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INTERVISTA A MARIA GRAZIA MERIGGI - 21 APRILE 2000 |
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Facciamo un esempio: se a Milano noi andassimo a vedere cosa succede alle Camere di Commercio, la vita e la morte delle imprese, troveremmo che c'è un livello di mortalità incredibile; analogamente, nell'ultimo piccolo calo di Borsa, pensionati di ceto medio, impiegati, operai lombardi con decine di ore di straordinario al mese, artigiani hanno perso un sacco di soldi con cui progettavano di "far stare meglio" i propri figli. Tutte queste cose, per altro, da un punto di vista capitalistico sono un segno di vitalità. C'è un bellissimo libro di Gianni Arrighi che consiglio di leggere, "Il lungo XX secolo": spiega che la vitalità capitalistica non è affatto smentita dalle disgrazie individuali. Quando sono cominciati i grossi investimenti di capitale nei grandi commerci londinesi, erano molte le false imprese, cioè quella che andavano a scoprire l'oro ai Caraibi, l'albero del pane in Groenlandia (faccio degli esempi scherzosi, ma il processo è reale) e cose simili. La Borsa di Londra ha esordito con una serie di crolli, ma la forza e il potere straordinario che dava al commercio inglese avere dietro le spalle lo Stato inglese (perché il capitalismo non è mai nato dagli spiriti animali e basta) indicava che proprio quell'effervescenza era il segno di un'estrema vitalità. Però, se ci resti dentro, incastrato in questa vitalità, sei "mazzolato". La situazione attuale, con questa continua generalizzazione dei contratti di lavoro e delle forme contrattuali precarie, a vario titolo, anche in settori che non lo erano mai stati, persino nel pubblico impiego, con l'estrema fragilità delle nuove imprese di servizi, rispetto alla solidità delle grandi imprese, crea uno stato di allarme continuo, che per altro il liberalismo teorizza come l'unica condizione che sviluppa la ricchezza sociale: non è che lo stiamo scoprendo adesso, è dal '600 che viene detto. Questa ansia socialmente determinata è diventata una condizione di massa, tendenzialmente, però in presenza di una situazione non di indigenza totale, perché, per fortuna, la fame è sempre più rara, anche se c'è (il pensionato al minimo ha fame anche oggi e anche a Milano). Ad un certo punto era venuta fuori la società dei due terzi; quella dei due terzi, però, non è una società in cui questi sono sicuri di stare sempre in tale posizione: alcune sventure professionali, un'assicurazione che non paga, due anni di lavoro meno florido possono far passare non voglio dire proprio da dirigente a barbone come avviene negli Stati Uniti, in quanto prima di arrivare lì ne deve trascorrere del tempo, e devono probabilmente intervenire delle rotture politiche più definitive, però c'è sicuramente c'è un andirivieni rispetto al benessere che rende le persone estremamente insicure. Questa insicurezza probabilmente ha due facce. Una è la rivendicazione dell'insicurezza come forma dell'autoimprenditorialità, la quale, in verità, è più un'immagine di sé che una realtà, perché in moltissimi casi l'autoimprenditore è un lavoratore parasubordinato; però, l'introiezione del modello liberistico è come una reazione nevrotica a questa continua pressione della flessibilità. Poi esiste l'altra faccia, costituita da quelle figure operaie che ancora godono di certe garanzie, in alcuni casi ma non in tutti, perché c'è molta precarietà o comunque contratti a termine e a varie forme anche nelle imprese manifatturiere tradizionali. Però, certamente lì c'è piuttosto uno scarto tra una capacità conflittuale sul salario, ancora forte, e una totale perdita di controllo sulle condizioni del lavoro. Questo (è banale dirlo, ma ciò non vuole dire che sia meno vero) dà una proiezione di tale frustrazione sulle figure di minor resistenza, quindi il razzismo e il culto del lavoro come fatica, che tra l'altro dalle nostre parti è stato sempre presente, ma che può venire incorporato in una cultura operaia del lavoro come miglioramento di sé, crescita, esperienza o può invece degradare a cultura comunitaria che esclude gli estranei. Qui potremmo entrare in un discorso che riguarda più strettamente il mio lavoro. Io ho fatto uno studio e un saggio sulle forme di sociabilità nelle società tradizionali e nella modernità, in cui la figura del partito, cioè dell'associazione volontaria, ha dato un paese, una patria alle figure spiazzate dalle emigrazioni della prima e della seconda industrializzazione, contrapponendo quindi due forma di comunità. Una è quella mobile, inclusiva, che era quella del lavoro, e questo non detto ideologicamente: adesso sto cercando di verificare come si formano questi processi negli anni dal '40 al '50 dell'800, con dentro il '48, negli operai di Parigi e del nord, mi sembra molto importante vedere questa dimensione aurorale. L'altra è quella territoriale, etnica, di paese, di condivisione dei pregiudizi, che oggi diventa mito regressivo (il culto del locale si alimenta nei paesi attraversati dalle grandi strade di scorrimento delle merci in Lombardia e Veneto, in cui la "piazza" è rappresentata dal centro commerciale! dunque si tratta di un culto del tutto ideologico).
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