HackBack! Chiacchiere con Phineas Fisher

Hackerare viene spesso visto come qualcosa di tecnico, un semplice fatto di attacco e difesa. Tuttavia le motivazioni sono fondamentali. La stessa tecnologia che costruisce strumenti oppressivi può essere utilizzata come un’arma per l’emancipazione. L’hacking, nella sua forma più pura, non riguarda l’ingegneria tecnologica: si tratta di fare leva sulle dinamiche di potere mandando in cortocircuito la tecnologia. È un’azione diretta verso il nuovo mondo digitale nel quale tuttx viviamo. Nella penombra dell’impero tecnologico, il mondo hacker è diventato un obiettivo di assimilazioni e infiltrazioni. Ma la base sotterranea non può essere sradicata: di tanto in tanto una nuova azione affiora in superficie. Alcunx delle/degli hacker che ammiriamo sono scrittori di codici che forniscono strumenti per la privacy online e l’anonimato. Altri gruppi creano e distribuiscono media alternativi. E poi ci sono quellx che fanno contro-hacking. Per scaricare l’opuscolo clicca qui

Raccolta testi 2016-2020

Raccolta di testi usciti tra il 2016 ed il 2020 sul blog www.autistici.org/distrozione a cura del “non-collettivo” dell’etichetta e alcune individualità affini. Immagine in quarta di copertina disegnata da “Verme” in solidarietà con le persone colpite dalla repressione per gli scontri avvenuti a Firenze il 30 Ottobre 2020. * Considerazioni su SPRAR e HC * Yes sir, I will * Al fianco di chi lotta * Punk & Pandemia * Intervista con alcun compagn su BLM * Tuttx liberx, morte ai ricchi Per scaricare l’opuscolo clicca qui

Morte ai ricchi, tuttx liberx

Un video creato da Radhe Gallardo Ibañez sulla notte del 26 Ottobre 2020 a Torino riguardante gli scontri avvenuti in piazza contro le misure del governo nella gestione della pandemia Covid. Aggiungiamo al video un testo scritto da noi in solidarietà alle persone arrestate in quella manifestazione. https://www.autistici.org/distrozione/tuttx-liberx-morte-ai-ricchi/

Bruciare le chiese e abbattere le statue

In varie parti dei territori colonizzati, statue di schiavisti, stupratori e colonizzatori che hanno commesso diversi genocidi sono state vandalizzate, abbattute o distrutte. Perché togliere questi simboli? Cosa rappresentano? E quali valori li tengono in piedi? Il video è preso da “Antimidia”, un collettivo audiovisivo anarchico dei territori a sud della Foresta Atlantica, nella regione occupata dallo stato brasiliano. per visualizzare il sito del collettivo clicca qui Audio: portoghese Sottotitoli: inglese, francese, portoghese, spagnolo, italiano

Female Keep Separate (aggiornato)

Nel mondo severo e violento della prigione, la debolezza del quadro liberale di genere è molto chiara. La società canadese affronta ufficialmente la differenza in modo positivo, attraverso l’inclusione delle diverse identità basate sull’auto-identificazione. Questo è in molti modi il prodotto della lotta, ma dobbiamo anche essere capaci di criticarlo per continuare a lavorare verso un mondo senza prigione e senza la violenza di genere. Approfondiremo questo aspetto tra un minuto, ma adottare la comprensione puramente positiva dell’identità di genere da parte dello Stato può portarci a semplificare eccessivamente la nostra comprensione del (etero)sessismo e a finire per difendere i progetti dello Stato dai reazionari quando invece dovremmo attaccarli alle nostre condizioni. Per scaricare l’opuscolo clicca qui

Una mostruosità iconoclasta

Nel vasto oceano della guerra sociale, alcune persone ribelli – danneggiate, fragili o malate terminali – rifiutano di arrendersi alla vittimizzazione della disabilità. I costruttori del mondo tentano di sottometterle con offerte di pace di assimilazione tecnosferica e comodità consumistiche. Ma queste ribelli – questi mostri – rifiutano qualsiasi cosa meno di una rivolta ostile e insubordinata contro la macchina addomesticatrice… Questa zine raccoglie le voci di alcune di queste ribelli. Insieme in questa zine, e individualmente nelle loro vite quotidiane, esse cospirano per sfidare la narrativa vittimistica e civilizzatrice del discorso sulla disabilità, mentre prendono anche di mira la civiltà stessa. Per scaricare l’opuscolo clicca qui

Il web dell’odio decentralizzato

Le persone che sostengono la supremazia bianca hanno iniziato a cercare più servizi alternativi online, compresa la tecnologia Peer-to-Peer (P2P), poiché è in atto una crescente pressione per mitigare la rapida crescita dei sostenitori della supremazia bianca che si organizzano via Internet con forme e provider più tradizionali e centralizzate. In questo rapporto descrivo il sistema P2P per un pubblico non del settore, spiego come e perché le persone che sostengono la supremazia bianca lo stanno usando e mostro come possiamo utilizzare i punti di forza dei sistemi P2P per un impatto sociale positivo. I principali sistemi P2P usati dai sostenitori della supremazia bianca sono: archiviazione di file, forum, comunicazione e finanziamento. Le principali minacce dell’uso della tecnologia P2P per diffondere l’odio sono l’organizzazione di violenza basata sull’odio, molestie organizzate o sparpagliate e la facilitazione della diffusione di contenuti di odio dannosi o illegali. Molti nella comunità P2P stanno prendendo provvedimenti per ridurrne il potenziale abuso. La tecnologia P2P offre un incredibile potenziale per la collaborazione umana, ma pone anche alcune sfide che sono intrinseche. Questo articolo pone una domanda critica: come possiamo navigare nel terreno inesplorato della tecnologia P2P senza rinunciare ai suoi potenziali benefici o minimizzare i rischi inerenti? Per scaricare l’opuscolo clicca qui

Brucia il telefono

Riceviamo e diffondiamo questo interessante opuscolo.. “L’idea di studiare le tematiche di questo opuscolo è nata in un momento femminista tra donne, lesbiche, froci e trans+ di scambio e condivisione sulla lotta contro le frontiere ed i dispositivi repressivi costruiti attorno ed a partire da esse. Nel cercare approfondimenti su cellulari e telefonia ci siamo imbattutx in questo lavoro che per i suoi anni era fatto molto bene. Qualche tempo dopo abbiamo deciso di tradurlo ed aggiornarlo, già che ci stavamo lavorando sopra abbiamo tolto le parti che non ci convincevano del testo. Quindi quanto leggerete non è la traduzione del testo, ma quello che ci sembrava interessante estrapolare con varie parti ampliate o eliminate.” Clicca qui per scaricare l’opuscolo Clicca qui per visitare il blog

Anarchiche e anarchismo nell’Impero Ottomano, 1850-1917

Le persone anarchiche (N.D.T. da ora in avanti “persone” resterà sottinteso dove non specificato nel testo originale), e in particolare la propaganda col fatto, occuparono il centro della scena nella politica mondiale alla fine del XIX secolo. L’uso della violenza politica nello stampo anarchico catturò l’attenzione del pubblico dalle Americhe all’Europa e oltre. La connessione di una reale lotta per il potere attraverso il valore simbolico della propaganda attraverso le azioni dirette, come teorizzato da figure come Luigi Galleani ed Errico Malatesta, piacque certamente a molte rivoluzionarie dell’epoca, specialmente in quelle società in uno stato di flusso, in profonda dissoluzione, come nel caso dell’impero ottomano. Per scaricare l’opuscolo clicca qui

Anarchici e radicali di sinistra in Mongolia e Tuva

Altro opuscolo “storico” riguardante il movimento anarchico non europeo. Cercando di accrescere la discussione all’interno dei nostri giri speriamo questo breve opuscolo possa essere in qualche modo utile per farsi un idea di quella che è stata la storia all’interno del movimento in altre latitudini del mondo. Non pensiamo ci sia molto in più da aggiungere poiché l’opuscolo in questione non prende parte. Si limita a raccontare gli avvenimenti di quel periodo (1910-1920) in Mongolia e Tuva.   Per scaricare l’opuscolo clicca qui (o sulla copertina)

Lettere anticarcerarie – Sostenere le persone dietro le sbarre!

In tutto il mondo le persone vengono rinchiuse per le proprie lotte politiche o sociali. Queste persone in molti casi sono lasciate sole all’interno del sistema carcerario che cerca di farle crollare con tutto il potere che ha. Tuttavia scrivere lettere alle persone detenute potrebbe essere una di quelle piccole pagliuzze che riusciranno a tirar fuori la persona dall’apparato repressivo dello Stato. Vi esortiamo a scrivere lettere alle persone detenute per aiutarle a sopravvivere alle difficoltà della prigione! Questo video è il risultato del lavoro di collaborazione tra i gruppi Anarchist Black Cross Dresden e Anarchist Black Cross Umeå. È stato creato in occasione per la Settimana di Solidarietà con i/le Prigionierx Anarchicx 2020 (23-30 agosto).

Chi siamo

Distrozione nasce nel 2005 con l’idea di organizzare concerti e distribuire materiale informativo e musicale in diverse città. Negli anni si sono susseguiti vari concerti, festival, coproduzioni e collaborazioni con gruppi ed altre etichette indipendenti provenienti da tutto il mondo, organizzando, tra l’altro, tour in giro per l’Italia di svariati gruppi. Nel tempo hanno collaborato ed animato l’etichetta molte persone, ognuna di queste mettendo le proprie passioni e capacità per accrescere il progetto e connotarlo nelle scelte musicali e non solo. Sia i generi musicali distribuiti che le iniziative organizzate negli anni sono cambiati. Se da una parte, dal punto di vista delle scelte musicali, si è andati via via verso una definizione più chiara del genere di musica che ci interessa, dall’altra il progetto si è anche arricchito di contenuti politici per noi imprescindibili. Così, si è iniziato ad organizzare solo ed esclusivamente produzioni e concerti nei quali gli incassi andassero benefit a sostegno delle lotte e per i compagni e le compagne colpit* dalla repressione. Utilizzando la forma del benefit diretto per ogni nostra produzione, diventando di fatto una cassa di solidarietà attiva nelle lotte. Come ogni progetto, anche questo si pone degli obiettivi e cerca di perseguirli. Sin dall’inizio uno di questi è, appunto, di riuscire a creare una rete di sostegno economico per chi, ogni giorno, si spende nei percorsi di lotta, diffondendo e dando eco a iniziative di conflitto e solidarietà attiva. La convinzione che ci anima è che non sia sempre e solo un urlare sotto palco. Che questo sia un modo come un altro per incontrarsi e discutere e per potersi organizzare insieme. Che serva anche questo per cambiare quel che ci circonda. Distrozione    “Welcome to our house. We believe that punk is a culture of resistance against sexism, racism, homophobia, heteronormativity, strikebreakers, transphobia, cops…”

Tuttx liberx, morte ai ricchi

Guardare alle rivolte di questi tempi con i giusti occhi non è compito facile. Ancor meno facile è il riuscire a farne un’analisi che sia lucida rispetto le motivazioni e le tensioni di chi vi ha partecipato.. La piazza che si è presentata a Torino, così come in altre città, è una piazza piena delle sue contraddizioni, di limiti, priva (o almeno così si suol dire) di contenuti politici… Eppure è innegabile la connotazione di classe. Sia quella attribuita dai giornali alle giovani persone rivoltose (appellandole come le persone delle baenlieue), sia quella che chi era li ha potuto osservare e sentire e che la stessa teppa in qualche modo si rivendica.. Al grido di “ricchi di merda vi è piaciuta la casa in centro!”, al suono delle vetrine di un negozio che si spezzano e crollano, lasciando che un fiume entri a riprendersi ciò che gli è stato sempre negato. Perché come ha giustamente detto un anonimo ragazzo intervistato da una radio locale “io non dico che sia giusto ma se quei pantaloni, che ti dicono che devi assolutamente avere in questa società, tu non potrai mai permetterteli… è normale che te li prendi”. Il giorno dopo l’indignatx cittadinx (e con lxi anche alcunx individualità che di media nei social si dicono “di movimento”) griderà allo scandalo e alla tragedia per qualche coccio di vetro per terra, un po’ di borse rubate e qualche danno collaterale ai dehors dei bar del centro. Qualcunx, come al solito, dirà che spaccare le vetrine è sbagliato perché allontana le persone dalle giuste motivazioni delle manifestazioni. Pochx di questx avranno realmente preso parte alla piazza. Ancor meno saranno mai state in una manifestazione in vita loro. Eppure, dal caldo della loro tastiera e dalla sicurezza del proprio profilo social, da sinistra a destra abbiamo potuto osservare il popolino farsi gonfio d’indignazione per quanto successo. Commercianti e Fascisti del nuovo millennio intanto giocheranno l’arduo ruolo del trapezista e, miracolosamente, cercheranno ancora di cavalcare sia la disapprovazione sociale, sia la rabbia della teppa. La stampa in tutto questo marasma di voci, persone e gruppi non sa più bene dove volgere lo sguardo così decide di buttare tutto in caciare dando un po’ la colpa a chiunque (i noti immigrati fascisti dei centri sociali???) ma stranamente ammettendo che questa volta non si possa assolutamente parlare di una qualche regia in piazza. Non si corre al complottismo mediatico in cui pericolosi anarchicx (anche quando si parla di aree di movimento che poco hanno a che vedere con l’idea anarchica) stanno cercando di fomentare le rivolte ma scrivono, se pur timidamente, che non si sa. che la digos indaga. che gli inquirenti inquerentano… Insomma. Lo stato brancola nel buio. Noi anche. Tra le cose “evidenti” (a mio avviso ovviamente) c’è una totale assenza di lavoro reale nei quartieri più marginali. Per quanto negli anni vi siano stati differenti collettivi e gruppi che hanno concentrato le loro lotte e le proprie tensioni nei confronti di chi, esclusx dalle politiche sociali di questo paese si è trovatx completamente ai margini. Nonostante anni di lotte, rivolte, picchetti, resistenze, occupazioni e manifestazioni bisogna ammettere che il cosiddetto movimento è rimasto a urlarsi da solo addosso e a crogiolarsi dei risultati ottenuti (ma che non hanno avuto alcun effetto reale)… Intanto (per fortuna) giovani rivoltosx, ignorando totalmente “il movimento” o addirittura schifandolo e pur non essendosi mai affacciate ad una piazza o non avendo mai preso parte ad un “riot” ci supera a sinistra. La polizia non sa come reagire. La piazza esplode nella rabbia di chi è stancx delle scelte di governo, di una vita di stenti, di dover apparire sempre perfettx ed “in tiro”. Si vedono giovani vestitx di tutto punto lanciarsi in grida di gioia mentre corrono contro la polizia in assetto anti-sommossa. Mentre distruggono dehors per costruire barricate, bloccando la polizia in diversi punti e cercando di attaccare ancora. La fiumara di gente non ha né capo, né coda. Non ha un corpo perfetto o una strategia… Persone ben coperte in volto si dirigono in tutte le direzioni, piccoli gruppi si formano e sciolgono in pochi attimi. Quando la polizia carica dietro un angolo la gente fugge veloce ma si ricompatta in diversi punti e attacca ancora. Gli agenti a fine serata sono sfiancati. La piazza non è durata molte ore. Gli sbirri riescono a disperdere i/le manifestanti in diverse vie e la piazza si svuota. Stranamente non partirà questa volta (come spesso accade) una caccia all’uomo da parte di digos e agenti in borghese. Chi quella notte è scesx in piazza riesce ad andarsene più o meno al sicuro girando per le vie del centro. La situazione dopo gli scontri è surreale. Giovani bardatx girano indisturbatx, mentre lontane le forze preposte a mantenere l’ordine osservano impotenti ma meditando forse vendetta. Nei giorni successivi spunteranno altri appuntamenti. I toni della stampa ovviamente saranno per lo più composti da grida d’allarme. Creando ovviamente un clima di terrore. Immagini di negozianti che impauritx chiudono le proprie attività, mentre la celere e agenti in borghese riempiono le vie dei centri cittadini. Ora che l’ordine costituito si ritrova a dover emanare restrizioni palesemente a favore di padroni e industriali (ma ai danni delle vite di sfruttatx ed esclusx) a colpi di DPCM. Mentre la “classe” dirigente invita alla calma. Le persone impaurite dal clima venutosi a creare disertano le chiamate. O almeno così la stampa vorrebbe venderci la notizia. Vorrebbe dirci che imprenditori e commercianti hanno giustamente manifestato (sventolando bandiere italiane e chiedendo ai propri aguzzini una morte più rapida forse) mentre le individualità criminali che hanno messo in questi giorni a ferro e fuoco le città e le vie del centro sono scomparse. Non una parola su gruppi di giovani che girano per il centro in attesa che qualcosa accada. Niente rispetto Rider che continuano i loro scioperi e manifestazioni. Nulla riguardo chi reclusx nei CPR o nelle galere continua ogni giorno a lottare per la propria sopravvivenza. Mentre lo Stato ci dipinge un immaginario d’obbedienza e restrizioni, mentre i suoi pennivendoli ci descrivono la paura e l’ansia di morire, mentre agenti scandagliano le nostre vite ed i nostri rapporti personali andando ad arrestare molti mesi dopo sia alcunx compagnx in quel di Firenze (per gli scontri avvenuti il 30/10/20) sia diversx giovani accusatx di aver preso parte ai riot di Torino, noi vogliamo ancora ritrovarci nelle strade. Vogliamo ancora urlare di rabbia e vogliamo ancora assaltare il cielo ridendo. Perché alla domanda “se non ora quando” la risposta che più viene istintiva è “sempre!”. Non saremo politicanti in attesa di un tempo maturo e strategie migliori. Saremo vento, saremo tempesta.

Burn this way

Riceviamo e diffondiamo questo interessante contributo scritto da unx compagnx sulla Ballroom culture, spesso chiamata anche “house culture”. è una comunità clandestina abitata da persone nere e latine LGBTQIA+. Va ricordato che con Ballroom culture è incluso anche un simile fenomeno avvenuto nella comunità bianca intorno già agli anni ’20, seppur con differenze abissali. Innanzitutto, la classe sociale che la abitava, che era sicuramente più in alto delle Black ball, e in secondo luogo nelle ball bianche, le poche nere che accedevano erano spesso costrette al white-face   Per scaricare l’opuscolo clicca qui

La riproduzione della quotidianità

La quotidianità delle persone di una tribù riproduce, o perpetua, la tribù stessa. Questa riproduzione non è solo fisica, ma anche sociale. Attraverso le loro attività quotidiane le persone della tribù non si limitano a riprodurre un gruppo di esseri umani, ma riproducono una tribù, cioè una particolare forma sociale all’interno della quale questo gruppo di esseri umani svolge attività specifiche in un determinato modo. Le attività specifiche delle persone non sono il risultato delle caratteristiche “naturali” delle persone che le svolgono, il modo in cui la produzione di miele è il risultato della “natura” di un’ape. La vita quotidiana messa in atto e perpetuata dalle persone della tribù è una risposta sociale specifica a particolari condizioni materiali e storiche. Per scaricare l’opuscolo clicca qui

Schizo genesis // Mad-Apocalypse

Traduciamo questa zine perché riteniamo necessario ora più che mai discutere collettivamente di ciò che viene definita la “follia” ai giorni nostri e nei nostri ambienti. Attraverso questo scritto di Sasha Durakov andiamo ad esplorare quella che è la storia di ciò che nel tempo è stata definita “follia” e dei suoi trattamenti. Consci che non sta a noi determinare cosa sia la “follia”, del nostro privilegio di essere “classificatx” come “sanx”, vogliamo comunque con questo testo cercare di dare un piccolo contributo ad un dibattito che vede coinvolte anche le nostre relazioni sociali e il nostro modo di vedere l’esistente. “La follia continuerà a nominare la maschera che il cittadino democratico tiene addosso per dare un volto al vuoto che lo circonda finché lui, il razionale cittadino democratico, sosterrà la sua esistenza nominando gli altri come pazzi. Questa follia persisterà fino a diventare una molteplicità radicale, un dispiegarsi senza fine di razionalità sempre incomplete, così diverse eppure così vicine tra loro che si impediscono l’una all’altra, sequenzialmente e spazialmente, la loro interezza. La questione della follia ci invita ad avvicinarci all’aldilà, ma non all’aldilà, bensì a tutti gli oltre, che non raggiungeremo mai completamente. Né una persona né un modello di comportamento, la follia è l’altro lato con cui flirtiamo al limite del nostro nulla.” Per scaricarla clicca qui (o sulla copertina)

Punk&Pandemia

UN ALTRO MONDO E’ IMPOSSIBILE Limiti del DIY in tempi pandemici Sono passati solo 4 mesi dall’esplosione ufficiale del virus che ha scosso il mondo, troppo pochi per poter tirare le fila su cosa ha portato e cosa porterà. Eppure questa catastrofe può essere da spunto per riflessioni per troppo tempo rimandate in nome dell’abitudine alla sopravvivenza. Se la normalità era il problema in cui non vogliamo più tornare, se non è solo un mero slogan, dobbiamo capire se forse anche noi stessx alimentiamo quella condizione, ed è importante quindi tornare a porci una domanda fondamentale: cos’è l’autogestione? Alla proclamazione del lockdown centri sociali e squat hanno chiuso i battenti, adeguandosi alle misure di prevenzione decise dallo Stato: una scelta di responsabilità collettiva condivisibile, come è condivisibile tanto la scelta di distro come la nostra di sospendere le spedizioni di supporti fonografici quanto quella di continuare la propria attività in generale. Tutto giusto, eppure qualcosa non torna: lo Stato decide arbitrariamente di chiudere qualcosa e di riaprirlo dopo un mese, noi ci adeguiamo e anzi molto probabilmente ci adegueremo a ricominciare a fare concerti quando lo Stato lo deciderà. Questo perchè siamo pavidx, siamo servx, siamo fake? Non crediamo sia interessante autoflagellarci dicendo questo genere di cose, nè mostrare i muscoli virtuali dicendo “siamo anarchicx dovevamo fare (e faremo) quel che ci pare”, ma individuare un grosso limite del mondo delle autogestioni, che è l’incapacità di dotarsi dei mezzi per rispondere a modo nostro a un’evidente crisi epidemica. Certo, il come e quali strumenti cui dotarsi è un’incognita, eppure è molto importante cominciare a farsi questo domande, pena subire per sempre la subalternità alle istituzioni. L’autogestione e il suo mercato, le autoproduzioni, sono state per tanto tempo un’isola felice perchè permettevano a tuttx noi di esprimere la nostra creatività e le nostre passioni nelle maniere più “libere” possibili, ma questi tempi ci hanno dimostrato che le isole felici, gli spazi “liberati”, le zone di autonomia temporanee o meno che siano non bastano a se’ stesse, e che il DIY or DIE è uno slogan che molto spesso indica una consequenzialità piuttosto che un bivio. In questi mesi lo Stato Italiano ha mostrato le proprie incapacità e i propri interessi vietando qualsivoglia forma di assembramento che non fosse strettamente legata alla produzione, al consumo e al capitale. Nessuno spazio per il nostro sentire. Nessuno spazio per la protesta. In questi mesi, se pur a fatica, abbiamo visto susseguirsi diversi momenti di piazza, alcuni chiamati pubblicamente, altri sorti spontanei, altri organizzati sotto voce. Se a qualcosa abbiamo partecipato, molto altro lo abbiamo lasciato perdere. Ma non è questo il punto di questo scritto. Non vogliamo fare un’analisi spicciola sulla rivolta ai tempi della pandemia ma piuttosto porre alcune domande sperando di dare il là ad una serie di discussioni che riteniamo vadano fatte. A quando il primo concerto? come lo faremo? torneremo a pogare sudatx fianco a fianco o staremo fermx a osservare chi suona? Attenderemo che lo Stato ci dica che possiamo assembrarci (nel rispetto della vita altrui e consci del pericolo di contagiarci?) o cercheremo ancora una volta di riprenderci le nostre vite… la nostra normalità? ma è questo quello a cui aneliamo? Non vogliamo tornare ai concerti pubblicati sui social. Non vogliamo tornare ad eventi ludici totalmente privi di critica e discussione. Vogliamo (o vorremmo) creare qualcosa che vada al di là di ciò che è lecito e consentito. Non abbiamo risposte o ricette per il chaos. Non possiamo (ne vogliamo) dire quale sarà la pratica “più giusta” o “più conflittuale” ma andiamo cercandola. Non abbiamo neanche una vera e propria proposta, ne stiamo qui dicendo che bisogna far finta che questa pandemia non esista. Diciamo invece che vorremmo discutere della nostra socialità, dei nostri spazi, del nostro tempo e di come prendere il controllo delle nostre vite e non lasciare più allo Stato la delega di quando e cosa possiamo fare. In questi, pochi, mesi, alcunx di noi hanno continuato (o almeno hanno provato) a mantenere una qualche forma di socialità collettiva. Chiaramente prendendo i dovuti accorgimenti sul rispetto reciproco e le necessità (di salute fisica, morale e mentale) di ognunx di noi. Avremmo voluto discutere maggiormente (e forse avremmo dovuto) di come, in quanto anarchicx, possiamo organizzarci ancora per riprenderci spazi di gioia, festa e conflitto. Ci piacerebbe che da questi punti ora accennati partisse una discussione anche pratica, perché il concetto di autogestione per come lo abbiamo conosciuto ha mostrato le sue corde, è forse il momento di tornare alle sue origini o di superarlo? Possiamo accettare di attendere ancora finché qualcunx ci dirà che possiamo tornare a urlare sotto palco o ci metteremo ad urlar di rabbia contro questo esistente una volta per tutte? Quando abbiamo iniziato quest’avventura (ormai 15 anni fa) eravamo sicuramente più incuranti delle conseguenze delle nostre azioni e se poi andiamo a guardare i nostri comportamenti durante le serate forse forse ci salta all’occhio un dubbio… E le altre malattie? e la miriade di tossine che ingeriamo volentieri durante le serate? contano meno perché meno evidenti? Oppure dobbiamo tristemente ammettere che anche noi siamo vittime della narrazione dello Stato rispetto i tempi che viviamo? Il giro punk non è noto certo per essere salutista. Anzi! eppure pare che questo virus ci abbia fatto scoprire l’acqua calda… se non prendi le dovute precauzioni contro le malattie, muori. Sarà forse stato il sistema sanitario (a pezzi e mal finanziato) che ci ha portatx tutti e tutte al “rispetto” della situazione pandemica e quindi all’autolimitarci? Oppure la paura della canea mediatica o di perdere gli spazi occupati (come se non fossero tutti a rischio ogni giorno, come se rispettare queste disposizioni possa salvarci)? Negli anni il movimento punk, in particolar modo quella fetta di movimento punk ancora anarchico, ha portato avanti istanze di lotta, solidarietà, mutuo appoggio e autogestione. Consci che tutto ciò era ben oltre il limite del consentito. Oltre la mera legalità. Non vogliamo ovviamente dire né in questa, né in altre sedi al momento che bisogna dunque “tornare alla normalità”, a diffondere le nostre vite sulla rete come niente fosse, ad ammassarci senza alcun riguardo delle altrui necessità e tensioni ma anzi, vorremo iniziare a discutere e a ragionare insieme sul da farsi. Su cosa voglia dire autogestione delle proprie vite e non solo delle proprie serate. L’autogestione non è (a nostro parere) meramente venire a consumare dentro uno spazio “liberato”, deve voler dire molto più di questo se vuol sopravvivere a questi tempi e a quelli futuri. Possiamo immaginare serate in cui la cura delle persone è importante e necessaria per tutti e tutte? Possiamo trovare dei nuovi modi di organizzarci che escano una volta per tutte da sistemi di cui noi non abbiamo alcun controllo? L’informalità è stata, ed è tutt’oggi, una parte fondamentale del movimento punk anarchico. Dalla necessità di occupare spazi, per vivere, per organizzarsi, per suonare. Allo scendere in strada. colme di rabbia contro l’esistente. Un organizzazione avulsa a metodi formali e che scimmiottano la burocrazia. Che muta forma e metodo in base alle necessità. Che si denuda di ideologie e si compone di idee, schegge impazzite che si diramano nelle città, nelle piazze, nelle strade. La rete, social per lo più o per come la intendiamo quest’oggi, è un insieme di pagine “in chiaro” contenenti buona parte delle informazioni su di noi e sulla nostra rete amicale (e non solo). Ci sono criticità evidenti sul modo in cui ci si relaziona attraverso la sempre più presente tecnologia. Le discussioni (e le conversazioni in genere) sono rilegate per buona parte a messaggi asincroni che pretendono sincronia.. E questo è solo una delle molteplici criticità da fare su questo strumento. Tutto ciò va anche a discapito di discussioni reali, dell’organizzarsi insieme e delle nostre stesse vite. Ovviamente è innegabile la possibilità di poter discutere pur trovandosi a chilometri di distanza, il poter condividere quasi in tempo reale aggiornamenti ed altro ancora… Non ci basta questo per sorvolare alle criticità di questo strumento. Ci risulta evidente ad un primo sguardo come la possibilità di ottenere qualsiasi tipo di informazione o nozione attraverso apparati tecnologici ci abbia privato di una necessità primaria. L’incontrarsi. Gioia e giubilio per chi, tra noi inclusx, è poco avvezzx alle relazioni sociali ma se guardiamo a questa dinamica al di là delle semplici serate non possiamo che pensare a quanto ora sia necessario ragionare collettivamente su cosa voglia dire autogestione e su come al di là delle semplici parole possiamo prendere il controllo delle nostre vite e aver cura di chi c’è vicinx. Durante i primi giorni della pandemia ci siamo chiestx spesso: come poter fare le cose che ci piacciono riuscendo a creare un’ambiente sicuro? Amaramente ci siamo risposte che in realtà ciò che dovremmo fare per evitare la diffusione del virus è ciò che avremmo dovuto fare sempre: rispettare le distanze e toccarci solo previo consenso altrui, avere cura delle persone ritenute “più deboli” nonchè dimenticate dalla società presente (immunodepresse, con malattie croniche ecc), rispettare i timori di ognunx. Queste cose, ovviamente, non le abbiamo mai fatte e c’è il rischio che anche quando e se l’epidemia finirà continueremo a ignorarle; del resto è più facile pogare sudatx cercando di mettere le mani addosso senza consenso alla persona che troviamo sessualmente stimolante e rendere inagibile lo spazio che viviamo per persone che hanno problematiche fisiche e/o mentali piuttosto che ripensare in maniera profonda al nostro modo di vivere la socialità. Del resto è più semplice simulare i momenti conviviali offerti dal capitale piuttoste che operare un radicale cambiamento nel nostro modo di porci rischiando di risultare “noiosx”. Peccato che tutta la vita nel mondo delle merci è noiosa, e allora forse quello che dovremmo fare, la possibilità che ci viene messa sul piatto da una spaventosa epidemia, è quella di smettere di pensare al nostro concertino come il momento in cui mettiamo in pausa la nostra vita in quel mondo ma come invece quello che lo ribalta. Potremmo immaginarci concerti in cui la vita realmente vissuta è così radicale da non finire mai, o finire con lo schianto della polizia che tenta di sgomberarci, non con noi ubriachx che mestamente torniamo alle nostre macchine, le nostre case, il nostro lavoro. Ora è il momento, domani sarà già troppo tardi.

Il movimento anarchico in Giappone

Non molti giorni or sono ci è capitato sotto mano quest’opuscolo, scritto dal britannico John Crump, sul movimento anarchico giapponese, riedito dalla federazione comunista anarchica giapponese nel ‘96. Abbiamo pensato subito che potesse essere un buono spunto per informarsi su ciò che compagne e compagni facevano in altre latitudini del mondo, ribaltando per quanto possibile un eurocentrismo molto presente nell’informazione e nella storiografia anti-autoritaria “di movimento”. Come ogni buon libro di approfondimento storico, non pretende di asserire verità o di indicare le linee da seguire, e molto spesso- a partire dall’introduzione dei/delle compagnx- ci siamo trovatx a “storcere il naso” su alcune prese di posizione. Malgrado questo crediamo possa essere un buon contributo per la riscoperta di storie che verrebbero altrimenti seppellite e- perchè no?- uno spunto per ampliare i nostri orizzonti. Buona lettura. Per scaricare l’opuscolo clicca qui

Al fianco di chi lotta

In questi giorni di coprifuoco ed epidemie, molte e molti di noi sono costrettx a stare a casa, oppure a lavorare rischiando di ammalarsi. Il resto delle nostre vite, compresi gli spazi di socialità, conoscenza, aggregazione e organizzazione ci è precluso. Barattiamo, più o meno volentieri, pezzi della nostra libertà per la sicurezza di tuttx. Altre persone, ancora, sono recluse nelle carceri, veri e propri focolai del virus, oltre che luoghi di tortura, privazione e morte. Li hanno dato vita a una lunga serie di rivolte, che tutt’oggi continuano, per reclamare con forza la propria esistenza. In questo momento, essendo impossibile organizzare benefit, concerti e discussioni, siamo costrettx a concentrarci su strumenti online per continuare a sostenere compagne e compagni rinchiusx nelle carceri. Quindi che voi siate a casa o che voi siate al lavoro quello che potete fare è, tra le altre cose,  acquistare su bandcamp le copie digitali delle nostre coproduzioni e delle nostre compilation, tutti i proventi che non coprono le spese arretrate saranno dati, come sempre, a compagne e compagni reclusx e in lotta. distrozione.bandcamp.com La scelta di non effettuare spedizioni fino a che la pandemia non sarà stata arginata è una scelta prettamente politica. Siamo profondamente convintx che le misure adottate dallo Stato per far fronte all’emergenza sanitaria non siano adeguate, siano misure per così dire di facciata, che dimostrano ancora una volta e ora più che mai, quali sono i primari interessi dello Stato e quali sono le logiche che sottendono alle sue scelte. Abbiamo fin dall’inizio diffidato dell’efficacia reale dei provvedimenti e ci siamo fin da subito interrogatx se essi fossero un duro ma necessario prezzo da pagare per impedire la diffusione del coronavirus, o se al contrario essi fossero inadeguati alla tutela della salute pubblica da una parte, e se non avessero troppi effetti collaterali dall’altra. Ora, senza la pretesa di avere l’ultima parola o la soluzione in tasca, possiamo dire che i nostri dubbi erano fondati. Ci appare chiaro come gli interessi economici tutelati da Confindustria e non la salute delle persone siano riconosciuti legittimi e prioritari dal Governo. Solamente i settori essenziali (agro-alimentare, farmaceutico, sanitario e socio-assistenziale) dovrebbero proseguire l’attività; al contrario scopriamo, senza stupirci, che il DPCM del 22 marzo (nello specifico lettera D, comma 1, articolo 1) evita di nominare tutte quelle attività che, fornendo beni e servizi strumentali utili al funzionamento delle attività fondamentali e dunque protette, possono continuare la produzione. Questo allargamento delle maglie, che esonera interi comparti dall’applicazione del Decreto, viene invece demandato a una comunicazione al Prefetto, attraverso una sorta di autocertificazione delle imprese, determinando di fatto una «liberalizzazione completa di tutte le attività economiche-produttive». In attesa della risposta prefettizia l’attività può proseguire indisturbata la produzione, e nel caso avesse dichiarato il falso, non subirebbe alcuna ripercussione o sanzionamento. E’ chiaro che se l’industria non essenziale (ricordiamo ad esempio che lo stabilimento di Leonardo che fabbrica gli F35, non molto utili per far fronte ad un’epidemia, rimane aperto e operativo) non accenna a fermarsi, esponendo al rischio contagio lavoratori e lavoratrici e le loro famiglie. Militarizzare i quartieri e terrorizzare la popolazione con dispositivi di controllo sociale sempre più raffinati e pervasivi non è un buon modo per arrestare morti e contagi. L’eccessiva responsabilizzazione degli individui non solo fa perdere di vista i problemi sistematici che questa crisi fa emergere in maniera lampante, non solo si sta dimostrando inefficace nell’arginare la crisi sanitaria, ma ha degli “effetti collaterali” devastanti sulla salute, intesa in senso lato, delle persone. Le oppressioni sistematiche che affliggono intere categorie sociali in questo momento si acuiscono più che mai; ne citiamo qui solamente alcune, lasciando ad altre sedi l’analisi approfondita di ciascuna di esse: sono centinaia le chiamate che i centri antiviolenza ricevono da parte di donne costrette a condividere lo spazio con loro aggressore, i casi di TSO (trattamento sanitario obbligatorio) sono decuplicati nel corso delle prime due settimane di quarantena, le persone senzatetto e senza fissa dimora vengono sanzionate per non avere una casa. Le retate nei quartieri popolari aumentano in numero e violenza, e spesso sono dirette verso le persone meno abbienti e costrette a vivere in bugigattoli poco salubri. “Per contenere il covid-19” le soggettività migranti vengono rinchiuse in campi come quelli bosniaci privi di acqua e luce, o nei CPR dove non vengono garantite loro le minime precauzioni sanitarie; contro le stesse inumane condizioni i reclusi e le recluse si rivoltano all’interno delle carceri ma le loro grida vengono silenziate da un’ulteriore stretta repressiva: l’amnistia paventata con il decreto svuotacerceri sembra non interessi più chi i decreti li emana e li firma. Infine ricordiamo l’efficacissima misura del Governo a sostegno di lavoratori e lavoratrici precari.e: 600 euro che si accaparra chi ha il dito più lesto e la connessione internet migliore: il clickday è un provvedimento non universalistico che non fa altro che acuire le discriminazioni di classe. Chi lavora in nero, con partita IVA, chi lavora nello spettacolo, nella ristorazione, non percepisce alcuno stipendio e, al di fuori dei 600 euro, nessun reddito: non dobbiamo né stupirci né militarizzare i supermercati se questi vengono assaltati da chi, non venendo pagatx, non può pagare. Una di queste categorie a cui non è consentito fermarsi e la cui salute è considerata sacrificabile è quella dei fattorini. Speriamo di essere statx abbastanza chiarx nello spiegare le ragioni politiche dietro la scelta di sospendere momentaneamente le consegne. Ripetiamo che i volti dell’oppressione capitalista sono centinaia e che ci troviamo impossibilitatx a sviscerare in questa sede ciascuno di essi. Crediamo tuttavia che sia importante avere una visione d’insieme in un momento come questo in cui la crisi sanitaria ed economica priva il sistema capitalista della sua maschera democratica. Sfruttiamo la fase di frattura per evidenziare vessazioni e sfruttamento, tessere reti di solidarietà, organizzarci insieme e creare momenti di rottura con l’esistente.

YES SIR, I WILL

Brevi note per chi si è lasciatx comprare WHITE MAN IN HAMMERSMITH PALAIS E’ una tranquilla sera di regime: mentre giunge la notizia dell’assassinio da parte degli sbirri di un recluso nel CPR di Gradisca da qualche parte, in un centro sociale occupato senza nome, ad un festival HC senza nome, arriva un taxi. Ne esce un ricco signore, imprenditore proprietario di un franchising del “food” e personaggio televisivo. Paga l’ingresso, questo ricco signore, ed entra nello spazio. Corpi sudati, canzoni che inneggiano alla rivolta e all’unità della “scena”, e intanto il signore si fa selfie con tante persone in visibilio, offre da bere, si gode un paio di gruppi pubblicando addirittura una storia su instagram (in un posto dove di norma non si dovrebbero fare foto!). Poi se ne va, sulle sue gambe, senza voltarsi indietro neanche una volta per vedere se qualche malintenzionatx lo segue. Da questo spunto ecco 6 note per una discussione che non avverrà mai, ma che dovrebbe esserci. EVER FEEL LIKE KILLING YOUR BOSS? “Ma non è mica un nazi” Ha risposto qualcunx alle rimostranze di chi giudicava negativo questo evento. Lo stato di cose che viviamo, quello che determina l’esistenza delle carceri, dei lager per migranti, delle frontiere, della polizia e dei fascisti, ha come parziale causa e motore l’accumulo e il flusso di capitali e merci. All’interno del sistema capitalista chiunque assume un ruolo spettacolare, che come tale è funzionale al mercato cui è fruitore/fruitrice attivo/a o passivo/a. I ruoli passivi si sprecano: lavoratore/lavoratrice, punk, attivista pacifista, tutte queste cose dettate dalla sopravvivenza o dalla passione sono ingranaggi del mercato e lo alimentano, ma non sono determinanti per la riproduzione del capitale (no, neanche il lavoratore/lavoratrice ormai). I ruoli attivi invece non solo lo sono, ma anzi essi stessi generano capitale e ne accumulano altri: fra questi c’è la figura dell’imprenditore. L’imprenditore di cui sopra e i suoi soci, nella fattispecie, “presiedono più di due dozzine di acclamati ristoranti nel mondo. Dal 2010 inoltre sono diventati partner di Oscar Farinetti per portare Eataly, il più grande mercato del cibo e del vino, a New York, sviluppando da quel momento le filiali nel nord e Sud America con sedi in Chicago, São Paolo, al World Trade Center, Boston e più recentemente Los Angeles” (dalla presentazione del sito). 24 ristoranti significa un’impresa che somministra lavoro salariato- cioè sfruttamento- a centinaia di persone e accumula un patrimonio che nel 2015 veniva stimato da Celebritynetworth a 15 milioni di dollari USA, oggi probabilmente triplicati. Anche se non ci è dato sapere quanto guadagnano o come sono trattate/i i lavoratori e le lavoratrici dei ristoranti del ricco signore, conosciamo bene la condizione di chi lavora per l’azienda di cui è socio: Eataly. Quest’azienda multimilionaria dai racconti di alcuni ex lavoratori impone “turni settimanali comunicati con meno di 24 ore di preavviso e sempre diversi; nessun canale di comunicazione fra azienda e lavoratori; cambi di reparto arbitrari; nessuna garanzia al momento della scadenza. La comunicazione del rinnovo, quella che più ci premeva ricevere, avviene al momento dell’affissione degli orari: solo chi figura in turno può affermare di avere ancora un lavoro!”, insomma una ricetta non poi così dissimile da quella che si sorbiscono i/le rider e tutte le vittime della gig economy. Eataly, tra l’altro, è sempre stata la testa di ponte con cui le amministrazioni comunali hanno spinto per gentrificare interi quartieri: parliamo dell’area FICO a Bologna, città ormai in preda alla food economy più spinta dove le esperienze degli spazi sociali vengono a più riprese represse, non ultimo lo sgombero dell’ex caserma Sani settimana scorsa; parliamo di Torino, dove Eataly è complice della guerra ai poveri nell’area di Borgo Dora e Aurora, in quanto possiede il 16% delle azioni della Scuola Holden situata in mezzo al Balon, un mercato che sta venendo sgomberato per lasciar posto a studenti di storytelling (cfr. ghostwriters per politici) e turisti ricchi del cibo che fanno ricche spese all’interno del Mercato Centrale di Umberto Montano, grande amico del patron di Eataly Oscar Farinetti; e poi Milano, Firenze, Roma stessa con la gentrificazione aggressiva al quartiere testaccio, Eataly è un brand che porta devastazione e sfruttamento, il ricco signore ne è socio e ne ha aperto uno tutto suo a NY. Stiamo parlando, insomma, di un manager di livello: ingranaggio importante del capitale sfrutta dipendenti e accumula proprietà. Fosse stato un fascistello di borgata sarebbe stato meno pericoloso. SMASH THE MAC Il ricco signore è famoso anche per essere testimonial di McDonald’s, una multinazionale che da decenni distrugge l’ecosistema, assassina in quantità letteralmente industriale animali non umani, sfrutta lavoratori e lavoratrici. McDonald’s è come Benetton, non può neanche tentare di pulirsi le mani e far finta di essere una multinazionale “illuminata” come fa Eataly, e infatti malgrado le continue campagne critiche di associazioni come greenpeace (non di “bigotti estremisti della punk police”) continua per la sua strada di fatturato e devastazione. Fare il testimonial per un’azienda del genere vuol dire essere complici dei CEO di McDonald’s e già solo questo meriterebbe un trattamento ben diverso che chiedere di farsi un selfie. Oppure, e forse questa è la triste realtà, a chi era contento/a e divertito/a per la presenza del ricco signore non interessa realmente ciò che fa McDonald’s agli esseri viventi e alle foreste. Forse sono complici pure loro. MEAT MEANS MURDER “Essere vegani è una scelta di vita che rispetto tantissimo, ma io, in quanto essere umano, mi godo la mia posizione al vertice della piramide alimentare. E per questo mi piace mangiare tutto quello che ho sotto di me nella piramide. I vegani stanno tre o quattro gradini più in basso, ma sono fortunati, perché anche se stanno sotto non mi viene voglia di mangiarli”. Così disse il ricco signore intervistato da Wired nel 2016. Con il tipico disprezzo malcelato da una benevolenza posticcia da persona “open minded”, lo sfruttatore si gonfia di tutto il suo privilegio di animale umano. E’ davvero molto poco interessante che il signore in questione “rispetti tantissimo” lo “stile di vita” vegano, dato che tutti gli allevamenti intensivi che usa per riempire i suoi piatti di esseri morti gravano ben più sulla sua responsabilità individuale di qualche finta bella parola su un giornale. Da sempre il punk in tantissime sue forme, dallo SxE all’anarchopunk, è alfiere della critica radicale allo specismo e al consumo di carne, chissà la tristezza che proverebbe un Colin Jerwood nel vedere gente con le toppe dei Conflict sulla felpa farsi i selfie con un macellaio seriale. Un macellaio pezzo di merda, dato che la sua campagna pubblicitaria per McDonald’s era proprio in favore degli Hamburger. WORK REST PLAY DIE Tutto questo a un punk non interessa. Paga l’ingresso alla serata, si beve le birre, mosha, fa il circle quando il cantante dei Vitamin X glielo chiede e, se capita, si fa una foto col ricco signore da postare su IG. La scena HC ormai è una sorta di sfogatoio per i cattivi istinti e una rievocazione storica di quello che era un tempo: basta risse in strada coi nazi, basta chaos tag contro gli sbirri, basta occupazioni punx. Tutto l’illecito non è contemplato, mentre il lecito di questo esistente è permesso in nome della libertà che ci viene somministrata dallo Stato: la liceità di goderci i gruppi sessisti, i concerti negli SPRAR, gli atteggiamenti machisti, e da sabato pure gli imprenditori, salvo poi criticare come macchinette “gli hipster dello Static Shock che commercializzano la scena”, “la band che aveva firmato per l’etichetta” e tante altre ritualità dette per impotenza o per abitudine. Dite che l’ondata di band raw punk legata al giro Static Shock o K-Town è una merda perchè “hipster”, dite che il Fluff è “fighetto”, ma invece voi cosa offrite? Un lassismo totale nell’affrontare le questioni del sessismo nella ormai quasi defunta scena e addirittura l’apprezzamento “goliardico” di un padrone? Certo, gli hipster e chiunque mercifica la propria roba fa schifo, ma in fondo al di là delle pose “true” in cosa si differenzia il tizio o la tizia della scena HC se non usa almeno le armi della critica? Non gli interessa niente al punk medio, come una persona qualsiasi si gode il divertimento che gli viene somministrato dagli organizzatori e dalle organizzatrici dell’evento. Non è un caso che ormai i dj-set trash sono una costante dopo i concerti: non pensare, vecchio skinhead, immergiti nella monnezza del divertimento senza via di scampo, provaci male con le tipe, sbronzati, che dopodomani si torna al lavoro. E senza aver mai voluto approfondire ciò che ci suggerivano nostre band preferite, ci siamo identificatx in un ruolo e non in un’identità, e forse è tutto ciò che ci rimane. OI! FATTIUNARISATA Qualcunx lo dice sempre durante questi dibattiti. Vale per l’imprenditore al centro sociale, ma si è sentito dire di fronte a cose molto più gravi, quali cori o comportamenti sessisti, razzisti e discriminatori in generale. Sembra che la responsabilità individuale e collettiva venga meno se è detto per scherzare: effettivamente è un metodo in largo uso fra i politici di oggi, come un Salvini che fra una sparata razzista e segregazionista e l’altra si fa selfie mente mangia panini, come un Beppe Sala (sindaco di Milano) che fra uno sgombero e un’asta giudiziaria e l’altra si fa fotografare vestito da trapper o con i calzini arcobaleno. “E’ un tipo simpatico, dice le cose col sorriso, quindi non fa sul serio”. Ridere di qualcosa di problematico, provocare, “scherzarci su” fa sì parte della storia più ‘camp’ del punk, vedasi il profluvio di svastiche del periodo settantasettino, ma non può essere un alibi. Quando ridi metti i denti in mostra, devi aspettarti che qualcunx possa venire a romperteli, è un assunzione di responsabilità che è propria nella storia del punk quanto le provocazioni pseudo-naziste: nel 77 i/le punk italianx venivano attaccate da compagne e compagni così come dai fasci per le loro provocazioni senza nascondersi dietro la miseria del “è solo per scherzare”, oggi pare invece che tutto ciò che fa ridere non debba passare sotto le armi della critica. Questa macchiettizzazione dell’esistente in salsa auto/post ironica è propria di una società assuefatta ai meme, è una sorta di recupero- forse involontario- di alcune prospettive situazioniste e del primo punk: queste due controculture (?) non prendevano sul serio nulla dello stato delle cose presenti perchè tutto doveva essere distrutto, oggi non prendiamo più sul serio nulla perchè tutto rimanga così com’è. Sorridere è stupido quando si dovrebbe ringhiare. WHENTHEMUSICSTOPS Dopo la miseria del ricco signore, dell’imprenditore, dello chef Bastianich, e di tutto ciò che abbiamo visto e vissuto in passato nella cosiddetta “scena punk/HC” cosa resta del punk? Resta che c’è ancora un sacco di gente che le lotte le vuole fare, gente che non ci mette più di 2 secondi a organizzare una TAZ in solidarietà a 2 compagni che resistono sui tetti di uno squat sotto sgombero, gente che fa i chilometri per sostenere i benefit. Citando il bel racconto di Disastro Sonoro sulla TAZ in solidarietà alla gente dello squat Brankaleone sotto sgombero “l’hardcore è e deve ancora continuare ad essere una minaccia per questo esistente fatto di quotidiano sfruttamento, repressione e oppressione e che vogliamo vedere ridotto in macerie il prima possibile”. Possibile che lo possa essere ancora e per davvero? Proviamoci. E la prossima volta a Bastianich rubiamogli il portafoglio, almeno… “The public opinion industry evolved, establishing all we know and loath. But when music stops and the action is engaged, your tune will change as the audience take the stage” Flower Power (Anti)police Punx