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INTERVISTA AD ALDO BONOMI - 17 OTTOBRE 2000 |
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Una seconda cosa è che mi sono reso conto che probabilmente rispetto agli anni '70 c'erano state due cose che avevano scavato nel mio profondo, e anche qui riemerge il sentire e non più il processo razionale: il primo processo è che io mi sentivo e, devo dire, mi sento ancora oggi responsabile, anche se so benissimo che dal punto di vista del diritto le responsabilità sono individuali e ognuno ha risposto negli anni '70 a quello che individualmente ha fatto; ma dal punto di vista politico le responsabilità sono collettive, e quindi io mi sentivo responsabile della sconfitta di una generazione, o sconfitta di un desiderio politico. Perché è inutile dire palle, alla fine degli anni '70 quel grande movimento tumultuoso dentro al quale ci stava di tutto (dal radicalismo politico al terrorismo alla lotta armata alle ambiguità ecc.), nei fatti era finito ed era sconfitto. Quindi, una responsabilità politica di silenzio della politica che ho mantenuto da allora, tanto è vero che io da dopo gli anni '70 in avanti non ho più fatto politica nel senso tradizionale del termine, nel senso di percepirmi come un soggetto dell'autonomia del politico. Questo a differenza di molti altri che avete intervistato, penso ad esempio a Toni Negri o ad altri che hanno comunque continuato ad essere soggetti di riferimento nell'autonomia del politico, io ho scelto la strada del silenzio rispetto a questa cose. Ho scelto la strada del silenzio e della riflessione. Nello stesso tempo ho cominciato a riflettere su dove si era sbagliato e fondamentalmente mi era parso che noi avevamo guardato (per usare un linguaggio a me caro oggi e che allora non avevo) solo alla punta della piramide, alla punta molto alta, con un chiaro concetto socialdemocratico (ciò inteso in senso proprio): avevamo guardato solo alla punta della contraddizione delle dinamiche produttive, avevamo osservato molto bene la Fiat, avevamo osservato molto il capitale, avevamo osservato addirittura (ci si figuri) le forme dello stato imperialista delle multinazionali, cioè quella dimensione di vertice rispetto ai processi. Avevo chiara la sensazione che molto della sconfitta stava nei fatti di non aver saputo osservare il cambiamento reale che in questi anni era avvenuto sotto i nostri occhi. Quindi, noi guardavamo alla punta della piramide pensando che nella punta della piramide lo scontro tra questi due soggetti antagonisti e soggetti del capitale, lo scontro tra capitale e lavoro insomma, avrebbe determinato fino in fondo i cambiamenti, mentre invece i processi di ristrutturazione erano cambiati. Emblematico è che noi avevamo guardato alle lotte alla Fiat, all'occupazione della Fiat, anche al corteo dei capi che era stato l'esatta simbologia rovesciata di questo processo, ma il vero problema è che mi resi conto allora che dentro le mura il processo era svuotato e i veri processi reali erano avvenuti fuori dalle mura. Fu allora che capii che se lavoro poteva essere fatto era quello di ricominciare battendo il territorio, quindi introducendo questa categoria. Devo dire che ho razionalizzato negli anni dal punto di vista di una teoria queste cose qua, se lo penso negli anni '80 è stata una scelta molto più a naso, molto più spontanea. Tanto è vero che, finita questa esperienza, avendo memoria dell'esperienza di sociologia di Trento, mi rivolsi agli unici ambienti che potevano accogliere soggetti un po' disperati, e questi in quell'epoca erano fondamentalmente un mix di ambienti cattolici e ambienti tolleranti della cultura sindacale o altro: le due figure di riferimento con cui incominciai a ragionare furono fondamentalmente l'esperienza della Corsia dei Servi e Sandro Antoniazzi che era allora segretario della CISL. Questi mi diedero un "lavoro" all'Enaip, ci si figuri, quindi un ente di formazione professionale, come si aiuta un reduce, un soggetto sconfitto da questo punto di vista. Mi ricordo che, proprio partendo da questa intuizione, incominciai negli anni '81-'82 a fare l'operatore di comunità, lo feci per conto dell'Enaip in una vallata alpina a Campo Dolcino, sono stato due anni a insegnare ai montanari come bisognava fare lo sviluppo locale: quindi, si pensi un po', un soggetto che aveva pensato di cambiare il mondo che poi si ritrova in una vallata alpina a parlare di piccoli frutti, di allevamento delle capre, di agriturismo, di problemi di questo genere. Però, ciò ovviamente dentro un problema di sviluppo locale, che erano processi diametralmente opposti al problema della grande fabbrica, della grande impresa, dei grandi conflitti, delle grandi polarità ecc. Soprattutto un ragionamento di questo genere andava nella direzione delle periferie, non più nella direzione del centro: infatti, abbandonai anche fisicamente Milano e Torino, che erano l'epicentro, i luoghi dove si leggevano questi processi, e cominciai a fare per due anni questa esperienza di operatore di comunità. Dentro a questo discorso incominciai a ragionare sulla categoria dello sviluppo, lo sviluppo locale, le forme di riaggregazione dei soggetti, le forme comunitarie. Ovviamente il tutto con uno iato fortissimo con le categorie precedenti, che erano fondamentalmente classe e conflitto.
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