Quello che segue è un testo prodotto quasi immediatamente dopo la lettura dell’opuscolo in questione. Il libretto, distribuito per la prima volta al corteo del 10 maggio a Torino in solidarietà a Chiara, Mattia, Niccolò e Claudio, costituirebbe la prima parte di un lavoro più ampio che dovrebbe essere pubblicato a “puntate”. Questa Parte 1, in seguito probabilmente ad altre critiche, è stata modificata e ri-pubblicata. La nuova versione sostanzialmente sostiene le stesse tesi dell’originale, ma si prende cura di modificare, laddove è possibile, in maniera più digeribile le affermazioni riguardanti alcune espressioni della lotta contro questo sistema, che evidentemente agli autori non piacciono proprio. Laddove risulta impossibile cambiare la parti più controverse senza snaturare il filo stesso del discorso (se non probabilmente tramite degli excursus storici più approfonditi), quelle sono state tagliate del tutto. Alcune, invece, messe in discussione dallo scritto che seguirà, sono rimaste tali e quali. Come nel “testo-risposta” originale vengono qui riportate per intero le parti in oggetto, l’opuscolo modificato risulta reperibile presso gli autori stessi. Ho deciso di pubblicare comunque lo scritto di critica, uscito in un primo momento in maniera più informale, perché ritengo che gli argomenti in questione siano molto vivi ed importanti e che il nascere e proliferare di certi pensieri, a mio giudizio approssimativi e “viziati”, non cessi attraverso la parziale modifica di un opuscolo. Ritengo la critica e l’analisi elementi fondamentali alla lotta, in un’ottica di accrescimento individuale e collettivo, e non terreni su cui sfidarsi tra le varie ed eterogenee realtà che combattono questo mondo. Un dibattito non risulta più interessante se sancisce un “vincitore”, né tantomeno trovo efficace parteciparvi con la prospettiva di uscirne “inattaccabile”. Gli eventi incalzano, ognuno matura le proprie considerazioni e prospettive, ma la paura di non trovarsi d’accordo deve lasciare definitivamente spazio a delle sane assunzioni di responsabilità rispetto alle proprie azioni e alle proprie parole. L’assunto centrale della critica, a mio parere, dovrebbe prendere in considerazione i contenuti e il carico emotivo di uno scritto o di un gesto, non il “marchio di fabbrica”. Solo così i discorsi di chi lotta per l’abbattimento dello Stato e del Capitale saranno fonte di ispirazione per chiunque scelga di intraprendere questo cammino nelle sue numerose accezioni, anziché motivo di paralisi all’interno del circoscritto circuito militante.

A coloro che dicono “l’odio non genera amore”, rispondete che è l’amore, vivo, che spesso genera l’odio. L’odio che non poggia su una bassa invidia, ma su un sentimento generoso, è una passione sana e potentemente vitale. Più amiamo il nostro sogno di libertà, di forza e di bellezza, più dobbiamo odiare ciò che si oppone al suo avvenire. Emile Henry (da un manifesto in solidarietà a Claudio, Mattia, Niccolò e Chiara) E’ vero che gli uomini non sono che il prodotto delle istituzioni; ma queste istituzioni sono cose astratte che esistono solo fintanto che ci sono uomini in carne ed ossa per rappresentarle. Non c’è quindi che un modo per colpire le istituzioni cioè colpire gli uomini; ed accogliamo con felicità tutti gli atti energici di rivolta contro la società borghese, perché non perdiamo di vista il fatto che la rivoluzione non sarà che la risultante di tutte queste rivolte particolari.

Emile Henry (da un manifesto in solidarietà a Nicola e Alfredo)

A proposito dell’opuscolo “No TAV, Terrorismo e Contro-Insurrezione. Parte 1. Welcome to the Terrordrome. Smontare il discorso sul terrorismo”

Nei giorni immediatamente successivi al corteo del 10 maggio a Torino in solidarietà ai quattro arrestati e accusati di terrorismo per un attacco al cantiere del TAV in Val Susa ho ricevuto due opuscoli riguardanti la questione. Uno è intitolato “Il Compressore” in riferimento ad uno dei macchinari bruciati durante i tanti sabotaggi al cantiere e l’altro è proprio il suddetto libello. Parlerò in prima persona, ovviamente non per darmi particolare importanza, ma perché si tratta di riflessioni che mi accompagnano da un po’ e la lettura di alcuni testi mi spinge con urgenza a metterle nero su bianco. Ho trovato “Il Compressore” un lavoro interessante e curato, sicuramente non fruibile da chiunque e parziale nella scelta dei riferimenti storici. Credo che un proprio modo di esprimersi e di selezionare elementi dal passato a proprio piacimento sia assolutamente inevitabile e legittimo, nel momento in cui non si manifesta una volontà nel concorrere alla costruzione di una verità assoluta e inconfutabile. Al di là di tesi differenti riguardanti gli avvenimenti più recenti, di cui ho preso atto già da un po’, personalmente non mi pare di ravvisare un qualche intento puramente giustificatorio, se non addirittura politicamente opportunista. Dico questo perché devo, invece, purtroppo ammettere che, per quel che riguarda l’opuscolo in questione, l’estrema ansia che accompagna appunto questa, pur legittima volontà appunto di smontare il discorso sul terrorismo, mi ha portato, almeno per tutta la prima parte, a provare sensazioni di fastidio, disappunto e noia. Non mi è mai per nulla piaciuto alimentare “polemiche”, soprattutto “mediatiche”, ma questo libretto è uno scritto pubblico che tocca temi molto delicati che coinvolgono persone che sono o sono state agli arresti con pesanti accuse, quando non addirittura persone che lottando hanno perso la vita. Un dibattito diffuso sulla questione del sabotaggio e dell’attacco e su come lo Stato o gli Stati a seconda delle fasi storiche e sociali affrontano questo loro problema sarebbe molto interessante, esclusivamente qualora le varie analisi non siano viziate dal classico velleitario tentativo di portare acqua al proprio mulino (aggiungo, a discapito di quello degli altri interpreti della lotta contro questo esistente). Le principali motivazioni che mi inducono a scrivere questo testo sorgono proprio qui. Quello che mi disturba non è certo leggere analisi o prospettive diverse dalla mia e di coloro coi quali condivido alcuni percorsi. Quello che rende impossibile un dibattito sano, rilassato e costruttivo è l’utilizzo, a mio parere, di palesi strumentalizzazioni e mistificazioni della realtà storica e contemporanea. Mi sono avvicinato da ragazzino a certe riflessioni e conseguenti pratiche anche proprio per l’insofferenza che provavo e provo verso l’autoreferenzialità, la strumentalizzazione e la parcellizzazione degli eventi che compongono il tessuto sociale da parte di chi si dota di una voce per trasformare la realtà a proprio tornaconto (prerogativa, qui siamo d’accordo, del Potere). Onestamente, pur rifuggendo come la peste ogni velleità analitica omnicomprensiva, trovo squallida ogni forma di revisionismo sia esso mirato alla conservazione piuttosto che alla rivoluzione. Nel frangente storico che stiamo vivendo credo sia veramente l’ora di lasciare da parte le giustificazioni e di intensificare il contrattacco, soprattutto di fronte ai fendenti sempre più precisi della repressione (la videoconferenza per i detenuti in AS2 potrebbe essere un passaggio cruciale). Il coinvolgimento più ampio possibile e la chiarezza assoluta rispetto alle nostre azioni è sempre stato certamente uno dei miei obbiettivi. In ogni caso, cosa sia giusto e cosa sia sbagliato penso (proprio perché non mi ritengo né superiore né inferiore a nessun altro) che ognuno abbia gli strumenti idonei per stabilirlo per sé stesso. Non possiamo essere noi i primi ad impiegare la maggior parte del nostro tempo a giustificarci rispetto alle accuse arbitrarie, per loro stessa natura in quanto appartenenti ad un codice penale, che politici, magistrati e giornalisti ci rivolgono. Mi piacerebbe vedere scritti che informano e spronano all’offensiva, che donino ulteriore dignità alle azioni dei ribelli, anziché sminuirle o addirittura delegittimarle. Lo Stato, sì, usa ogni mezzo necessario per annientare o annichilire chi si rivolta; noi, penso che dovremmo continuare ad alimentare quella ricerca fondamentale delle pratiche di attacco, in una corrispondenza costante tra i mezzi e i fini, senza assolutamente permettere che il nemico (sì, per me lo è) ci condizioni in questo con le sue accuse o persino avvalorando le linee di demarcazione che cerca di insinuare tra le varie sensibilità e pratiche di lotta.

Non ritengo opportuno in questa sede (e onestamente me ne frega anche poco) disquisire su cos’è il sabotaggio, l’azione diretta, quali sono gli strumenti leciti o illeciti, quanto costa riparare un generatore di corrente elettrica piuttosto che la rotula di una persona (bisogna vedere se è assicurata o no!). Quello che mi preme è porre l’accento su alcuni passaggi tratti dall’introduzione e da un paio di paragrafi (che riporterò per intero, per chi non avesse l’opuscolo a disposizione) che trovo appunto evidentemente mistificatori della storia delle lotte, strumentali al fine di sostenere una tesi aprioristica, ma soprattutto, poco attenti e rispettosi delle vicende passate, presenti e future di individui in rivolta contro l’esistente che si sono trovati, si trovano e si troveranno in situazioni analoghe a Mattia, Chiara, Niccolò e Claudio. In quanto da parte mia, per quello che può valere, questi ultimi riceveranno sempre solidarietà e complicità, trovo miope e controproducente per tutti noi e per loro stessi, formulare dissertazioni sulla loro vicenda in un’ottica puramente difensiva e avulsa dai contesti di lotta (inclusa la stessa contro il TAV) degli altri prigionieri di ogni tempo e luogo.
Riporto, quindi, un estratto dall’introduzione e i 2 “capitoli” in oggetto:

“Come siamo arrivati a dover assistere a un processo per terrorismo contro quattro ragazzi che, se viene dimostrato dall’accusa, avrebbero al massimo sabotato un compressore, una macchina che costerà alcuni migliaia di euro? Ricordiamo che non c’è stato nessun ferito, e che nessun sentimento di paura di massa si è verificato dopo il sabotaggio. Anzi si sono visti parecchi sorrisi in Valle come in città alla lettura della notizia il giorno dopo. La notte del 13 maggio 2013 c’è stato un sabotaggio come ce ne sono stati milioni da quando esistono macchine, in tutte le fabbriche, cantieri e città del mondo. Perché allora questo viene chiamato “terrorismo”?

Dal Capitolo 1: “Genealogia del terrorismo e dell’antiterrorismo”

“Terrorismo” e spettacolo

Fin dall’inizio il discorso antiterrorista, come l’atto di terrore del resto, è prima di tutto uno strumento propagandistico, cioè la diffusione di affetti di massa. Si basa sulla costruzione di figure, sulla circolazione di immagini, sull’emissione di emozioni in larga scala. Perciò questo tipo di discorso era impensabile prima dell’esistenza da un lato di strumenti di diffusione di massiva di informazione e dall’altro di un pubblico sufficientemente impaurito, passivo e separato dall’esperienza.
La caccia al “terrorista”, da questo punto di vista, è speculare all’atto del “terrorista”: è innanzitutto una dimostrazione, un gesto spettacolare destinato a imprimersi nelle menti. Come Al-Qaeda ha bisogno delle televisioni di tutto il mondo per ripetere all’infinito e dovunque le immagini delle torri gemelle che crollano, il governo statunitense ha bisogno di immagini ugualmente forti di invasioni militari e di bombardamenti a tappeto in Medio-Oriente. Senza media, senza mediazione di tutti i rapporti sociali tramite immagini, niente terrorismo, niente antiterrorismo. Si rivela ancora una volta il carattere spettacolare delle società del capitalismo avanzato.
Alcuni nemici dello Stato, del capitalismo o dell’Occidente accetteranno di muoversi sul suo stesso terreno. Non è del tutto vero che non esistono terroristi al di fuori del terrorismo di Stato, che si tratta di una pura invenzione del discorso antiterrorista. Bisogna stare attenti a non cadere in interpretazioni dietrologiche o complottiste quando si parla di queste cose.
Sono esistiti, esistono e c’è anche chi si rivendica addirittura terrorista entrando totalmente nel gioco dello Stato, esibendosi su un palco preparato appositamente. Alcuni rivoluzionari russi di fine Ottocento si sono chiamati terroristi, dando un’accezione positiva al termine. Altri, senza rivendicare il termine, hanno messo in atto la pratica del terrore, con bombe, massacri e stragi. Uno si può sempre dichiarare rivoluzionario, ma se usa le stesse pratiche del terrore di Stato e subordina i mezzi al fine, cessa di fatto di esserlo.
Il discorso antiterrorista cerca di creare confusione, ma per chi lotta quotidianamente, per chi ha i piedi per terra, non è difficile riconoscere quali gesti sono dalla parte della lotta e quali gesti sono di fatto parte dell’ordine, che siano opera di uno sbirro, di un fascista, di un nichilista o semplicemente di un idiota.

Gli anni ‘70: la specificità italiana

L’Italia ha una storia particolare per quanto riguarda l’uso della categoria di terrorismo. L’ultimo processo rivoluzionario notevole in Europa ha avuto luogo in Italia ed è stato annientato grazie in parte a questo strumento. Da lì vengono tutti i riferimenti odierni agli anni ‘70, sistematicamente chiamati “anni di piombo”, “anni bui”,
“stagione di sangue” – tutti termini della storiografia ufficiale che non rispecchiano per niente l’atmosfera di quegli anni, i quali sono anche stati anni di gioia, entusiasmo, euforia. Dall’autunno 2013, il gioco preferito di alcuni giornalisti sembra quello di provare ad accostare più volte possibili le parole “No TAV” con le parole “Brigate Rosse”, provando così a far coincidere due mondi lontani anni luce e costruendo a questo scopo montaggi e distorsioni di senso degni dei maestri del surrealismo o del teatro dell’assurdo.
L’Italia si è affermata come laboratorio di avanguardia per il terrorismo di Stato come per l’antiterrorismo come strumento contro-insurrezionale. Dalla fine degli anni ‘60 all’inizio degli anni ‘80, la penisola conosce al contempo un uso brutale del terrore da parte dello Stato e un uso dell’accusa di terrorismo contro chi lotta contro lo Stato. La confusione creata apposta per eliminare l’onda rivoluzionaria che attraversa il paese viene tuttora mantenuta dalla narrazione dominante su quel periodo. Eseguito dalla mano dei fascisti, dei servizi o degli sbirri, il terrorismo italiano è stato prevalentemente un terrorismo di Stato. Non significa che dietro tutte le azioni armate ci fosse lo Stato o i servizi, come viene sostenuto dal dietrologismo, malattia rampante frutto della confusione organizzata in quegli anni che continua purtroppo ad esistere sotto forma diffusa.
Un teorema assurdo e raramente verificato giustifica i richiami odierni alla stagione della lotta armata da parte di politici, giornalisti e magistrati. Si potrebbe formulare così: il sabotaggio, l’azione diretta, la violenza contro le cose porterebbero per forza ad un’escalation verso la violenza contro le persone e l’uso delle armi. In sostanza: chi oggi tira una pietra o sabota una macchina domani ucciderà e metterà le bombe dappertutto. Non si contano più gli articoli di giornali o le dichiarazioni di politici che dicono: non sono certo tornati gli anni di piombo, ma sono dietro l’angolo, perché si inizia così e poi… Sarebbe urgente smontare questo tipo di teorema, nonsenso storico quasi assoluto. Anche se esistono rari esempi di individui o organizzazioni passati dal sabotaggio all’omicidio, la linea etica che divide questi tipi di pratiche è quasi sempre stata netta e chiara. Sono d’altronde due opzioni politiche diametralmente opposte. Istintivamente o coscientemente, il sabotatore identifica con grande lungimiranza nella macchina, nell’apparecchiatura tecnica, nell’infrastruttura materiale, la concretizzazione della logica che lo opprime e agisce di conseguenza. Il militante armato, invece, crede ingenuamente che facendo del male a degli uomini si possa rovesciare l’organizzazione sociale. Mentre tutto oppone le due figure, il teorema le confonde apposta per poter delegittimare ogni forma concreta di lotta.
L’accusa contro Chiara, Claudio, Mattia e Nico sembra contenere in maniera concentrata tutto il teorema. Ricordiamo che sono imputati per un atto di terrorismo che avrebbe messo in pericolo la vita delle persone! Si sostiene che l’incendio del compressore avrebbe creato un fumo che avrebbe potuto in qualche modo asfissiare poliziotti e operai presenti nel cantiere! Quanti condizionali, quanta ideologia contenuta in un racconto che si presenta come obiettivo… Tutto l’impianto accusatorio si regge su dei presupposti ideologici ereditati dagli anni ‘70. In quegli anni alcuni membri della procura erano già in funzione e sono tra gli inventori stessi di questi elementi ideologici.
Se oggi c’è qualcosa che ricorda quegli anni, sono proprio i discorsi e le pratiche degli agenti dello Stato, fatte le debite proporzioni. E se c’è una campagna di terrore in corso, viene portata da loro, dalle provocazioni dei magistrati, dai castelli di carta costruiti dalla stampa, dalle violenze della polizia. La strategia della tensione non ha per forza bisogno di stragi, può essere alimentata a bassa intensità.

Ecco, a parte che mi pare fin troppo evidente la leggerezza e la superficialità con cui vengono trattate e liquidate questioni così importanti e delicate, a suon di usare la parola confusione viene fatta la stessa operazione di cui si accusano i giornali. Si legge un minestrone di accenni a situazioni specifiche, tentativi vaghissimi di creare dei profili ridicoli (il “sabotatore” e “il militante armato”), linee nette di demarcazione attraverso le quali i più intelligenti dovrebbero scovare il rivoluzionario da un parte e una pletora di categorie caricaturate dall’altra (“sbirri”, “fascisti”, “idioti”, “nichilisti”), pare che chiunque faccia del male fisico alle persone in contesti di lotta sia riconducibile appunto al “militante armato” inteso, suppongo, come membro delle BR o organizzazioni simili; gli anni ‘70 un po’ sembrano anni di gioia, entusiasmo, euforia (non certo per merito delle migliaia di persone e centinaia di organizzazioni che portavano l’attacco allo Stato e al capitalismo), un po’, per rassicurare gli animi, vengono di nuovo identificati come stagione della lotta armata (stessa riduzione che fa appunto la storiografia ufficiale) della quale, sembra per fortuna, rimangono solo i discorsi e le pratiche degli agenti dello Stato. Sinceramente non capisco nemmeno questa ossessione per gli articoli di giornali e la cartaccia da tribunali, leggendo questo arrampicarsi sugli specchi per tenersi lontani dalle accuse di fare del male a degli uomini, mi viene da pensare che pennivendoli e magistrati ci abbiano preso in pieno. Fare proprio il discorso dell’escalation e della gerarchia qualitativa delle pratiche di attacco e di lotta per poterlo confutare è veramente assurdo e costringe a dire delle vere e proprie menzogne.
E’ assolutamente falsante e strumentale affermare che “esistono rari esempi di individui o organizzazioni passati dal sabotaggio all’omicidio”. Ma cos’è, un thriller?
Sarebbero quindi inquinate dal terrorismo o da degli idioti e non da degne scelte ribelli e rivoluzionarie la stragrande maggioranze delle lotte per la libertà e l’autonomia di ogni epoca e luogo? A partire dagli anni ‘70 in Italia (ma veramente volete ridurre così tutto il patrimonio di conflitto di quegli anni, dalle piazze all’infinità ed eterogeneità delle organizzazioni armate e non? Ignorate veramente l’esistenza di gruppi ed individui che sceglievano di colpire sia persone che infrastrutture, pure con le bombe, come scelta cosciente e non come escalation o degenerazione?), le lotte dei popoli nativi come i Mapuche, i guerriglieri del Mend nel Delta del Niger, l’insurrezione greca del dicembre 2008. Son tutte situazioni piene di idioti, ingenui, non rivoluzionari, di fatto dalla parte dell’ordine? Inoltre, quali sarebbero “queste armi che i giornali, per screditare il Movimento, sostengono che si useranno dopo aver tirato delle pietre e fatto dei sabotaggi”? Non sono armi sassi, fionde, molotov, bombatroni, mortai, razzetti, bastoni, mazzette (tipico armamentario, appunto, di giornate come il 3 luglio 2011 alla Maddalena in Val Susa o il 15 ottobre 2011 a Roma)? Si intende, forse, armi da fuoco? Bé, in tal caso sarebbe necessario dotarsi di periti ed ingegneri per stabilirne le relative pericolosità. Sarebbero necessari calcoli balistici, tecnici, studi atletico-fisici, conteggi delle probabilità e così via… Oppure si vuole insinuare che uno o una che lancia una molotov nel mucchio contro un cordone di sbirri durante il caos degli scontri ha meno responsabilità e più legittimazione di uno o una che spara per conto suo e miratamente addosso ad uomo cardine di questo mondo putrescente? Oppure quest’ultimo è, davvero, un terrorista? (Come ha già sentenziato il tribunale di Genova il 12 novembre 2013, dando un ulteriore slancio all’applicazione del reato, non solo in termini preventivi). Sia chiaro, io non ho nulla in contrario e provo potenziale rispetto per chiunque la cui etica personale gli imponga di non fare del male fisico a nessun altro. Certamente non lo vorrei avere al mio fianco durante un eventuale scontro coi reparti della Celere… per il resto non si porrebbe il minimo problema, a patto che l’amore per la sincerità e la chiarezza non venga barattato con un revisionismo generalizzato degli episodi che compongono i nostri percorsi allo scopo di dimostrare la validità della propria etica o presunta tale.
Tra l’altro forme di sabotaggio diffuse ed intensificate rispetto alla portata e alla qualità, nel mondo del denaro che, come giustamente si dice successivamente alle parti citate “per essenza serve a mettere tutto in equivalenza”, potrebbero portare a disastri ben maggiori di qualche ferita o perdita umana per chi fa del Capitale la sua ragione di esistenza. Del resto, però, non si tratta di questo caso in quanto i quattro arrestati “avrebbero al massimo sabotato un compressore, una macchina che costerà alcuni migliaia di euro“. E se qualcuno, appunto, meglio competente tecnicamente, seguisse l’esempio dei suoi predecessori causando un danno tale da inibire la prosecuzione dei lavori per la costruzione del tunnel? Non è questo l’obbiettivo di tutti noi? Fermare il TAV (e possibilmente la società che lo sottende)? A quel punto un eventuale arresto sarebbe più comprensibile? Poi, insomma, sti scellerati dovevano causare tutto sto ambaradan per qualche migliaio di euro? Per un compressore che è stato addirittura riparato e venduto? Ho sempre trovato avvilente e tremendamente triste qualificare le azioni e i sabotaggi, soprattutto utilizzando la scala decimale della moneta, pure quando la cosa avviene in termini trionfalistici, figurati se le cifre servono a sminuire la portata di un attacco. Vorrei capire senza malizia, davvero, ma sto sabotaggio è un cosa che tutto il Movimento No TAV spinge per praticare o dato che qualcuno ormai l’ha fatto bisogna retroattivamente appoggiarlo per non rompere equilibri interni? Equilibri interni per me, ovviamente legittimi, fino a quando, per essere legittimati, appunto, come nel caso di questo opuscolo non invadano, oscurandola, la dignità di altri tipi di esperienze di lotta.
Sarà che, in realtà, fra tanti discorsi ridondanti, mi piace ragionare in maniera rudimentale. Lo Stato per costruire un tunnel manda macchinari per radere al suolo una valle e invia l’esercito per controllarne gli abitanti. Alcuni, tanti o pochi, ogni tanto lanciano di tutto addosso alle macchine e ai militari (esseri umani?) per ostacolarne il progetto e ribellarsi al sopruso. (Sì, lo so… c’è molto altro in Val Susa e dintorni… ma non raccontatemi che se ci si fosse limitati alle situazioni conviviali, ai pranzi, alle cene, alle scarpinate e a qualche barricata, la repressione sarebbe stata ugualmente dura…) Lo Stato, per farli desistere e continuare nella sua opera, arresta alcuni di loro con qualsiasi accusa abbia a disposizione all’interno del suo codice penale. A me pare che, a volte, le uniche domande utili siano: Quanti, oltre agli arrestati, smetteranno di lanciare di tutto addosso a macchinari ed esercito? Quanti insisteranno? Quanti impareranno a scovare quelle macchine e quei militari in ogni dove e gli tireranno addosso di tutto, infischiandosene di strali e benedizioni?

Chiudo, non volendomi ripetere all’infinito, in maniera provocatoria, non potendo essere altrimenti, citando per intero il paragrafo finale della Premessa all’opuscolo:
“Fu durante l’estate 2013 che l’accusa di terrorismo entrò in scena come strumento in più nella campagna di repressione già in corso da anni contro il movimento No TAV. Già nel mese di agosto, alcune case e luoghi di ritrovo del movimento, come l’osteria “La Credenza” di Bussoleno, furono perquisite e alcuni compagni indagati per attentato con finalità terroristiche.”
Tralasciando i due compagni arrestati con l’accusa di terrorismo nel 2009 per un tentato sabotaggio alla linea ferroviaria Orte-Ancona e l’operazione Ixodidae del 2012 a Trento e Rovereto che portò alla detenzione di un compagno e una compagna sempre per 270bis, le cui accuse contenevano chiari riferimenti alla loro partecipazione nella lotta No TAV; credo che l’obbrobrio e oscenità salti agli occhi di chiunque (giovani e meno giovani, non c’è scusante) anteponga veramente e sinceramente l’essere umano alla politica e si rifiuti di accettare la storia come un eterno presente. Un ragazzo e una ragazza morti, nel 1998, in seguito ai relativi arresti per associazione sovversiva con finalità di terrorismo, accusati di sabotaggi all’allora e futuro cantiere del TAV. Ma, forse, Erri aveva smarrito l’acquasantiera…

Solidarietà a Claudio, Mattia, Niccolò e Chiara
Solidarietà a Nicola e Alfredo
Solidarietà a Gianluca e Adriano
Solidarietà a Daniele e Francesco
Solidarietà a Andrea, Paolo, Fabio, Michele e Toshi
Solidarietà a Marina, Alberto, Luca, Gimmy e Vincenzo
Solidarietà a Michele
Solidarietà a Graziano, Lucio e Francesco
Solidarietà ai rivoltosi sotto processo per le giornate del 3 Luglio 2011 a Chiomonte e del 15 Ottobre 2011 a Roma
Forza e complicità a tutti gli uomini e le donne in rivolta contro l’autorità in ogni angolo del mondo
Che la paura cambi di campo!

R.