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INTERVISTA A ORESTE SCALZONE - 24 MAGGIO 2000

Pasolini l'aveva scritto (lì però non ho le prove, ma è chiaro che è uguale): "Un giorno morirò mentre mi vado a cercare i ragazzini"; muore così, e chiaramente il poliziotto cosa pensa? Pensa che quel ragazzino marchettaro si è ribellato alla cosa (a Pasolini poi piaceva essere scandaloso, non ne sarebbe stato ferito), ha preso e lo ha ammazzato. No! A parte il cugino, tutte le Laura Betti del mondo hanno dovuto dire che "siccome scriveva le "Lettere luterane" e aveva scritto "Processo al palazzo" o gli "Scritti corsari" " (sul Corriere della Sera di Piero Ottone) "dunque era stata la CIA"; e se tu sostenevi di no, ti dicevano "sei amico della CIA?". Tra l'altro c'è un motivo pratico in questa mia ossessione, perché questi volevano per forza che il giovane Pelosi raccontasse l'irraccontabile, e se avessero avuto il potere gli avrebbero strappato le unghie per fargli dire che aveva dei complici della CIA. E qui ci passa una differenza tra un bene e un male, futuro e materiale, non c'entra né la morale, né una vertigine di rigore, c'entra invece il corpo di un ragazzino. E sul caso Moro, è la stessa cosa, ne faremo un altro capitolo, ma su Feltrinelli il fatto è che proprio lo so. Dunque, ho dovuto assistere al fatto che questa verità è stata denegata: almeno ci avessero messo in galera a interrogarci, ma non l'hanno fatto. C'era la verità ufficiale, e poi persino quando lo scrittore Balestrini ha pubblicato quel bel romanzo, "L'editore", si tratta dell'unico romanzo dello scrittore Balestrini che è subito stato messo da parte. Quando io facevo l'esempio di Feltrinelli in un film di una mia amica, i produttori hanno detto "no," (poi non lo abbiamo messo per altri motivi) "perché questo è un manipolatore e noi sappiamo bene che sta dicendo il falso". Ed è successo che il figlio, all'epoca traumatizzato da questa cosa che avevo detto, in realtà in difesa di Sofri (qui si aprirebbero altre cose), mi scrivesse una lettera esulcerata dicendo "non capisco perché Scalzone infanga il nome di mio padre"; io gli risposi su Frigidaire e su L'Espresso dicendo: "Non sono io che infango, perché io ero lì quando lui scelse di chiamarsi Osvaldo; sarà stata una roba romantica, adolescenziale e noi non eravamo per niente d'accordo, però è come quando a sedici anni se ne è andato con i ribelli, questo voleva fare. E chi ne violenta l'intenzione della memoria sono i proci che hanno occupato la casa editrice ecc. e che certificano un falso sulla sua verità". Poi non gliel'ho neanche mandata personalmente, è lui che deve essersi fatto tutto questo viaggio e qualche anno dopo mi è venuto a cercare, poi c'è stato il libro, i ringraziamenti ecc.; e sono dovuti passare ventotto anni perché uscisse il libro in cui il figlio (che, per tramite mio, ha incontrato anche l'ultimo di quelli che c'erano e che non è morto) raccontasse com'era. E tutti a dire "bellissimo il libro", uno che avesse detto "adesso ci spiega il mistero Feltrinelli, noi c'eravamo sbagliati": questo problema non c'è, mica che dovevano dare ragione al sottoscritto. Poi anche il figlio alla fine lascia un minimo di scarto, perché deve salvare la mamma e la Fondazione, e spiega tutto, però in fondo dice "sarà andata così o...": è certo che uno può sempre reintrodurre il dubbio, perché uno gli ha detto "ma se questi orologi li ha fatti il tale, chi ti dice che quest'altro non fosse, malgrado ex partigiano, manipolato da qualcuno?". Invece lui lo sa che è andata proprio così e punto. Però, malgrado tutto, dice: "Certo, Berlinguer e quegli altri cosa potevano pensare?". Quindi, trent'anni per una cosa così. Non è un discorso sulla verità, perché se ti dicono di dare una definizione di verità, figurati, è come se ti dicessero di dare una definizione di infelicità; però per contro non è vero il rovescio, perché di un week-end con una pulpite gassosa (come poi io ho avuto l'anno dopo negli stessi giorni in cui avevo detto questa frase) sotto tutti i cieli, salvo un caso che viene classificato come rara perversione, secondo me puoi dire "ecco, questa è l'infelicità", una sua definizione basilare e sensista. Così, la verità è un discorso indefinibile, ma non una falsità. Chissà se la vita è sogno, ma quello che hai visto, se io poi racconto che lì c'era un castagno, grosso modo lo so che sto dicendo un'impostura, o forse non lo so ma è un'impostura, ulteriore. Forse viviamo tutti nel simulacron del film di Fassbinder, ma anche in questo caso il simulacron mi dice che quella è la cosiddetta edera, e se io scrivo una memoria dicendo che è castagno, questa è relativamente un'impostura. Allora ti dicono "ma chi te lo fa fare? sei diventato un puntiglioso, vuoi mettere i puntini sugli i? che senso ha?"; forse niente ha senso, e neanche questo, ma se non ha senso voler ristabilire che era edera, figurati tu che senso ha voler stabilire a futura memoria che invece era castagno.
Detto questo, chiudo tutta questa parentesi e vengo a quello che avevo cominciato a dire tre ore fa. Della generazione dei primi allievi dell'operaismo (non dei maestri, sarei immodesto), versione Potere Operaio, avevo recepito il concetto di autonomia. Certo lo sapevo perché avevo fatto bene o male greco, però dovevo tradurlo agli m-l simpatici come Cecco, perché a Milano dovevi riuscire a passare persino tra loro; essendo attivisti, con quelli della religione, o della superstizione, o della perversione maoista-marxista-leninista se stavi a Milano un po' dovevi trovare dei codici per parlarci, per metterli in crisi, per spiegare. Allora dicevo "perché vi sembra strana l'autonomia? Lenin la chiama indipendenza del proletariato" (in realtà autonomia era un concetto già allora più allargato, e di questo ne faremo un altro capitolo); ma, insomma, grosso modo anche un analfabeta, se gli si spiega, può percepire il concetto di autonomia, nel suo etimo, nella sua definizione, poi con tutti i paradossi, come il paradosso della libertà, le sfere dell'autonomia come si intersecano, la mia autonomia, l'autonomia degli altri, le coautonomie. Ma un po' lo può capire, può capire nel senso che vuol dire, in senso ristretto ma forte e specifico, lottare sui propri interessi materiali (i propri, non di quelli dello zombie con i baffetti), sul piano dei bisogni, poi tutto si complica, i desideri ecc.; però questo concetto di indipendenza persino nelle frasi false degli slogan della triplice sindacale c'è, "siamo autonomi dal governo, dai padroni e dai partiti", quindi grosso modo sappiamo cos'è, in modo anche molto rozzo. Siccome presumo o mi prendo per un materialista critico, è per questo che non ho i pregiudizi e le razionalizzazioni contro tutto quello che comincia per il radicale psi-. A un compagno, che si turba pensando subito che sono delle cose new-age, dicevo: "Io sono un materialista, quindi se mi fa male un ginocchio cerco di farmi curare, se vado da un ortopedico so che è la medicina del capitale, allora magari vado da un guaritore, ma cercherò una cura; se vado male di sentimenti, di umore e di testa è un po' la stessa cosa, sei tu che pensi che sia la sfera dell'anima e quindi la cosa ti turba, e se ti rompi una gamba vai dall'ortopedico mentre se sei con la lingua per terra e depresso guai a dirti di andare da uno psi-. Io sono materialista, rischio magari di stare nelle categorie del materialismo dell'esistente e del capitale". Allora dico che, per quanto riguarda il mentale, proprio perché siamo materialisti, è chiaro che né i corpi camminano se uno è decerebrato, né le pistole all'occorrenza sparano da sole. [...]

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