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INTERVISTA A MARIA TERESA TORTI - 17 GIUGNO 2001


C'è ad esempio un cambiamento epocale per quanto riguarda le distanze sociali: negli anni '70 anche i settori più conservatori della società, quanto meno attraverso la cosiddetta beneficenza, consideravano la marginalità e la povertà come una condizione che andava in qualche modo arginata, richiedeva interventi di aiuto, ma aveva una cittadinanza; c'erano le donne di San Vincenzo che andavano nelle bidonville romane e queste cose qua. La marginalità, la povertà, il disagio erano un po' cenerentole messe nelle cucine della corte, ma comunque accettate nella corte dalla società. Oggi, invece, marginalità, disagio e situazioni di privazione è come se non avessero alcuna cittadinanza. Io vedo veramente fenomeni di violenza e di ferocia sociale spaventosa. E' un po' come se oggi si dicesse: "se sei povero, se non ce la fai, se hai problemi sono fatti tuoi, vuol dire che non sei stato bravo abbastanza, non ti sei impegnato a sufficienza". E quindi la legittimazione della distanza sociale è in chiave fortemente darwinista, a differenza di quella che era l'ideologia liberale dello stato borghese negli anni '60 e '70. Qui sembra venir fuori proprio lo scenario dei film americani, per cui o stai nei quartieri residenziali o stai nei ghetti, se stai nei ghetti sei uno sfigato perché non ce l'hai voluta fare. La situazione di disagio economico sta diventando quasi un elemento di vergogna e non un elemento di spinta per una lotta per cambiare la situazione: questo da parte degli stessi soggetti interessati.
D'altra parte, le reti che oggi sono dentro l'impegno sociale e l'impegno politico sono reti (penso anche ai centri sociali, che è una realtà che conosco abbastanza bene perché li ho seguiti) che recuperano soprattutto sul piano della convivialità o della socialità, ma non recuperano sul piano dell'impegno. Tu puoi avere gente che va ai Murazzi tutti i venerdì e i sabati come va al Leoncavallo o può andare allo Zapata, ma questo non significa minimamente che poi queste persone non dico che non si mobilitino attivamente, ma apprendano e interiorizzino un'altra visione del mondo e del rapporto tra sé e il mondo. Faccio un altro esempio: in questi anni sto lavorando sulle culture espressive della musica, tutti i fenomeni legati alla musica, il suonare, l'ascoltare, la dance, e quindi adesso, se riuscirò a riprendermi e soprattutto se la mia testa non va dove non deve andare, farò il libro che ho in mente da tre anni e che si chiama "Il gioco il rischio il piacere - giovani e correlazioni pericolose", e mi sto occupando di ecstasy e dintorni. Una cosa che ti colpisce è che in qualunque luogo di aggregazione giovanile tu vada e soprattutto in certe aree ci sono grosse concentrazioni di ecstasyati: è così nel nord-est, in Lombardia, proprio questo inverno ho fatto molte verifiche nel bresciano; ma se no generalmente vedi molta diffusione di fumo. Diciamo che ormai l'uso di sostanze, di additivi, è entrato nei riti e nei comportamenti e non soltanto legati alla musica, ma in generale di convivialità delle nuove generazioni. Questo, però, non sposta minimamente di tanto così un impegno dei giovani, per esempio, sul fronte dell'antiproibizionismo. L'ultima indagine sostiene che la maggior parte dei giovani intervistati tra i 15 e i 34 anni dichiara che è giusto penalizzare l'uso delle sostanze, e magari sono gli stessi che ne fanno uso. Ossia, neanche per comportamenti che riguardano più da vicino grandi masse di persone, almeno occasionalmente, c'è la voglia di una presa di posizione che in qualche modo si orienti verso "questa regola non ci piace, cambiamo la regola del gioco". No, "la regola rimane, noi cerchiamo di trasgredirla o di aggirarla". Insomma, ci troviamo di fronte a un mondo dato per scontato e a una rappresentazione dell'io che si deve plasmare secondo quelle che sono le indicazioni del momento e del mondo. Con gravi costi poi per le soggettività individuali, infatti non a caso aumenta l'area del malessere, e c'è un uso di sostanze legali come gli psicofarmaci come mai si è verificato nella storia. Però, non importa, a qualsiasi costo le persone vogliono in ogni caso rappresentarsi come coloro che ce la possono fare o ce la fanno. Questo discorso che sto facendo a voi è un discorso che, per esempio, io non riesco mai a fare con nessuna delle persone impegnate politicamente. Quasi ancora oggi ci fosse una frattura tra chi è nell'area dell'impegno e della militanza, e allora fa le grandi letture generali sui destini del capitale, della finanziarizzazione ecc., e altri che lavorano solo su quelle che un tempo si chiamavano le mosche cocchiere del movimento, cioè solo su alcuni comportamenti d'avanguardia, mentre negano o non accettano queste cose, con l'accusa di sociologismi: certo, io faccio anche la sociologa, ma questa mia analisi non deriva tanto da una mia presunta capacità professionale, ma deriva da una persona che, essendosi abituata dall'età dei 14 anni a pensare al rapporto tra io e il mondo, ancora oggi lo guarda e lo cerca negli occhi delle persone che sono davanti a me o che sono intorno a me.

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