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INTERVISTA AD ALDO BONOMI - 17 OTTOBRE 2000


Su quello nascevano delle leggende metropolitane, tutti quanti a dire "ma chi cavolo è l'AASTER?"; so anche che i cattivi dicono "dove pigliano i soldi questi che sono uno dei più grossi istituti di ricerca?" ecc. Li si lasci dire, i soldi vengono dai committenti, dalle cose che facciamo, dai nostri percorsi, non mi sono mai preoccupato di queste cose. A Milano però vivo molto poco dal punto di vista culturale e sociale, anche perché credo che Milano sia la città in cui maggiormente si è sviluppata la modernità e l'anomia, mentre a Torino hanno ancora retto alcuni processi qui non è così. Tanto è vero che a Milano poi i miei ambiti di riferimento sono la Camera di Commercio, dove ogni anno studio il rapporto in cui cambia la composizione sociale e scrivo per tale rapporto, l'AASTER, che è un punto di riferimento e di lavoro: però, Milano è il luogo del lavoro, non è il luogo della socializzazione di queste cose, lo è molto di più Torino. Poi, andando avanti, un'altra rete che si è creata è la Fondazione Micheletti a Brescia, dove incominciammo a lavorare sui problemi della Lega, il leghismo ecc., con Pier Paolo Poggio, che è uno storico e ci chiamò a raccolta su questo. Poi nel nord-est c'è Enzo Rullani e una struttura di riferimento, e ultimamente anche nel Friuli Venezia Giulia. Questo è un asse di lavoro che è rimasto sulla questione settentrionale, con in più alcuni punti di riferimento nel Mezzogiorno d'Italia, saltando in parte Roma che è stato solo il luogo di osservazione rispetto all'esperienza del CNEL, c'è Napoli con cui lavoriamo. Quindi, questa è la rete in cui ci muoviamo. Se si può sorridere, anche qui dal punto di vista della passione, uno o due mesi fa è venuto qui Folena dicendo: "Sappiamo che voi siete i più bravi e tu sei il più bravo sulla questione settentrionale e sui grandi cambiamenti: vogliamo capire che cosa è successo". Niente da dire se non la miseria di un ceto politico che arriva quando i buoi ormai sono scappati dalla stalla: è chiaro che nella questione settentrionale la questione per la sinistra socialdemocratica è persa ormai, si tratta di continuare un lavoro di lunga lena, di lunga deriva su questi grandi processi e andare avanti.
Quindi, come si vede, molta passione ma un giudizio di sintesi in cui coniugo quelle che sono state le sofferenze degli anni '70, i sogni, i desideri e le tante cose imparate, l'attraversamento solidale degli anni '80 e il ricominciare a fare cultura negli anni '90. La storia è proprio questa, è una storia minuta, piccola, credo anche di dignità. E' una storia che, siccome ha avuto un po' di successo, causa il fatto che tutti quanti si chiedono come si faccia ad andare dalle galere alla pagina de il Corriere della Sera: lo si fa semplicemente stando sui processi reali e avendo delle cose da dire, senza vendersi e senza svendere nessuno.


Nel dibattito sul cosiddetto postfordismo si è posta una grande attenzione ai processi di trasformazione capitalistica; un nodo che a livello generale è stato toccato meno è quello dell'organizzazione. Ad esempio tu prima parlavi della scelta della forma impresa, quindi affrontavi la questione dell'organizzazione della ricerca. Da questo punto di vista, come si può iniziare ad affrontare tale nodo?

La sintesi a cui sono arrivato io nel dibattito su fordismo e postfordismo è molto semplice, l'ho anche scritta: io credo che il vero problema sia la farfalla del postfordismo. Si tratta di questo animale strano che ha queste ali che si dispiegano, in cui le due ali del '900 erano fondamentalmente capitale e lavoro da una parte e Stato e mercato dall'altra, le due ali della farfalla erano queste per tutto il secolo scorso. Questi due paradigmi sono quelli degli anni '70, sono passati trent'anni e credo che i paradigmi ci siano ancora tutti, però oltre a questi due vanno introdotti due paradigmi assolutamente nuovi che sono da una parte territori; tra capitale e lavoro si insinua prepotentemente la dimensione territoriale perché più globale corrisponde a più locale, perché le fabbriche non sono fabbriche da capitalismo urbano industriale ma territorializzate (uso i termini del '900 per spiegare queste cose qua), perché la competizione viene fatta tra sistemi territoriali e non più tra sistemi di impresa e anche perché (altro dato che nessuno vuol dire ma bisogna farlo) i meccanismi dei lavori si dispiegano e non in una dimensione fabbrichista: come dice il sociologo tedesco Ulrich Beck, i nomadi multiattivi stanno sul territorio, sia i precari che le partite Iva eccellenti fanno questi discorsi qua.

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