle assicurazioni sociali alle quali aderivano i lavoratori, che venivano finanziate attraverso contributi versati da loro e dai datori di lavoro. Ognuno di questi enti era responsabile per una specifica categoria di lavoratori, e garantiva copertura sanitaria anche ai familiari dell’iscritto.
Si trattava di un sistema profondamente disomogeneo poiché ognuna di queste mutue permetteva l’accesso sulla base delle caratteristiche contributive, delle condizioni lavorative, della residenza e questo comportava una diversità nel tipo di assistenza offerta.

Coloro che invece non lavoravano dovevano fare affidamento sugli enti benefici e le opere pie.

Il 1958 è un anno di svolta: viene istituito il Ministero della Sanità, scorporandolo dal Ministero degli Interni, che era dotato di una struttura che si occupava della salute. Questo segna l’avvio di un processo che porterà nel 1968 alla trasformazione degli ospedali da enti benefici a enti pubblici e infine nel 1978 all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale.

Istituito attraverso la legge 833/78, il SSN era organizzato principalmente intorno a questi punti:

  1. a) uniformità di trattamento di tutti i cittadini;
  2. b) competenze diversificate ai diversi livelli del sistema amministrativo (Stato: programmazione generale; Regioni: legislazione e programmazione nell’ambito territoriale; Comuni, singoli od associati: gestione tramite le Unità Sanitarie Locali);
  3. c) articolazione ed organizzazione territoriale del Servizio;
  4. d) riconoscimento della prevenzione quale attività prioritaria per la tutela e la promozione della salute.

Se prima gli enti mutualistici erano indipendenti e non coordinati, lo stato dà un’unica struttura omogenea a questo servizio alla cui base ci sono le Unità Sanitarie Locali, ossia strutture territoriali che provvedevano all’erogazione dei servizi di prevenzione, diagnosi, cura, riabilitazione alla popolazione.

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Il Servizio Sanitario Nazionale fu istituito con lo scopo di garantire il diritto alla salute a tutti i cittadini secondo le stesse modalità, e con uniformità geografica e sociale. Il nostro punto di vista è che l’istituzione di questo servizio non fu dettata da ragioni umanitarie e di amore verso il prossimo, ma perché funzionale al modello produttivo che si stava imponendo all’epoca. Era proprio a partire dal secondo dopoguerra che l’Italia e in generale l’Europa erano nel pieno della cosiddetta fase fordista.

Grandi centri di produzione localizzati principalmente intorno alle metropoli del nord, modernizzazione e meccanizzazione dei macchinari, catene di montaggio ed efficienza nei tempi di produzione sono le caratteristiche principali di questo modello che ha avuto il suo apice tra l’immediato dopoguerra e gli anni ’70.

In quest’epoca prende forma quel modello di famiglia moderna che vive in casa confortevole con automobile ed elettrodomestici – che prendiamo come esempio principale di beni di consumo di massa. Questo era reso possibile innanzitutto dalla stabilità del salario che il lavoro in fabbrica offriva, soprattutto se confrontato con l’incertezza economica di chi in precedenza era bracciante agricolo o mezzadro. Questo fu motivo che spinse moltissime persone ad abbandonare le campagne per trasferirsi nelle città – e nei quartieri dormitorio, costruiti appositamente per accogliere questo enorme flusso di persone – alla ricerca di una vita più stabile e agiata. Nel caso della Lombardia il primo flusso fu quello dei Veneti e il secondo fu quello delle persone provenienti da tutto il mezzogiorno.

A questa stabilità lavorativo-salariale si associava un salario indiretto, erogato dallo Stato sotto forma di servizi. Era il principio dell’economia Keynesiana: facendo aumentare il potere d’acquisto dei salari, ne sarebbe conseguito un incremento dei consumi, e quindi anche degli investimenti, della produzione e dell’occupazione. Uno di questi servizi, era proprio quello dell’assistenza sanitaria gratuita. Si arrivò a queste misure, sia perché le condizioni materiali lo permettevano o addirittura lo rendevano necessario, sia sotto la spinta di un Movimento sempre più incalzante e conflittuale che spesso obbligava lo Stato a retrocedere su molte delle istanze rivendicate.

Negli anni ’70, questo ciclo di accumulazione che durava ormai da lungo tempo, iniziò ad entrare in crisi.

In Italia, le lotte erano state in grado di esercitare un peso e una pressione che troppo spesso avevano costretto lo Stato ad una ripartizione dei profitti più ampia di quello che il modello Keynesiano già prevedeva. Inoltre, l’economia entrò in una fase di sovrapproduzione – determinata,  in questo caso, non dal basso potere di acquisto del salario operaio (come avvenuto negli anni ’20) – ma al contrario, da un consumo di massa che aveva portato molte famiglie ad accumulare un numero eccessivo di beni. Inevitabilmente si arrivò a un calo della domanda di nuove merci e di conseguenza le strategie di produzione e di vendita delle imprese dovettero riorientarsi per far sì che le famiglie anziché comprare ex novo un bene che prima non possedevano (televisore, automobile), si limitassero a sostituire i beni che già avevano con altri, più belli, più grandi, più colorati e pieni di optional. Finiva l’epoca del  mercato di riempimento e iniziava quella dei mercati di sostituzione (assai meno redditizi perché la concorrenza nel disputarsi la sostituzione di un prodotto obbligava le diverse case produttrici a ribassare i prezzi e a farsi una guerra commerciale feroce).

Tutto questo portò all’avvio di una grande e complessa fase di ristrutturazione del Capitale in termini di organizzazione del lavoro, dei processi produttivi e degli equilibri sociali.

Per comprendere meglio quanto stava avvenendo riportiamo qui un breve estratto dal testo

Astrazione e movimento reale di Raffaele Sbardella che pensiamo riassuma il processo in maniera esaustiva.

«Gli anni ’80 sono gli anni della sconfitta operaia e, come già detto, della nascita di movimenti con caratteristiche strutturali del tutto diverse. La rivoluzione informatica che investe in questi anni il processo produttivo, sconvolge radicalmente l’organizzazione del lavoro: al lavoro ora si chiede di svolgere un’azione esclusivamente coscienziale che interagisca con la logica binaria della macchina informatica. Il lavoro alla catena di montaggio viene progressivamente sostituito dai bracci meccanici del robot. E’ la fine dei gruppi omogenei e della rigidità operaia, la fine lenta ma irreversibile della fabbrica fordista quale luogo di grandi concentrazioni operaie e della contiguità fisica degli operai tra loro. La cooperazione degli operai in fabbrica mediata, come era stata fino ad allora, dalla macchina, si rovescia nella cooperazione delle macchine tra loro mediata ora dai singoli operai. Questa trasformazione spezza ogni legame, divide, isola gli uni dagli altri cristallizzando le coscienze che ora sono direttamente messe al lavoro.»

La fine della fabbrica fordista segnò la fine anche dell’economia Keynesiana con gli Stati che non venivano più chiamati ad assumere funzioni assistenziali così forti come in passato.

Anche grazie alla progressiva diminuzione della conflittualità, il Capitale ha potuto farsi molto più aggressivo, abbassando il costo della forza-lavoro, imponendo condizioni di sfruttamento maggiori, delocalizzando la produzione, smantellando il sistema di erogazione del salario indiretto attraverso i servizi del welfare.

Anzi, ci fu l’intuizione che questi ultimi potevano essere trasformati in canali attraverso i quali il Capitale avrebbe potuto estendere la propria auto valorizzazione. All’avanguardia, in Europa, fu il governo di Margaret Thatcher, che inaugurò bruscamente una stagione di privatizzazioni, le quali aprirono le porte della gestione di molti servizi (non solo sanitari) a diversi gruppi capitalisti.

Era ovvio che questo avrebbe prodotto un’esclusione dal benessere per una fascia sempre più ampia della popolazione. In Italia, il passaggio non fu così rapido.

Nell’ambito sanitario un primo passo fu quello dell’introduzione del ticket sulle prestazioni diagnostiche (legge 26/82) a carico dei pazienti allo scopo di iniziare ad alleggerire il costo di questi servizi per lo Stato. Scaricando questo costo direttamente sui pazienti, si iniziarono a gettare le basi per lo smantellamento del concetto di una sanità universale e gratuita.

Ma ciò che segnò davvero un punto di svolta fu l’introduzione dell’aziendalizzazione, nel 1992. Quelle che prima erano unità sanitarie locali (USL), furono trasformate in aziende sanitarie locali (ASL) con una modifica sostanziale della loro funzione.

Qui sotto proponiamo una sintesi dei Decreti Legislativi 502/92 e 517/93 pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale e dai quali emergono alcuni significativi punti:

  1. a) si attribuiscono allo Stato compiti di pianificazione in materia sanitaria, da attuarsi mediate l’approvazione del Piano Sanitario Nazionale triennale;
  2. b) lo Stato individua i “livelli uniformi di assistenza” sanitaria che debbono essere obbligatoriamente garantiti dal SSN ai cittadini aventi diritto, e definisce annualmente, nel contesto delle leggi finanziarie, l’ammontare complessivo delle risorse attribuibili al finanziamento delle attività sanitarie; altre prestazioni sanitarie, non previste dai livelli uniformi di assistenza e comunque costi esorbitanti i finanziamenti previsti debbono essere eventualmente finanziati con risorse delle Regioni;
  3. c) si prevede una forte regionalizzazione della sanità: alle Regioni sono attribuite funzioni rilevanti nel campo della programmazione sanitaria, nel finanziamento e nel controllo delle attività sanitarie gestite dalle Aziende, nel governo di attività di igiene pubblica anche in raccordo con la neocostituita ARPA (Agenzia Regionale per la Protezione Ambientale);
  4. d) le aziende USL non sono più strumenti operativi dei Comuni singoli od associati, ma aziende regionali con propria personalità giuridica ed autonomia organizzativa, amministrativa e patrimoniale;
  5. e) il nuovo sistema di finanziamento dell’assistenza sanitaria è basato sulla remunerazione delle prestazioni effettuate, a tariffe predeterminate dalle Regioni.
  6. f) si prevede la separazione ai fini contabili e finanziari degli interventi sanitari da quelli socioassistenziali: le funzioni sanitarie sono a carico dell’Azienda Sanitaria, mentre quelli socioassistenziali sono di competenza degli Enti Locali; le Aziende Sanitarie possono gestire interventi socioassistenziali soltanto a seguito di delega da parte degli Enti Locali.

Il passo si è compiuto e la sanità oggi rappresenta a tutti gli effetti un settore produttivo attraverso il quale il Capitale è in grado di autovalorizzarsi. Intendiamo con ciò la capacità del Capitale di estrarre valore anche da campi fino a qualche decennio fa inesplorati, quali la salute e la sanità.

Se è vero che un oggetto costituisce un valore in conseguenza del lavoro in esso contenuto, allora nuova frontiera del lavoro sarà l’induzione di inediti criteri sanitari da soddisfare; medicalizzata la vita di ognuno, creata la cura, soddisfatto il bisogno del Capitale.

Le USL erano i terminali locali di un servizio statale centralizzato, le nuove ASL sono invece aziende autonome con relativo bilancio e in forte competizione tra di loro. Ogni prestazione erogata ha una determinata tariffa e viene venduta come un prodotto: la capacità di saper vendere al meglio i propri servizi sanitari è ciò che determina le fortune e le sfortune delle varie aziende sanitarie.

Nel corso degli anni l’ospedale ha assunto sempre più le sembianze di un nuovo modello di fabbrica che non differisce molto dal resto degli apparati produttivi, la differenza sta nell’oggetto prodotto: in questo caso non si tratta di automobili o frigoriferi, ma di servizi sanitari. In questa nuova fabbrica ciò che viene realmente messo a valore, sono i corpi delle persone, il cui benessere passa in subordine, rispetto ai profitti che essi possono generare. E come nel caso di ogni grande industria, anche intorno a quella sanitaria si è sviluppato un indotto di notevole portata. La produzione principale è quella dei medicinali e dei prodotti farmaceutici, ben supportata da aggressive campagne di marketing. In TV, nelle stazioni, sui cartelloni pubblicitari, su Internet e persino negli ambulatori dei medici:  ovunque vengono pubblicizzati prodotti farmaceutici che propongono rimedi ad ogni genere di malessere. L’indurre (commercialmente) a pensare che ci sia sempre un rimedio per tutto e che non si debba mai stare male, si è tradotto,  in termini pratici, in numerosi casi di abuso di medicinali, e in un numero sempre maggiore di prescrizioni farmacologiche.

Inoltre, come nel caso di altre aziende, si assiste ad una crescente esternalizzazione dei servizi e relativa diminuzione del personale effettivamente assunto dalle strutture. Ristorazione, lavanderia, manutenzione, pulizie e trasporto dei barellati sono servizi affidati ad imprese esterne nella quasi totalità delle aziende ospedaliere. Ne consegue una frammentazione totale della forza lavoro in termini di inquadramento professionale e tipologia di contratto: cooperative che gestiscono i servizi di pulizia, infermieri e Oss costretti a lavorare con partita iva o assunti da agenzie interinali, tirocinanti di vario genere, malpagati o direttamente non pagati.

Gli organici delle imprese esterne sono quasi sempre sottodimensionati, situazione che costringe i lavoratori a turni massacranti e allo svolgimento di mansioni che vanno oltre quelle per cui sono assunti contrattualmente. Un caso molto diffuso è quello degli Oss obbligati dai datori di lavoro a ricoprire anche le funzioni di infermieri, in particolare durante i turni notturni. L’estrema condizione di ricattabilità dei lavoratori è molto funzionale a questo modello, in quanto elimina ogni forma di  dissenso.

A farne le spese sono i pazienti, spesso trascurati (si pensi ai barellati abbandonati nei corridoi per mancanza di personale), assistiti in situazioni non idonee da un punto di vista igienico-sanitario (se non addirittura fatiscenti) e spesso impossibilitati a ricevere i trattamenti medici adeguati a causa della mancanza di personale.

Oggi assistiamo al manifestarsi dei primi segni di ciò che questo processo sta producendo.

L’impossibilità per molte persone di sostenere i costi per le cure mediche, ha portato nel 2015 ad un’inversione nella curva dell’aspettativa di vita, sempre in crescita fino a quel momento. Si è passati da una speranza di 83,09 anni del 2014 a 82,54 del 2016. Il numero maggiore dei casi di mortalità si registra tra le fasce più deboli della popolazione. (fonte dati: Banca Mondiale)

Secondo uno studio effettuato dall’università Tor Vergata di Roma e basato su dati Istat, nel 2014 circa il 58% delle famiglie hanno sostenuto spese sanitarie di tasca propria, prevalentemente per visite specialistiche, esami e farmaci. La spesa sanitaria italiana, risulta infatti, complessivamente più bassa del 32,5% rispetto a quella degli altri paesi dell’Europa Occidentale. Queste carenze della sanità pubblica obbligano molte persone a curarsi attraverso la via privata: secondo questo studio, la percentuale di popolazione che ha avuto difficoltà a sostenere le spese sanitarie è stata del 35,3%, con punte del 53,8 nel Sud e nelle Isole. Il 5% delle famiglie ha dichiarato di trovarsi spesso a rinunciare a qualche farmaco, terapia o test diagnostico.

Un altro dato che emerge dal rapporto, riguarda i  316mila i nuclei familiari che si sono impoveriti per spese sanitarie. Si tratta soprattutto di famiglie residenti nel Mezzogiorno: Calabria, Sicilia e Abruzzo sono le Regioni più colpite. E non bisogna trascurare anche le spese indirette: se pensiamo che la maggior parte delle persone provenienti da queste regioni, si spostano al nord per curarsi, ai costi già cari della sanità, si devono aggiungere anche quelli di viaggio e di alloggio. Nel Capitolo 2 di questo documento approfondiremo nel dettaglio queste migrazioni sanitarie.

Tutto questo ha messo in seria discussione quell’idea dell’universalità del diritto alla salute, in passato molto diffusa tra la popolazione.

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Capitolo 2

Analisi della trasformazione: l’ambito nazionale

Nel corso degli ultimi anni è sempre più frequente che le persone dal sud si spostino nelle più ricche regioni del nord per sottoporsi a cure di diverso tipo, in particolar modo operazioni chirurgiche e terapie oncologiche. Questo succede per diverse cause, tra cui quella di maggior rilievo è l’opinione (alle volte confermata dai fatti) che le strutture ospedaliere del sud siano per la maggior parte fatiscenti ed inadeguate. In aggiunta a questa che è indubbiamente una sensazione diffusa soprattutto al meridione, vi è il fatto che in moltissime regioni i posti letto sono ridotti a causa di fondi sempre più limitati (più avanti vedremo come da questa situazione non vi sia via di uscita, ma la forbice al contrario diverrà sempre più accentuata) e gli ospedali sono pochissimi per delle aree molto vaste. In questo modo i tempi si dilatano a dismisura per visite ed esami strumentali che diventano in molti casi una “condanna a morte”. Qui, attraverso un meccanismo cinico e perverso, si inseriscono le aziende sanitarie del nord. È risaputo, all’interno delle strutture stesse, che molti medici vengano invogliati ad aprire studi privati nelle regioni del mezzogiorno, così da poter aumentare gli ingressi e i ricoveri nei propri presidi. Ovviamente tutte le spese (ticket a parte) a cui si dovrà far fronte verranno coperte dalle Regioni di provenienza. È evidente che in questo modo si crei un circolo vizioso all’interno del quale le regioni del sud riceveranno meno fondi (in quanto meno efficienti agli occhi dello Stato e con un numero limitato di posti letto) mentre quelle del nord avranno a disposizione molti più soldi, aumentando la sopracitata forbice di differenza. Oltretutto, le aziende ospedaliere del nord Italia, essendo finanziate da gruppi imprenditoriali molto forti – come ad esempio Techint (più di 25 miliardi di fatturato annui), la quale possiede Humanitas e quindi due ospedali molto grossi nell’hinterland milanese –  sono avvantaggiate in partenza rispetto alle strutture del sud e quindi hanno una posizione di dominanza nel “mercato” delle prestazioni ospedaliere. Così i macchinari più all’avanguardia, i medici più preparati (che non necessariamente sono del nord, ma qui molto spesso vi finiscono per le maggiori opportunità remunerative e di carriera), i reparti nuovi e i poli specializzati, oltre ai tempi di attesa minori finiscono col creare un’attrattiva maggiore per chi è in cerca delle condizioni migliori per essere curato.

Come già accennato i costi vengono coperti dalle casse delle Regioni del sud, che quindi devono alienare parte dei (già miseri) fondi per la sanità in favore delle casse lombarde/emiliane/piemontesi…etc  Un esempio? La Regione Calabria ha un saldo negativo per le migrazioni di quasi 320 milioni di Euro (dati dal 2013 in avanti). [http://www.quotidianosanita.it/regioni-e-asl/articolo.php?articolo_id=60080]

Per inquadrare meglio la situazione, citiamo testualmente un articolo de ilsole24ore, il quale  analizza in maniera abbastanza lucida, prendendo in considerazione alcuni dati forniti dal Censis e dalla fondazione CasAmica, una Onlus che si occupa di offrire ospitalità ai familiari dei pazienti “fuori sede”:

Secondo la ricerca che abbiamo commissionato al Censis “Migrare per curarsi” sono infatti 750.000 i ricoveri fuori dalla regione di appartenenza ogni anno in Italia, un esodo biblico se aggiungiamo i circa 650.000 accompagnatori, con la valigia sempre pronta per le necessità di ripetere ricoveri e cure a centinaia di chilometri dalla propria casa più volte l’anno.
Il 54% dei malati migra in direzione dei poli ospedalieri altamente specializzati, il 21% a causa dell’impossibilità di fruire delle prestazioni di cui ha bisogno nella propria regione, o perché le liste d’attesa sono lunghissime. Parliamo di oltre 200.000 malati che versano in situazioni drammatiche sotto il profilo umano-logistico-economico, a causa della forzata permanenza lontano dalla casa, dagli affetti, dallo studio, dal lavoro, anche per mesi. Problematiche che affliggono anche una grande parte di chi li assiste, con particolare accento su quelle dei genitori con bambini malati di cancro, leucemie, malattie rare. Nel caso per esempio dei pazienti oncologici, e dei loro accompagnatori, le spese annuali sostenute sono circa 7.000 euro l’anno per “costi diretti” (visite mediche, farmaci, infermieri privati e viaggi) e mediamente un malato perde, da mancati guadagni, circa 10.000 euro l’anno, 6.000 il familiare accompagnatore. L’accompagnatore riconosce che nel 70% dei casi ha avuto problemi inerenti l’attività lavorativa, fino al licenziamento per il 2%.

[http://www.sanita24.ilsole24ore.com/art/aziende-e-regioni/2017-03-21/migrazione-sanitaria-dati-e-analisi-un-fenomeno-fantasma-132422.php?uuid=AEz63Yq&refresh_ce=1]

Anche sull’impoverimento e la rinuncia alle cure bisognerebbe focalizzarsi: l’istituto di ricerca e statistica Demoskopika afferma che nel 2016 poco meno di una famiglia su due  (47%) ha rinunciato alle cure. I principali fattori sono per più del 17% l’impossibilità a sostenere le cure dal punto di vista economico, per il 12,8% per le lunghe liste d’attesa e per quasi il 5% il fatto di non potersi allontanare a lungo dal luogo di lavoro. Vi sono poi un grandissimo numero di persone che hanno rinunciato a migrare altrove per mancanza di possibilità economiche, non fidandosi dei servizi erogati nelle regioni di residenza. https://www.quicosenza.it/news/in-evidenza/130020-sanita-calabria-la-piu-malata-maglia-nera-anche-per-impoverimento-e-spese-legali

Lo stesso istituto, con un documento del 2016, indica in 28 mila i nuclei familiari che sono finiti al di sotto della soglia di povertà in Calabria, 69 mila in Sicilia e 53 mila in Campania; allarmante se si considerano incluse spese per farmaci, case di cura, visite specialistiche e cure odontoiatriche.

[ricerca demoskopika del 4 gennaio 2017]

In questo quadro già disastroso, vanno inseriti anche altri fattori determinanti: tagli, ridimensionamenti ed accorpamenti. L’esempio principe ce lo abbiamo sotto gli occhi qui in Provincia di Varese: invece di potenziare i singoli presidi ospedalieri, a Gallarate e Busto Arsizio c’è in progetto l’Ospedale Unico, che sarà il culmine di una serie di accorpamenti di interi reparti, sia ambulatoriali che di ricovero (ad esempio otorinolaringoiatria), già in atto da anni. In questo modo, oltre alla speculazione edilizia per la quale già si strofinano le mani in parecchi, vi sarà una riduzione di personale e una riduzione di capacità di erogare servizi, ossia una “ottimizzazione” dei costi per edulcorare il concetto.

Altro esempio sotto questo aspetto è uno studio che ha effettuato l’Università Bocconi, che prevede l’attuazione del modello fabbrica anche nell’ambito medico, con una riduzione delle tempistiche di visita a 15 minuti per paziente. La suddetta università sta già formando il personale sanitario sulla “ottimizzazione dei tempi” – concetto che ritorna costantemente – riducendo, e ci pare abbastanza ovvio, la qualità del servizio offerto. Questo percorso evidenzia come la centralità del profitto, che in questo ambito della società la fa da padrona, porti a nuove frontiere dal punto di vista dell’estrazione del valore. In pochi altri settori della società questo avviene in maniera così forte.

In definitiva, per essere molto sintetici nelle conclusioni, quello che viene fuori è il ritratto di un sistema sanitario malato, che è continuamente depredato da gruppi di potere che hanno le mani in pasta in parecchi ambiti, soprattutto quello in questione. Gruppi di potere che trovano una certa agibilità perché facilitati dalla componente politica (soprattutto in Lombardia con CL e Lega, vedi i vari Formigoni & co), e hanno la possibilità di gonfiare le proprie casse e quelle dei contigui, alimentando un sistema fatto di favori e mazzette quando necessario, a discapito delle tasche e della salute di milioni di persone. Molti di questi aspetti sono affrontati in maniera un po’ più completa nel prossimo capitolo, quello riguardante il caso lombardo.

Clicca qui per leggere la seconda parte.

SPECULARE SULLA SOFFERENZA

La speculatrice seriale Lara Comi ha fatto visita al carcere di Busto Arsizio per fare un po’ di propaganda sulle spalle dei detenuti autori della rivolta di qualche giorno fa. Otto guardie si sono fatte refertare al pronto soccorso dopo una sommossa, le cui cause reali non sono state rese note. La stampa riferisce un litigio tra detenuti, cui è seguita una protesta, divenuta poi sommossa generale con tanto di incendio delle bombolette del gas utilizzate per cucinare. Un tantino azzardata come spiegazione, a nostro parere. Nessun riferimento ai feriti tra i detenuti, come se non fossero esseri umani. Gli unici “degni” di essere menzionati sono stati solamente i secondini.

La speculatrice di cui sopra ha trovato la soluzione per il sovraffollamento: ognuno al proprio paese. Vorremo capire se questa brillante intuizione segue il diktat tanto di moda di questi tempi, ossia prima gli italiani: ci verrebbe da pensare quindi che a Poggioreale ci saranno solo napoletani, a Bollate solamente Bollatesi, a Opera esclusivamente Milanesi etc.

A parte l’ironia, ciò che emerge è che al giorno d’oggi ogni problema è imputabile a chi non è italiano, e quindi la soluzione è il rimpatrio sempre e comunque, a qualsiasi condizione.

OSPEDALE UNICO: LA MENZOGNA NON È NEL DISCORSO, È NELLE COSE

In questi giorni, abbiamo appreso dalla stampa locale, la possibilità che il pronto soccorso di Gallarate venga definitivamente chiuso e trasferito a Busto Arsizio. La situazione viene descritta come drammatica a causa dell’organico insufficiente presso la struttura Gallaratese.

Le cause di questa situazione sono da imputare alla gestione scellerata e simil-mafiosa della sanità lombarda ad opera delle giunte susseguitesi negli ultimi anni. Privatizzazioni, tagli di spesa, esternalizzazione dei servizi, superticket, gestione aziendale-industriale delle strutture ospedaliere, mazzette e porcheria similare: la sanità lombarda rappresenta davvero un’avanguardia a livello nazionale. Che poi ci sia una giunta a traino ciellino (Formigoni), o a traino legaiolo (Maroni prima, Fontana ora), poco cambia: quello della sanità è un affare succulento attraverso il quale generare parecchi profitti.

I vari partiti politici che si susseguono, non rappresentano null’altro che gli interessi dei differenti gruppi di affaristi in competizione o in combutta tra loro per spartirsi le fette di questa ricchissima torta. Capita, a volte, che qualche testa salti o che qualcuno venga pizzicato con le mani nel sacco, ma si sa: nell’epoca dell’informazione ultraveloce, le persone tendono a dimenticare rapidamente, e basta solo attendere che si calmino un po’ le acque per ricominciare ad arraffare.

Certo, la tutela della salute passa assolutamente in secondo piano, ma questo conta poco. Così come poco contano i disagi, che scelte come quella di chiudere il pronto soccorso Gallaratese, potrebbero comportare nei confronti dei residenti nella zona.
Ma questa non è una decisione casuale, o come vorrebbero far credere emergenziale, bensì è inclusa pienamente nella progettualità della giunta regionale leghista che prevede accorpamenti tra due o più strutture ospedaliere a livello locale, allo scopo di alleggerire la spesa sanitaria.

Gallarate e Busto Arsizio ne sono coinvolte, e secondo stampa e leghisti, la costruzione di questo fantomatico ospedale unico sarebbe la panacea di tutti i mali. Eppure la proposta di chiudere il pronto soccorso di Gallarate, è da intendersi proprio come un primo passaggio verso ciò che poi si verificherà con la costruzione dell’ospedale unico: la diminuzione complessiva di organico, prestazioni erogate e posti letto disponibili. Questo comporterà pesantissimi disagi, nei confronti di coloro che perderanno il lavoro o verranno trasferiti, e nei confronti dei pazienti che non potranno permettersi il lusso del ricovero presso strutture private, e saranno costretti a lunghe attese o a migrare presso altri ospedali. Non è fantascienza immaginare che molti pazienti potrebbero essere piazzati in qualche struttura convenzionata con la Regione, magari gestita da qualche amico di amici bisognoso di gonfiarsi le tasche.

E l’ipocrisia del sindaco Cassani non tende a farsi attendere: si dichiara pronto a schierarsi al fianco dei suoi cittadini e a fare le barricate per difendere il pronto soccorso, tralasciando il fatto che questa decisione è conseguenza di una politica ben precisa, dettata proprio dallo stesso partito di cui fa parte.

CHI BEN COMINCIA…

Un inizio di 2018 frizzante nel nord-milanese. Proviamo a dare notizia di quanto avvenuto contro fascisti e nazisti qua e là a nord di Milano:

QUARTO OGGIARO

Lo scorso 9 gennaio qualche decina di antifascisti ha passeggiato per Quarto Oggiaro scrivendo e appiccicando manifesti contro la presenza fascista. A Quarto Oggiaro infatti è presente una sede di CasaPound.

BUSTO ARSIZIO

Lo scorso 17 gennaio sui muri della biblioteca comunale è apparsa la scritta “questa biblioteca è antifascista”.

RHO

Sabato 20 un presidio antifascista ha accompagnato la presenza in strada di CasaPound. Numerosa la presenza delle forze dell’ordine.

MONZA

Settimane movimentate in quel di Monza.

Rimandiamo alla accurata cronaca scritta dai compagni monzesi:

https://boccaccio.noblogs.org/post/2018/01/22/cronache-di-resistenza-due-giorni-di-lotta-antifascista-a-monza/

SARONNO

Venerdì 26 gennaio a Saronno visita della sezione varesina di Casa Pound per raccogliere firme in vista delle prossime elezioni del 4 marzo. Sperando di passare in sordina hanno organizzato la raccolta firme in un bar, il bar Mai di via Varese. A proteggere i camerati il solito dispiegamento di forze dell’ordine con due camionette e diverse volanti e macchine della Digos.

Nonostante ciò attorno alle 18.30 una trentina di antifascisti si sono avvicinati lanciando fumogeni e uova contro i camerati. La raccolta firme sarebbe dovuta durare dalle 18 alle 21. Alle 19 il bar aveva le serrande chiuse.

MONZA

Nella notte tra il 26 e il 27 gennaio due soggetti appartenenti a Lealtà Azione si sono presentati a volto coperto a casa di un compagno minacciandolo tramite un familiare in quel momento presente in casa.

LECCO

Sabato 27 era previsto un banchetto di CasaPound a Lecco.

Un’ottantina di antifascista ha presidiato per tutto il giorno la città, impedendo di fatto che il banchette avesse luogo. Prima è stata presidiata piazza Garibaldi, luogo in cui avrebbe dovuto svolgersi il banchetto fascista, poi un rumoroso corteo ha percorso le vie del centro aggregando nel passaggio diversi giovani.

MONZA
Domenica 28 un centinaio di antifascisti sono nuovamente scesi in piazza contro la presenza di fascisti e nazisti.

 

NELLA COLTRE

LIMBIATE
Due ragazzi di 14 e 16 anni si sono divertiti a bruciare i giochi dei bambini nel parco pubblico di via Alleanza, a Limbiate. I ragazzi sono stati sfortunatamente denunciati per danneggiamento. Sempre a Limbiate quattro ragazzi sono stati sorpresi mentre a sassate rompevano i finestrini di un furgone Ford Transit. Tre sono scappati, uno è stato fermato: un 15enne è stato denunciato.

SARONNO
Dieci giorni fa le telecamere di videosorveglianza comunale sono state nuovamente messe fuori uso. Il Comune di Saronno dovrà far fronte, oltre alle ingenti spese di installazione, anche a quelle riparazione.

BUSTO ARSIZIO
La notte tra il 7 e l’8 novembre due ragazzi sono stati beccati dopo aver dipinto alcuni vagoni Trenord e un muro della ferrovia. Sarebbero stati incastrati da alcune loro foto appena scattate che ritraevano i convogli appena verniciati.

LEGNANO
Ha tentato di rubare merce per quasi duemila euro all’Esselunga di via Sabotino. Dopo aver riempito a dovere il carrello della spesa il 50enne si è avvicinato ad una porta di emergenza, poi un colpo sul maniglione anti panico ed è uscito. Gli addetti alla vigilanza si sono messi all’inseguimento, facendo chiamare prima il 112, e lo hanno preso poco dopo.

GALLARATE
Occupazione abitativa sgomberata nelle case popolari di via MonteLeone a Gallarate: la Polizia Locale e l’Aler sono intervenute nella mattina di venerdì 10 novembre per sgomberare un appartamento di proprietà pubblica che era stato occupato nella notte da una famiglia, con tre minori. «A Gallarate applichiamo la tolleranza zero sulle occupazione abusiva di immobili di proprietà pubblica» commenta l’assessore ai servizi sociali Paolo Bonicalzi. «L’intervento di oggi valga da monito per tutti: abbiamo occhi ben aperti, per intervenire immediatamente e per evitare che gli alloggi finiscano in mano di chi non ne ha diritto. Oggi non è stato necessario usare le maniere forti, ma si sappia che che siamo pronti a farlo se sarà necessario. A Gallarate la casa è un diritto ma per chi questo diritto ce l’ha».

MIGRANTI A VARESE

Giornata movimentata quella di mercoledì 26 luglio per i migranti che vivono nello stabile di via dei mille a Busto Arsizio. Questi hanno preso il treno in direzione Varese, dopo aver messo in piedi un piccolo corteo che ha attraversato le strade della città bustocca. Una volta arrivati alla stazione del capoluogo, ad attenderli c’erano i soliti sgherri in divisa e non, con dispositivi antisommossa e fare poco amichevole. Dopo averli circondati, li hanno costretti a rimanere in stazione, senza la possibilità che arrivassero in prefettura, come era nelle loro volontà. Solo una delegazione ha potuto raggiungere il palazzo del Prefetto, dove hanno fatto presente la marea di nefandezze cui sono costretti a sottostare a causa della gestione da parte del duo Garavello-Balansino, proprietari della KB srl. Con lo striscione che riportava la loro contrarietà alla gestione da parte della cooperativa, hanno presidiato la stazione per tutta notte, controllati a vista da digos, celere e sbirraglia di ogni tipo. Solo giovedì mattina hanno smontato per far ritorno a Busto. Subito è partita la canea mediatica con protagonisti politicanti vari della zona, tra cui il sindaco di Varese, della quale non riportiamo niente per rispetto dell’intelligenza umana.

C’È UN LIMITE

La Cgil e la Cisl propongono un accordo e chi non lo firma viene vessato dall’azienda. Questo è quello che sta succedendo alla Bertschi, società svizzera di logistica chimica che ha sede all’interno di Hupac. Infatti i vertici aziendali stanno in maniera del tutto arbitraria scaricando ferie e permessi ai lavoratori non in linea con gli accordi sopra citati, lasciandoli a casa molto spesso con telefonate che precedono di poche ore l’inizio del turno. Chi ha invece firmato l’accordo ha “diritto” agli straordinari. E poi: sei un operaio e hai, o ti hanno, causato danni al camion? I soldi l’azienda te li scala direttamente dallo stipendio, senza nemmeno capire cosa sia successo.
E anche: sei iscritto a qualche sigla sindacale di base? Via alla giostra delle contestazioni e dei provvedimenti.
La risposta è quindi stata quella di un presidio dalle 4 di lunedì mattina che ha causato non pochi problemi al traffico della superstrada per Malpensa.

ENNESIMO INCIDENTE SUL LAVORO

Ieri a Busto Arsizio un operaio è precipitato dal tetto in eternit che stava bonificando. L’incidente, avvenuto intorno alle ore 9, ha visto l’uomo cadere da un’altezza di 9 metri ed è stato immediatamento trasportato al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Legnano, nel quale è entrato in codice giallo. Altra vittima di un incidente sul lavoro nel varesotto, dove troppo spesso avvengono fatti di questo genere.

I BUONI E I CATTIVI

Abbiamo appreso la notizia che un detenuto ha aggredito due agenti della polizia penitenziaria, ed ecco che da subito si distinguono i buoni dai cattivi: cattivo il detenuto che ha cercato di aggredire gli agenti, buoni gli agenti che hanno rischiato di essere feriti. Non sappiamo cosa sia accaduto al detenuto ma possiamo immaginarlo.
Le istituzioni che orbitano intorno al sistema carcerario si sono da subito indignate, chiedendo più carceri per sopperire alla continua crescita della popolazione penitenziaria, ma senza proferire nessuna parola sui motivi reali per cui un detenuto arriva a ribellarsi.
Le condizioni dei detenuti in carcere sono pessime, già nel 2013 la Corte Europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha condannato l’Italia per le condizioni inumane che si vivevano nel carcere di Busto Arsizio (vedi sentenza Torreggiani).
Nel 2016 si sono suicidati, nelle carceri italiane, 45 persone e 115 sono morte.