Orti al posto del cemento: fermare l’urbanizzazione e riportare la campagna in città.

Prenditi il tempo di vagabondare un momento per la tua città. Osserva i luoghi che la caratterizzano: palazzi, supermercati, uffici, banche, parcheggi… cemento a perdita d’occhio. Qua e là ogni tanto un raro parchetto unisce cani e uomini nella rituale passeggiata. Ma la terra, bruna, fertile, di quella neanche l’ombra. Chi è lo stolto che la cercherebbe qui, tra le piazze e i viali trafficati di una città? Sarà da qualche altra parte, fuori, lontano. Allora dovremmo chiederci da dove arriva tutto ciò con cui ci sfamiamo in città, perché col passare degli anni la produzione di beni alimentari si è delocalizzata. Le campagne, i boschi e i sistemi naturali che un tempo erano prossimi ai centri abitati e che ne determinavano la sussistenza, sono stati progressivamente ridotti e colonizzati dall’esplosivo processo di urbanizzazione ed oggi si trovano per lo più altrove, oltre le montagne ed oltre l’oceano, in Sudamerica o in Africa, e i loro frutti ci rag10338807_10203335492935359_1940888165_ngiungono grazie ad aerei, navi e camion. Considerato che 80 anni fa la popolazione mondiale contava 1,6 miliardi di persone e da poco abbiamo superato i 7 miliardi e che mantenendo questi ritmi di crescita, sospinti dai paesi emergenti, un giorno non troppo lontano anche quei luoghi saranno raggiunti dalle metropoli. E come oramai sappiamo dove arriva la città non cresce più nulla.
Il consumo di suolo purtroppo è un fenomeno più vivo che mai: secondo FAI e WWF in un rapporto presentato a fine gennaio 2012 e denominato “terra rubata, viaggio nell’Italia che scompare”, la superficie di terreno libero che viene occupato ogni giorno è pari ad oltre 75 ettari. Solo in Lombardia le nuove costruzioni di quartieri insediativi, industriali o commerciali o di infrastrutture, consumano più di 10 ettari di territorio naturale o agricolo al giorno (una superficie equivalente a 14 campi da calcio).
I nostri territori sono aggrediti costantemente da una espansione urbana senza controllo, con una compulsività che non trova alcuna giustificazione nell’inesistente crescita demografica o nella sovradisponibilità di abitazioni, ma piuttosto nelle trame speculative di palazzinari e banchieri, con la sovente complicità dell’amministrazione e in un quadro di disinteresse della cittadinanza.
Il processo di cementificazione deve essere arrestato ed invertito poiché il suolo è una risorsa non rinnovabile, troppo preziosa e scarsa per poterla perdere.
Ancora oggi pubblico e privato ricercano nel suolo unicamente il valore monetario creato dall’opportunità di costruirci sopra qualcosa. Strutture ed infrastrutture diventano fonti di rendita a prescindere dalla necessità sociale ed economica. Il suolo viene consumato a favore di un uso scriteriato e a discapito di tutti gli altri suoi potenziali usi, persino di quello alimentare. Come se ci potessimo cibare di calcestruzzo e denaro. Si è perso il senso della misura. Il criterio di valutazione ed il metro di giudizio con cui dovremmo fondare la nostra azione deve invece riconoscere alla terra sia un valore di esistenza che un valore rappresentato dalle numerose funzioni che può svolgere per sostenere l’uomo, l’ecosistema e l’ambiente. Questo criterio deve integrarsi nella pratica con un metodo di allocazione delle risorse diametralmente opposto ai tipici processi decisionali verticali, basandosi quindi sui principi di solidarietà e di orizzontalità e adeguandosi al concetto di scala. La scala locale, infatti, ha le dimensioni appropriate perché si possa avere una partecipazione attiva nella gestione del territorio, che si concretizza nella valutazione delle risorse locali e nella esplicitazione dei molteplici interessi sul loro uso attraverso, appunto, pratiche di partecipazione. Uno degli effetti positivi di questo tipo di approccio è che le conseguenze indirette di attività e consumi ricadono sugli autori delle stesse, senza che gli effetti vengano scaricati su terzi o delocalizzati in altri luoghi e paesi: in linguaggio economico le esternalità negative delle azioni individuali che ricadono sulla collettività in forma di danno ambientale o sociale diventano più facilmente individuabili in termini di causa e di effetto. Ad una migliore comprensione di queste dinamiche segue una accresciuta capacità di soppesare le nostre esigenze ed i nostri impatti sul territorio (la nostra impronta ecologica) ed inoltre di valutare in concreto la capacità del territorio in termini di risorse disponibili. Un azione collettiva che tenga conto di questi criteri è sulla buona strada della “sostenibilità” sociale ed economica
Nelle nostre città, nonostante l’aggressività dell’espansione urbana, sopravvivono spazi non ancora occupati, relitti sfuggiti alla cementificazione. Ebbene questi spazi devono diventare oasi di resistenza contro l’avanzamento del cemento. Anche se una reale inversione di tendenza richiederebbe uno sforzo ulteriore e quindi una riconversione degli spazi già edificati, qualora fossero ancora recuperabili (problema della non rinnovabilità della risorsa suolo), è necessario difendere strenuamente ciò che è rimasto e che potrebbe finire sotto una colata di cemento. Gli unici soggetti realmente capaci di poter fermare questo scempio siamo noi che viviamo il territorio e che siamo artefici del suo destino (e così del nostro).
Recentemente si sta affermando a scala cittadina un fenomeno piuttosto significativo che riflette nella sua essenza un cambiamento di esigenze e di interessi sempre più diffuso.
Gli orti urbani non sono certo una novità. Un buon numero di persone coltiva nel proprio giardino, in aree pubbliche o “franche” (come quelle ai lati delle ferrovie), per hobby o anche per cercare di risparmiare qualcosa sulla spesa. Meno scontata e conosciuta è invece l’esperienza dei cosiddetti orti collettivi urbani. La differenza tra le due esperienze è sostanziale e da queste differenze possiamo trarne delle considerazioni sulla preferibilità tra le due rispetto alla loro applicazione nelle aree pubbliche ancora libere dalla speculazione. Nel primo caso tutto si svolge nei limiti della sfera privata: dalla scelta delle piante alle tecniche di coltivazione, dall’utilizzo di erbicidi e pesticidi alla raccolta ed al consumo dei prodotti dell’orto. Nel secondo caso tutto si decide a partire dalla collettività che si occupa in concerto della gestione della coltivazione e del consumo. Il nocciolo della questione è che per quanto gli orti privati possano considerarsi come esperienze positive (quando non vengono usati pesticidi), poiché comunque spesso rivelano uno spirito di iniziativa e di autogestione spontanea, la parcellizzazione di aree pubbliche urbane in tanti piccoli orti-paradisi privati non è assolutamente un auspicabile utilizzo delle risorse comuni. Attraverso un orto collettivo ed autogestito invece viene realmente soddisfatto un fine importante del suolo pubblico: la soddisfazione, ancorché parziale, di un bisogno comune: l’alimentazione.
L’alimentazione è qualcosa di più che la dieta di un individuo; è un enorme business che muove risorse, uomini e terra. Il modello propagandato negli anni 60 come “Rivoluzione Verde” è oggi Il Modello Unico dei paesi occidentali ed è adottato in fretta e furia anche da quelli emergenti. Esso è caratterizzato dalla monocoltura e dall’alto input energetico totalmente dipendente dal petrolio attraverso l’uso dei suoi derivati (fitofarmaci e pesticidi) e attraverso la massiva meccanizzazione. Questo tipo di alimentazione ha creato enormi eccedenze da una parte, ma dall’altra ha causato depauperamento della fertilità del suolo, perdita di varietà locali, perdita di biodiversità, deforestazione, inquinamento delle acque e, nei paesi del Terzo Mondo, ha creato povertà ed iniquità. Un modello scricchiolante e destinato a collassare ma che ancora oggi è il sogno dell’industria dell’alimentazione che cerca in ogni modo e con ogni mezzo politico di inseguire il proprio profitto e che, per completare il quadro, oggi vorrebbe imporci anche l’ingegnerizzazione genetica.
In Europa la ricetta della “Rivoluzione Verde” è stata il leitmotiv della Common Agriculture Policy (CAP) fin dagli anni 60. Quando tuttavia le evidenze oggettive dei suoi danni hanno reso necessario affrontare i problemi da essa stessa generati, è stato inaugurato un nuovo indirizzo politico per il periodo 2013-2020, operando un po’ di make-up in stile green economy.
L’industria dell’alimentazione controlla la filiera dalla produzione alla vendita. Corporazioni come la Monsanto da una parte e grande distribuzione dall’altra vanno a braccetto per riempirci la pancia di alimenti di scarsa qualità e dall’elevato impatto ambientale. I Centri Commerciali sono l’esatto luogo dove avviene la magia: il consumatore compra acriticamente cibo in grandi quantità senza sapere nulla di come venga prodotto e di come venga trasportato. In questo quadro generale gli orti e tutte le iniziative affini rappresentano uno dei metodi sperimentabili e sperimentati per conseguire la liberazione dall’industria dell’alimentazione, attraverso l’uso di varietà locali, il lavoro collettivo e solidale ed il cosiddetto “km zero” (la scala locale).
Anche se l’obiettivo è quello di rendere locale la produzione e i consumi, è difficile pensare che un unico orto collettivo, per quanto grande, possa soddisfare le esigenze di una città di quasi 40.000 abitanti, cifra raggiunta da Saronno. Ciò nonostante un’esperienza del genere rappresenta di per sé un cambiamento di prospettiva fondamentale che permette di scongiurare mire speculative, di evitare l’impermeabilizzazione del suolo e di contribuire all’emancipazione dall’industria dell’alimentazione. In ogni modo gli orti urbani collettivi rappresentano un aspetto ed una espressione di più ampie ed articolate iniziative economiche e sociali accomunate da principi ecologici e di solidarietà. Solo a titolo di esempio, è attivo il progetto Spiga & Madia (sviluppato dal comitato verso il Distretto di Economia Solidale della Brianza) che ha lo scopo di verificare la possibilità di ricostruire una filiera di pane biologico interamente gestita in un territorio (la Brianza monzese) approssimativo di 50 km di raggio.