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INTERVISTA A ORESTE SCALZONE - 24 MAGGIO 2000

Faccio forse questioni morali su Toni? Non le ho mai fatte, né mai ho pensato che fosse stupido e men che mai incolto; però qualche volta dorme anche Omero e per dormire intendo la trance di farsi guidare dal panico, può succedere, non è grave: il grave è incepparsi su questo e poi dover costruire delle storie-schermo per gli anni successivi, perché questo ti diminuisce su tutti i piani, perché è un pensiero che disturba. Se scrivo questo e pensano che è un atteggiamento risentito di inimicizia, mi dispiace per loro; capisco che Toni non se lo voglia sentir dire, ma in fondo glielo ho detto in pubblico e in privato e penso che sia il minimo e che sia doveroso dirlo a un amico, se poi non funziona non è colpa mia. Io, come nel manuale di Victor Serge, dico: "Vi propongo all'occorrenza di comportarvi come ho fatto io", oppure lo dovrei nascondere? Altro esempio. C'erano stati due piccoli 7 aprile, meno noti, uno nel '77 e uno nel '78. Il 7 aprile non è un inedito assoluto, però c'è un elemento di novità, perché prima se prendevano dei brigatisti o me o qualcuno con delle armi in mano, alla guerra come alla guerra, alla giustizia come alla giustizia: ma il passaggio è quando c'è un teorema. I pentiti c'erano dall'inizio, perché Romito era la filigrana sotterranea dello schema 7 aprile. Mi ricordo in cella i padovani (Emilio Vesce, che era irpino-padovano, Toni e Zagato) che dicevano che lì c'era qualcuno che aveva parlato; Zagato per primo diceva che secondo lui è Romito. La metà delle cose che dice Romito sono secondo me le sgomitate matamoriche per sedurre l'operaio raccontandogli che hai i carri armati; poi, rielaborate nella sua testa, diventa che Rosolina non era uno psicodramma in cui ci rompevamo noi, ma chissà che cosa, perché qualcuno gli avrà detto "le BR le teniamo in pugno, quegli altri pure, noi siamo gli imperatori, è tutto sotto controllo, Aut Aut e tutto il resto...". E' un metodo, poi quello è un uomo semplice e prima si galvanizza, poi le rielabora, scritte a macchina diventano così e via di questo passo. Calogero non è stato nemmeno capace di esercitare l'abduzione o la deduzione: c'è del vero, che non è di questi livelli, poi c'è un'accumulazione, fotografata così, di millanterie, millantati crediti, megalomanie, mitomanie, automitomanie, paranoie, sospetti, riletture fatte dagli inquisitori paranoico-egnostico-infami della federazione del PCI, e tutto questo diventa quello: Calogero è un dattilografo. E poi ancora Galan, le invidie, le mitologie, non può essere un perito industriale che rapisce Moro, ci deve essere dietro una potenza o quanto meno un professore universitario: è chiaro, proiettano lo schema borghese, mica che un perito può aver messo in scacco il re, cioè la repubblica, anche se per cinquanta giorni. Dunque, c'erano stati due, anzi tre piccoli 7 aprile: l'arresto degli autonomi padovani fatto da Calogero nel '77, che era già teorematico, abduttivo eccetera; poi l'arresto di Radio Alice, Catalanotti, a Bologna; e poi, un mese dopo la conclusione del caso Moro (e lì te lo aspettavi) l'arresto dei cosiddetti Brigata Tiburtina (Triaca, Spadaccini) presi come brigatisti ma senza prove. Triaca era sparito, e i brigatisti dicevano che lo avevano chiuso in un iper-Stemmheim e che era torturato, mentre quegli altri sembravano far capire che avesse un po' parlato: ma non mi interessa il dettaglio, non so neanche come sia andata a finire e che cosa faccia, comunque era completamente isolato e chiuso.
I miei interrogatori erano come dei volantini, poi li passavo a Lucia, alcuni sono stati pubblicati: una volta facevo lo sciopero dell'interrogatorio, un'altra qualcos'altro, c'era ormai il gusto della schermaglia. Una volta che già stavo male arrivano Sica, Francesco Amato, non mi ricordo se c'era Imposimato, Giuliano Spazzali e Mancini. Domanda: "Lei conosce Morucci e Faranda?", perché comunque avevamo fatto venire Valerio in cella con noi. Che li conoscessi era banale, erano nel Comitato di Base di Lettere, non era significativo, avrei potuto dire "certo che li conosco", ma lì ti volevi anche divertire. Non volevo dare loro una risposta, era un fatto di metodo, se mi avesse chiesto se conoscevo mio padre, non volevo dire "sì, mio padre lo conosco", per un fatto di stile. Però non è che dicevo "non rispondo", e questo che dico c'è nei verbali. Ormai si erano arresi, Sica batteva lui quel giorno: Sica faceva finta di essere intelligente e magari capiva, Spazzali certo capiva. Io dico: "Vorrei raccontare l'episodio di Mandelstam e Stalin". E Sica: "Avvocato Spazzali, lei che è un uomo di cultura, come si scrive Mandelstam?". Quindi ripresi: "Sarò impreciso perché qualcuno me lo ha raccontato oralmente:" (che era stato Piperno poi) "racconta Pasternak che, qualche giorno dopo che Mandelstam morì, Stalin lo fece chiamare. E Stalin aveva proprio questo metodo e un fisico da bestia. De Gaulle, nelle sue memorie, racconta che loro erano andati a Mosca per farsi riconoscere come France Libre; avevano passato sei giorni tra pranzi luculliani, brindisi di vodka, e non riuscivano mai a dire che volevano parlare di politica. Fino a che l'ultima sera Stalin li porta a vedere dei documentari di guerra, e poi, verso le 4 di mattina, mentre avevano l'aereo pronto, si alza e dice: "Parliamo di politica". Prendeva la gente per stanchezza, perché pare che avesse un fisico bestiale per alcool eccetera. Poi discutono e alla fine si mettono d'accordo. E con Pasternak è uguale: lo invita e viene fuori una di queste cene da incubo. Poi, verso le 4 o le 5 di mattina, dice: "Che ne pensa della morte del suo amico Mandelstam?" E Pasternak: "Mandelstam non era mio amico". Lungo silenzio che a Pasternak sembrò eterno, e Stalin: "Non mi sarei mai aspettato che un uomo come lei rinnegasse un amico". Commenta Pasternak: "Il rimorso di questa cosa mi ha lavorato dentro per anni"." Avrei potuto aggiungerci (ma non era ancora accaduto) l'episodio di Mitterand e Chirac nell'88: dibattito finale, drammatizzato, con le équipe come in America. Già Mitterand lo aveva vinto dopo un minuto, Chirac arriva e sembrava un ragazzino nervoso. "Signor presidente, le chiedo di permettermi, dato che qui siamo candidati, di non chiamarla signor presidente, ma signor Mitterand". E Mitterand: "Va bene, signor primo ministro". Mezz'ora dopo c'era stato quel razzista del ministro delle colonie di Chirac che aveva fatto fare l'assalto alla grotta Duvè, perché i canachi avevano sequestrato un magistrato e dei gendarmi: nell'assalto sono morti gendarmi, magistrato, il tutto prima delle elezioni. Mitterand dice una battuta sull'orrore di questa cosa (e ci ha vinto le elezioni per quel disastroso assalto), e Chirac (e io mi taglierei una mano se non era sincero): "Ma signor presidente, io l'ho tenuta al corrente passo a passo di questa scelta". Mitterand: "Assolutamente no". E Chirac: "Ma lei mi direbbe questo guardandomi negli occhi". "Gli occhi negli occhi, signor primo ministro". "Ma...". E Mitterand: "Non è degno di lei fare simili insinuazioni". Questa non gliel'ho potuta raccontare perché avveniva quasi dieci anni dopo: però questa è proprio una tecnica, dire "pezzo di merda" non è niente, ma "non è degno di lei", "non mi sarei mai aspettato questo da lei", questa è proprio la cosa dei preti. Dunque, finisco con il commento di Pasternak, e Francesco Amato: "E allora?". E io: "Bè, allora? Sono io che firmo il verbale, era la risposta alla domanda se conosco Morucci e Faranda". Gli interrogatori che ho fatto erano così, ne vado un po' orgoglioso. Ma devo dire che mi serviva anche perché una cosa così ti tiene su, è molto meglio che la televisione in cella. E' come il tuareg che, intervistato in un film, dice che loro fanno dei duelli e, alla domanda del perché, risponde "per il piacere": poi i fessi direbbero che questa è una cosa fascista, ma secondo me sono fessi quelli che lo osservano, perché i tuareg con il fascismo non c'entrano niente.

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