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INTERVISTA A ORESTE SCALZONE - 24 MAGGIO 2000 |
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Io spesso parto da questo discorso di me, allora spesso (risalendo alla filogenesi) mi piace dire che se guardo al mio tracciato famigliare (che non va lontano perché era di tipo proletario, non ci sono le genealogie) è paradigmatico di un qualcosa che sta nel senso comune a cavallo del secolo e nella Prima Guerra Mondiale. Terni è una città che è come se avesse un destino industrialista, una città di immigrazione, creata in epoca preromana tra due fiumi (si chiamava Interamna), trovasi che c'è la più alta cascata d'Europa, quella della Marmore, che però è artificiale, fatta all'epoca di una delle rivoluzioni agrarie da un console romano, Curio Dentato, per motivi irrigativi: in alto c'è un bacino, il lago di Piediluco, e un fiume, il Velino, che creano questa cascata di 167 metri. Sembra come un destino, perché quando comincia l'industrializzazione, è un luogo naturale di localizzazione di una centrale idroelettrica, quindi è, con Piombino, uno dei focolai della metallurgia pesante in Italia. Questa cosa crea una città del lavoro, che diventa diversa dal resto dell'Umbria; ci sono templi preromani, ma è stata distrutta al 75% perché, facendo la produzione di guerra, veniva cercata, la stazione bombardata eccetera, ed è stata ricostruita come un sobborgo di Teheran. Tra le città-giardino fatte dal fascismo e i palazzoni della deportazione operaia fatti dai sindaci comunisti del dopoguerra, ha questo carattere brutto. Però è sempre stata una città, come io racconto della mia infanzia, dove relativamente non avevi l'idea del povero come qui ti perseguita semplicemente andando a comprare il giornale a Les Halles la mattina; avevi l'idea della tristezza del lavoro, della città operaia e dunque anche impiegatizia. Città di immigrazione interna, quindi molto "cosmopolita" tra gente della penisola italiana. Le zone povere non sono solo il Sud, ma è anche il Veneto (come sanno i torinesi) e anche le zone bracciantili della Romagna, e il padre di mio nonno era emigrato dalle Romagne alle miniere di Morgnano, è morto nel 1888 in miniera, e all'epoca il figlio di cinque anni venne assunto a staccare i carrelli. Mio nonno, dopo sessant'anni, alla fine era maestro del lavoro, quindi autodidatta, comunista di un comunismo produttivista, scientista, giansenistico, che faceva le maquette del moto perpetuo; era quindi un grande raccontatore dettagliato, poco spettacolare, di tutto questo. Anche mio padre era immigrato a Terni, aveva dieci anni in meno del mio nonno materno, ed era partito dalla terra dei mazzoni, che era come il far-west italiano, ossia il retroterra napoletano; alla Grande Guerra è sottoufficiale, avendo fatto tre anni di scuola, ed è lo schema che poi si vede romanzato in "Uomini contro". Delle volte dico ai francesi che, quanto meno, i fantaccini che sono andati a morire in un impasto di sangue a Verdun, parlavano la lingua degli ufficiali grosso modo, invece quelli come mio padre o i calabresi o i siciliani (non loro ma magari la truppa) somigliavano più alle truppe di colore che si sono fatte massacrare perché in Francia le mandavano sempre allo sbaraglio già nella Prima Guerra Mondiale: che cosa avevano a che fare con un ufficiale che dava ordini in piemontese? Quindi è chiaro che tentavano di scappare e li fucilavano: "Isonzo '17" è un libro che documenta questa cosa, "L'inverno sull'altopiano" di Lussu è più romanzato, il film di Rosi con Gian Maria Volontè "Gorizia sparate sul quartier generale" è bello, ma insomma... Mio padre era bersagliere ciclista, quindi era proprio una cosa da proletari, le biciclette con le gomme piene nelle trincee sono peggio dei muli. E' ferito, fatto prigioniero e lì viene raggiunto dalla propaganda socialista, un po' come le storie di Pertini, stessa età. Aveva un'attitudine che comunque per me è stata molto simpatica, forse per le mie sorelle meno perché è molto patriarcale, però era un tipo con un atteggiamento empatico verso il mondo, era assai trasversale; gli era completamente estranea la nozione di risentimento, quindi ti poteva parlare di Francesco Giuseppe come in qualche modo di un conoscente, il nemico è un nemico ma è un conoscente, vivi nella stessa epoca. Finita la guerra torna, non si ritrova, diventato socialista fa il bel gesto di lasciare la sua parte di eredità, neanche fazzoletto di terra ma di acquitrino, e parte alla società umanitaria con una borsa ed è lì poi che studia cooperazione sociale, contabilità eccetera; viene successivamente mandato a Papigno, che è un altro paese nero di claciocianammite (adesso l'hanno usato per ambientarci "La vita è bella" di Benigni). Nel '22 ti racconta la scena del drappello di carabinieri sul ponte che teoricamente doveva fermare la colonna dei fascisti, questi che sfasciano la cooperativa, quindi lui torna a Napoli, fa una vita di contabile un po' precario, con quattro figli. Dopo, negli anni '30, trova poi un posto come contabile alla Società Terni, che sono proprio le acciaierie; alla Liberazione diventa capo del personale, negli anni in cui serviva una mediazione di un socialista, perché è chiaro che c'è questa forza-lavoro sociale che nel '36 compattamente compare nelle foto della visita di Mussolini e che poi è compattamente comunista (si pensi ai libri di Romolo Gobbi eccetera). Allora mi viene in mente che sembra uno spaccato del nodo del diciannovismo e del '22, quando perfino Gramsci dice: "L'impresa di Fiume, il dannunizianesimo, l'arditismo erano ambigui, i socialisti erano incapaci di avere l'audacia di egemonizzarli, noi, la frazione comunista, eravamo troppo piccoli, se no potevamo fare in modo che buttassero a sinistra"; ci sono note di Lenin che rimprovera al Partito Socialista di aver lasciato andare via Mussolini, e questo ormai la storiografia lo mette in luce. E lì cosa passò? La scissione verticale tra gli operai, quelli delle occupazioni delle fabbriche, che ad un certo momento nel dopoguerra vanno all'attacco; naturalmente c'è del vero quando i terzomondisti li chiamano aristocrazia operaia che rivendica la sua parte di torta di profitti di guerra, ma noi abbiamo il punto di vista sulla rude razza pagana, non è che sia una questione morale, però è chiaro che i 600.000 morti sono dei contadini del Sud, perché gli operai, come mio nonno, non hanno fatto la guerra in quanto facevano la produzione di guerra, hanno fatto gli scioperi. La guerra la facevano i braccianti e i contadini perché gli operai dovevano fare la produzione di guerra; in Francia c'è stato l'inizio della femminilizzazione anche della metallurgia, in Italia no. Però è chiaro che dopo gli altri li sentono come degli imboscati, e se c'è più forte l'egemonia che fa percepire i contadini come reduci, passa come una lama nel burro. Lenin in questo è un genio della tattica perché riesce a organizzare. Erano le discussioni tra i sovietologi se l'Ottobre è stata una rivoluzione o un colpo di Stato: gli anticomunisti da un lato e gli anarchici e i consiliaristi dall'altro, compreso io, rispondono che è stato un colpo di Stato all'interno di una rivoluzione. Il colpo di Stato e di genio, nel senso malapartiano del termine, perché riesce a ricucire tra le anime morte che andavano a crepare nelle trincee e i servi della gleba e l'avanguardia di massa dei marinai, cioè dei metalmeccanici della Putilov, sulla base di un immenso ammutinamento dei soldati; infatti i Soviet si chiamano degli operai, dei contadini e dei soldati, e senza il concetto dei soldati la maionese non avrebbe preso.
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