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INTERVISTA AD ALDO BONOMI - 17 OTTOBRE 2000 |
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Quindi, in un mix anche qui sincretico, di sincretismo tra esperienza del territorio ed esperienza della radicalità politica, in cui però il territorio e la mia esperienza di azione di comunità rimettevano in discussione le categorie precedenti. Ovviamente la dimensione del silenzio aveva un concetto molto preciso: nonostante tutto io non avevo dimensioni etiche di cui pentirmi rispetto a quegli anni, nel senso che ne ho viste tante, ho visto magari anche cose che non si raccontano perché comunque oggi non c'è ancora una riflessione critica su tali questioni e appartengono ancora agli scontri tra commissioni stragi, balle e fantasie di questo genere ecc. Scelsi la via del silenzio ma del silenzio con dignità, cercando di aiutare questa generazione che arrivava da questo punto di vista. Mentre io ero a Campo Dolcino l'unica militanza politica che mantenni ancora la ricordo con molto affetto, fu la militanza politica con Primo Moroni, che poi è stata una delle figure con cui ho attraversato molto spesso gli anni '70. Anche perché dopo l'esperienza di Controinformazione dove fui arrestato fondamentalmente mi occupai di strutture di servizio, la Calusca era una struttura di servizio così come Libri Rossi, cioè erano quelle strutture che stavano dentro il movimento senza essere protagonisti ma con una dimensione culturale, ciò dal '75 in avanti. Anche perché probabilmente, essendo stato uno dei primi che ha visto la dimensione della galera rispetto alla lotta armata, forse ho anche capito prima (adesso questo non lo voglio dire) che forse quella era la strada. Perché dopo il '75, quando sono uscito di galera, le soluzioni erano molto semplici, o te ne stavi zitto e da una parte oppure andavi in clandestinità: siccome io in clandestinità non ci sono andato la scelta era molto chiara. Anche questo provocando magari sospetti, critiche, "ma come, questo se ne rimane qua mentre invece la rivoluzione è alle porte?": forse avevo capito che la rivoluzione non era alle porte già allora. Però, non lo so, non lo posso dire perché non ho mai nemmeno scritto né altro su questo. Comunque, in quegli anni lì, cioè negli anni '80, con Primo Moroni riprendemmo in parte in mano Controinformazione, da cui ero uscito dopo il carcere, e Controinformazione di quegli anni se si vuole era un giornale che aveva incominciato ad anticipare la fine di questi processi e diceva "va be', cerchiamo di uscirne al meglio", era quello che si poneva già il problema del carcere, il problema della soluzione politica. Ci si ricordi che erano gli anni feroci del dibattito tra quelli del 7 aprile, "Do you remember revolution?", e i puri e i duri dall'altra parte, in cui se ne dicevano di cotte e di crude; erano gli anni in cui ci si scannava dentro le carceri tra queste posizioni, non erano cose facili da questo punto di vista. Allora, il problema era cercare un punto della mediazione (vedete che ritorna fuori una parola di questo genere rispetto a queste cose qua), questo furono gli ultimi numeri di Controinformazione, i quali ragionavano sia con Rossanda che con Toni Negri e ragionavano anche con gli irriducibili. Una mediazione senza forza tra parentesi, perché poi la mediazione era portata avanti da due sciagurati come me e Primo Moroni che non avevano dietro niente, non erano soggetti dell'organizzazione. Però, da questo punto di vista era una mediazione culturale, perché il problema era come si chiudeva mantenendo dignità. Questo mi pare che sia il quadro generale.
Sempre da questa esperienza di due anni di lavoro di territorio capii due cose. Prima cosa, siccome credo di non essere scemo, è ovvio che anche andando in una dimensione periferica come questa alcune cose le intuii: intuii che mancava una connessione tra quelli che erano i bisogni sul territorio e i processi di sviluppo che venivano dall'alto. Quindi, mi immaginai una figura di raccordo tra dimensione locale dello sviluppo, dimensione locale dei soggetti e, diciamo così, i processi alti dello sviluppo. E mi immaginai questa figura professionale dell'agente di sviluppo del territorio che era fondamentalmente un soggetto che andava nel territorio e non più nelle fabbriche (attenzione, questo è veramente importante, fuori dalle mura), e che partendo da questa dimensione territoriale riconnetteva la domanda sociale o anche il conflitto sociale (non sono parole che mi fanno paura), o il conflitto o la domanda o l'inclusione, le tre grandi variabile, rispetto ai processi più generali di ristrutturazione e di cambiamento. Studiai questa figura professionale e, partendo da lì, feci una prima esperienza di formazione di quelli che non si chiamavano ancora agenti per lo sviluppo del territorio, questa sarà una denominazione che gli darà la Comunità Economica Europea negli anni successivi, feci un progetto di tecnici per lo sviluppo del territorio.
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