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INTERVISTA A ORESTE SCALZONE - 24 MAGGIO 2000

Mi arresto qui per dire (apparentemente è rapsodico) che c'è una cosa che mi colpisce. Io ho sempre avuto in testa, soprattutto da quando mi ricordo, l'orizzonte di quello che era la politica, il sociale era sempre un gusto della micro-agorà di famiglia, delle discussioni di notte di cui mio padre era uno specialista (poi era pensionato, in quanto io sono nato che aveva già 54 anni), in cui c'era una specie di zuffa permanente ma piacevole tra comunisti e socialisti. C'erano mio padre e mio cugino Petruccioli, che era diventato comunista (anche se suo padre era un ferroviere cattolico) perché, come spesso succede, aveva incontrato il professore di filosofia comunista, nel senso di un perfetto crociano, poi era sindaco di Foligno (così come il mio professore di italiano che ci ha sposato era sindaco di Terni). Idealisti puri, cioè una formazione crociana e poi da qualche parte avranno letto che Marx dice che si fa il sottosopra e si mette Hegel con i piedi per terra e che questo era, ma c'è l'idea del senso della storia, lo verniciamo di rosso e lo chiamiamo proletariato, ma insomma è sempre lo spirito del mondo a cavallo: la dialettica, lo storicismo e il senso della storia, quindi una generazione di professori di filosofia, da Togliatti in giù, Gramsci con qualche curiosità in più. Perché non lo dobbiamo dire? C'è una mia amica che doveva fare una relazione su Gramsci e Pasolini e continuava a dire il marxismo, intendendo per marxismo il fatto di stare dalla parte dei poveri (e ancora, Pasolini...), ma in modo rigorosamente a-marxiano. Gramsci scrive che il terzo libro glielo raccontava Sraffa, e il primo de "Il capitale" in tedesco (io predico bene e razzolo male, perché evidentemente il tedesco non lo leggo) dei maggiori personaggi erano Antonio Labriola e Bordiga che l'avevano letto, che avevano questo punto di vista; non parlo dei "Grundrisse" che non esistevano, né per Lenin, né per Trotzki, né per Bucharin, né per Bordiga, né per Karl Korsch, il che come cosa è interessante, sono stati tirati fuori nel '40 e meno male che non li hanno bruciati nel paese del trattino e del testo "Principi del leninismo". Sono cose che sono banalità, ma quando uno le dice, se le ricorda, non è evidente che le tiene sempre presenti, anche il sapiente: quelli hanno fatto tutta la cosa della rivoluzione d'ottobre essendo all'oscuro del capitolo sesto inedito, dei "Grundrisse". Barbara Spinelli in un'editoriale parla di Marx dipingendolo come uno che predica una morale dell'anti-dovere, sono delle stupidaggini: siccome era una mia seguace nel Comitato di Base di Lettere se la incrocio cerco di bacchettarla, perché che hai letto a fare questo mondo e quell'altro, scrivi bene e sei molto colta se dici della stupidaggini in senso puntuale, che tengono come pietre angolari un intero ragionamento? Tanto vale Montanelli, ma d'altra parte questi e Cossutta hanno l'identica idea di Marx, quello di Montanelli per dire che è un diavolo, quello di Cossutta per mettersi il santino in camera: è lo stesso, fantasmatico, e certamente non quello letterale. Ma questo è a monte di tutti i discorsi se ci sono le coupur, le rotture epistemologiche, quelle di Althusser... Certo, Rossanda si è presa un genio folle e in fondo anche lui che pendolava tra Guitton, lo strutturalismo e un approccio a Marx un po' febbrile e certo di coupur, bisogna vedere dove le si mettono, come Althusser. Sembrano giudizi tranciati così ma se poi mi chiamano a fare una controversia in buoni e dovuti termini la facciamo, io mi porto i miei esperti e loro si portano i loro.
Come sono diventato comunista? So bene che Massimo Cacciari, da quando aveva tredici anni, ha avuto come precettori Toni e Asor Rosa, quindi se c'è uno che ha studiato rigorosamente, comparativamente e in modo sistematico dalla preadolescenza è certamente lui, ma ce ne saranno anche altri; però, siccome malgrado le sue cattive frequentazioni (da Di Pietro a Radio Sherwood) non mi risultava che fosse idiota, non credo che, alla domanda su come è diventato comunista, risponderebbe: "Ebbi a fare uno studio comparativo tra il buddhismo nelle sue varie correnti, l'empiriocriticismo e tutto il resto, e da lì dedussi che...". Non è possibile, è chiaro che è un altro il modo con cui uno si forma, uno non può essere un internet in una testa sola, o la biblioteca di Babele o di Borgues in una testa sola, anche perché sarebbe niente, come un internet, o la carta della Cina dell'imperatore cinese, o la memoria infinita dell'uomo che ricordandosi tutte le foglioline che aveva visto in ogni attimo della sua vita equivale a zero, l'infinito equivale a zero: un po' quello che in piccolo mi succede a me con il discorso della trasformazione in una cosa fatta e finita, con il colpo di grazia, che sia una forma-libro o una forma-articolo. Quindi, se si fa un gioco di società, come è cominciata? La rivolta contro il padre, i ricchi e i poveri, il senso della giustizia: io dico che non me la racconto, perché melo ricordo, avrò anche le copie che scribacchiavo da ragazzino. Non era l'ingiustizia, non era la rivolta contro l'autorità perché veramente non mi sono mai sentito oppresso, forse per questa condizione del figlio maschio di un patriarca e con un giniceo amoroso intorno; magari qualche volta, ma in modo così, e poi avrei dovuto fare una rivolta contro la madre, in quanto era lei che per questo amore soffocante pensava che nel cortile si innescasse un meccanismo per cui si arriva a morire dopo una sudata. Per me la miseria era praticamente invisibile a Terni negli anni '50. Sono inoffensivo, non mi piace comandare, in fondo se da ragazzino ti dicono che sei una specie di miracolato o hai l'ambizione di diventare una sorta di Gesù Cristo, a buon mercato però, o direttore, capataz, governatore eccetera, oppure come me proprio non c'è attitudine al comando: ma non per umiltà, non è una virtù, è per megalomania, perché mi sembra che non valga proprio la pena. Poi c'è lo spirito di avventura: ci vogliamo raccontare che non ci sia? Questa cosa c'è in una frase trovata dopo (Shakespeare l'avevo letto da ragazzino, però le frasi non te le ricordi più, l'ho trovata perché Virno l'aveva messa in un articolo, e glielo dissi): "Gentlemen, se viviamo, viviamo per marciare sulla testa dei re". Quindi non la rivolta perché siamo oppressi, ma perché siamo avventurieri: questi qua vogliono comandare e gli facciamo vedere noi. Perché non bisogna raccontarsela così? C'è questa ambizione di essere un po' demiurghi. Quando mi chiedono se mi sento fallito, io rispondo: "Io volevo fare casino, avrei voluto farne di più, ma sono soddisfatto". Mi ricordo quando ero ragazzino e ho letto il libro "Dynamite" di Milo Vangillas: avrei voluto scrivere un libro "Dynamite".

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