PREMESSA
Ho deciso di non votare questa volta, non di fregarmene, ma bensì di andare e di non votare. Non voglio tediare nessuno con le motivazioni che mi hanno spinto ad arrivare a questa scelta ma preciso che di scelta ragionata si è trattato, non di mancanza di criticità e attenzione nei confronti del mondo che mi circonda, né tantomeno di una forma adolescenziale di senso di ribellione.
Ho sempre vissuto le mie scelte politiche come un elemento individuale e personale, non mi sono mai sentito di andare a solleticare con le mie idee le coscienze altrui né tantomeno di farmi portavoce di schieramenti o valori universali. Non sono mai riuscito a trovare colui che avrebbe potuto essere il rappresentante di me stesso, figuriamoci farmi io portavoce di altri verso altri.
Sovente sono le piccole cose a rivelare il funzionamento dei grandi meccanismi. E ancora più sovente quando succede così ti accorgi che i grandi meccanismi non tengono conto delle piccole cose e che sono ancora loro, le piccole cose che contano, a far si che i massimi sistemi non funzionino proprio come dovrebbero.
Ho sempre vissuto le mie scelte politiche come un elemento individuale e personale, non mi sono mai sentito di andare a solleticare con le mie idee le coscienze altrui né tantomeno di farmi portavoce di schieramenti o valori universali. Non sono mai riuscito a trovare colui che avrebbe potuto essere il rappresentante di me stesso, figuriamoci farmi io portavoce di altri verso altri.
Sovente sono le piccole cose a rivelare il funzionamento dei grandi meccanismi. E ancora più sovente quando succede così ti accorgi che i grandi meccanismi non tengono conto delle piccole cose e che sono ancora loro, le piccole cose che contano, a far si che i massimi sistemi non funzionino proprio come dovrebbero.
***
Il giorno prima della fatidica tornata elettorale incontro sul treno per andare al lavoro un conoscente che non vedevo dai tempi delle superiori. Compagni di classe, una brava persona, pochissime le affinità di visione del mondo tra noi, ma sempre e comunque un grande rispetto e stima reciproci. In giacca e cravatta, futuro avvocato e grandi certezze lui, jeans e maglietta, un gran sonno e tonnellate di pensieri su come cambiare le cose di un presente che non è proprio come sognavo da bambino io. Non ho assolutamente voglia di parlare, non ne ho mai per la prima ora in cui sono sveglio, è così da sempre, ma decido di non sottrarmi al rituale. Ci salutiamo sulla banchina, affrontiamo i luoghi comuni a ritmo serrato, uno dopo l’altro: il lavoro, i treni in ritardo, il tempo. Decidiamo comunque di fare anche il tragitto insieme. In realtà decide lui ma a me va bene uguale. Chiacchieriamo in tranquillità, parliamo dei vecchi tempi, della fine che hanno fatto gli altri e di quando e come è collassato il vecchio mondo che avevamo condiviso, forse solo sfiorandoci, per cinque anni all’interno delle mura di una classe delle superiori. La conversazione si trasforma, avrei detto per entrambi, in un qualcosa di piacevole: esce qualche battuta, il tono è più amichevole e io ho come l’impressione che tutti e due abbiamo lasciato da parte la maschera che ci eravamo mostrati a vicenda fino a qualche minuto prima.
Penso di dovermi ricredere, di essere vittima dei miei stessi pregiudizi. Dovrei parlare più sovente con la gente, è il mio stesso atteggiamento di indifferenza che talvolta fa si che tra persone che si conoscono vengano erette mura di uno spessore indistruttibile. Mi sento stupido mentre lo ascolto dire cose che mi ricordano la spensieratezza di un periodo andato e che manca a me quanto a lui, a sentire da quel che dice e dal tono con cui lo dice.
Il treno arriva a destinazione, scendiamo dal vagone e ci incamminiamo facendo ancora un pezzo di strada insieme. Arriviamo al bivio ed è ora che io prenda la mia strada. Fisso a qualche metro di distanza il punto in cui ci saluteremo cercando di trovare una frase che possa far capire che è stato bello ritrovarsi, qualcosa che vada oltre la formalità. Credo che anche lui lo stia facendo, perché cala qualche secondo di silenzio, e la cosa mi fa piacere. Sto per mettermi a parlare ma lui mi anticipa.
Si ferma al bivio, fruga nelle tasche e prima di salutarmi mi posa nella mano due cartoncini con su scritto il nome di un personaggio, un simbolo e una bella croce, messa, come pensa sicuramente lui perché glielo leggo negli occhi mentre sorride e mi porge il “santino”, al posto giusto.
“Te li lascio senza impegno…nel caso tu domani ancora non sappia che fare”.
Dico che va bene e sorrido. Li prendo nella mia mano e li guardo. Il personaggio sul cartoncino è fotogenico, mi guarda e sorride. Guardo il mio vecchio compagno di scuola. Mi guarda e sorride anche lui, con un sorriso che assomiglia molto a quello stampato sulla carta, o almeno cosi mi viene da pensare in quel secondo sfuggente. Poi scatta il verde del semaforo, posso attraversare.
Lo saluto e vado a lavoro.
Lui fa altrettanto.
Penso di dovermi ricredere, di essere vittima dei miei stessi pregiudizi. Dovrei parlare più sovente con la gente, è il mio stesso atteggiamento di indifferenza che talvolta fa si che tra persone che si conoscono vengano erette mura di uno spessore indistruttibile. Mi sento stupido mentre lo ascolto dire cose che mi ricordano la spensieratezza di un periodo andato e che manca a me quanto a lui, a sentire da quel che dice e dal tono con cui lo dice.
Il treno arriva a destinazione, scendiamo dal vagone e ci incamminiamo facendo ancora un pezzo di strada insieme. Arriviamo al bivio ed è ora che io prenda la mia strada. Fisso a qualche metro di distanza il punto in cui ci saluteremo cercando di trovare una frase che possa far capire che è stato bello ritrovarsi, qualcosa che vada oltre la formalità. Credo che anche lui lo stia facendo, perché cala qualche secondo di silenzio, e la cosa mi fa piacere. Sto per mettermi a parlare ma lui mi anticipa.
Si ferma al bivio, fruga nelle tasche e prima di salutarmi mi posa nella mano due cartoncini con su scritto il nome di un personaggio, un simbolo e una bella croce, messa, come pensa sicuramente lui perché glielo leggo negli occhi mentre sorride e mi porge il “santino”, al posto giusto.
“Te li lascio senza impegno…nel caso tu domani ancora non sappia che fare”.
Dico che va bene e sorrido. Li prendo nella mia mano e li guardo. Il personaggio sul cartoncino è fotogenico, mi guarda e sorride. Guardo il mio vecchio compagno di scuola. Mi guarda e sorride anche lui, con un sorriso che assomiglia molto a quello stampato sulla carta, o almeno cosi mi viene da pensare in quel secondo sfuggente. Poi scatta il verde del semaforo, posso attraversare.
Lo saluto e vado a lavoro.
Lui fa altrettanto.
***
E sera ma c’è ancora luce quando entro nel seggio elettorale messo in piedi nelle mie vecchie scuole medie, il cielo è nuvoloso e nel cortile c’è lo stesso venticello che sento da quando son nato nelle prime sere d’estate; sono un po’ agitato senza motivo. Consegno il documento e la tessera elettorale alla ragazza del seggio. Lei legge forte il mio nome e cognome alle altre due ragazze che trascrivono sul quaderno un po’ annoiate dal giorno prima. Una è la sorella di una delle mie ex migliori amiche con cui ci siamo persi di vista così, per magia. Lei mi riconosce ma mi saluta solamente, il contesto formale non sembra essere dei migliori per fare due parole. Abito in un paesino piccolo, dove si conoscono tutti o quasi, così mentre vengo registrato ho il tempo di perdermi a pensare che la ragazza che ha letto il mio nome è carina, è un po’ più grande e sicuramente devo averla già vista e conosciuta da qualche parte. Credo che anche lei pensi la stessa cosa di me. Provo a schiarirmi le idee ma nel frattempo mi consegna la scheda elettorale e la matita. La cabina è già vuota. Lei la guarda, io la guardo e ci guardiamo entrambi di rimando. Ci stiamo dicendo in silenzio e contro la nostra volontà che restare li con la tessera in mano a chiacchierare pare brutto. Così capisco e con sguardo d’intesa lascio perdere e entro. Lei sorride. Tiro la tenda di plastica, appoggio la scheda sulla mensola di metallo e prendo in mano la matita. Guardo tutti i simboli colorati che mi si piazzano davanti agli occhi: alcuni li riconosco, altri non li ho mai visti.
Di colpo mi sembra tutto finto: la matita gialla che diversamente da tutte le altre matite non si può cancellare, la cabina di plastica e alluminio, la scheda che sembra di carta riciclata già predisposta con tutte le pieghe per essere sistemata affinché gli altri quando la imbuco non possano vedere, il pavimento della mia vecchia classe di scuola, la ragazza carina, la sorella della mia ex migliore amica, il mio compagno in giacca e cravatta sul treno, i sorrisi, gli slogan e i nomi dei partiti, le tonnellate di parole riversate a televisioni, radio e giornali in discorsi privi di anima e di sostanza, la luce al neon che brilla sopra la mia testa, persino la scuola, il cielo grigio sopra al parcheggio e le foglie verdi dell’albero davanti all’entrata mi sembrano di cartone.
Che senso può avere il mio gesto?Dove sono finiti tutti e tutto?Dove le Persone?Tra cosa mi stanno chiedendo di scegliere?Parole?Idee?Questioni pratiche?Che cosa mi propongono?Un mondo diverso?Magari migliore?E che significa migliore?
Non ho nessuna di queste risposte.
Ascolto il gran brusio fuori dal perimetro della cabina, protetto dalla tenda.
Prendo tra le dita la matita, guardo un’ultima volta la scheda e tiro una riga, in diagonale dall’angolo in basso a sinistra verso quello in alto a destra, lentamente. Non una rigaccia, un insulto, una frase o quant’altro, solamente una riga di matita. Ripiego con cura la scheda e esco.
Sorridono tutti.
La ragazza carina è già occupata a registrare il prossimo elettore. Vorrebbe fare forse di più, ma ha solo il tempo per regalarmi un’occhiata rapida mentre le passo davanti.
Imbuco, le sorrido anch’io e saluto…prima di ritirare le mie cose e andarmene.
Credo di non aver votato per una disapprovazione umana più che politica, perché penso che si stia perdendo il senso della vita abbagliati dal miraggio di poter creare il migliore dei mondi possibili. Perché appartengo a quelli che non contano. Perché so che c’è ancora un’umanità fragile e disperata dietro le facciate dei palazzi color grigio che con le loro sagome geometriche modellate nel cemento aspirano a trafiggere il cielo, un’umanità rannicchiata nei propri accoglienti spazi vitali, rifugiata tra la familiarità delle piccole cose per sfuggire alle quotidiane paure di un mondo ostile e distaccato, che nel corso delle giornate cattura e ingloba nel suo inesorabile meccanismo. Ed è così che io mi immagino questi superstiti, questi sopravvissuti ad un qualcosa che in qualche modo, loro malgrado, hanno contribuito a creare. Giovani ragazzi cresciuti coi piedi nell’asfalto, attaccati ai loro stereo ad adorare in silenzio il brivido di un suono sintetico nella fioca luce di una stanza. Volti profondi, segnati dal bisogno di cambiare e allo stesso tempo dalla necessità di crearsi un qualcosa che non possa essere patrimonio di tutti, qualcosa che resti unico, un rifugio dove correre quando fuori la sera piove.
Un’umanità livida, marginale, semplice e vera. L’umanità che non conta, ma Vive.
E, nella mente, cieli azzurri come il mare, nuvole bianche che si possono toccare, con il sole sulla pelle e il gusto del vento nei polmoni.
Di colpo mi sembra tutto finto: la matita gialla che diversamente da tutte le altre matite non si può cancellare, la cabina di plastica e alluminio, la scheda che sembra di carta riciclata già predisposta con tutte le pieghe per essere sistemata affinché gli altri quando la imbuco non possano vedere, il pavimento della mia vecchia classe di scuola, la ragazza carina, la sorella della mia ex migliore amica, il mio compagno in giacca e cravatta sul treno, i sorrisi, gli slogan e i nomi dei partiti, le tonnellate di parole riversate a televisioni, radio e giornali in discorsi privi di anima e di sostanza, la luce al neon che brilla sopra la mia testa, persino la scuola, il cielo grigio sopra al parcheggio e le foglie verdi dell’albero davanti all’entrata mi sembrano di cartone.
Che senso può avere il mio gesto?Dove sono finiti tutti e tutto?Dove le Persone?Tra cosa mi stanno chiedendo di scegliere?Parole?Idee?Questioni pratiche?Che cosa mi propongono?Un mondo diverso?Magari migliore?E che significa migliore?
Non ho nessuna di queste risposte.
Ascolto il gran brusio fuori dal perimetro della cabina, protetto dalla tenda.
Prendo tra le dita la matita, guardo un’ultima volta la scheda e tiro una riga, in diagonale dall’angolo in basso a sinistra verso quello in alto a destra, lentamente. Non una rigaccia, un insulto, una frase o quant’altro, solamente una riga di matita. Ripiego con cura la scheda e esco.
Sorridono tutti.
La ragazza carina è già occupata a registrare il prossimo elettore. Vorrebbe fare forse di più, ma ha solo il tempo per regalarmi un’occhiata rapida mentre le passo davanti.
Imbuco, le sorrido anch’io e saluto…prima di ritirare le mie cose e andarmene.
Credo di non aver votato per una disapprovazione umana più che politica, perché penso che si stia perdendo il senso della vita abbagliati dal miraggio di poter creare il migliore dei mondi possibili. Perché appartengo a quelli che non contano. Perché so che c’è ancora un’umanità fragile e disperata dietro le facciate dei palazzi color grigio che con le loro sagome geometriche modellate nel cemento aspirano a trafiggere il cielo, un’umanità rannicchiata nei propri accoglienti spazi vitali, rifugiata tra la familiarità delle piccole cose per sfuggire alle quotidiane paure di un mondo ostile e distaccato, che nel corso delle giornate cattura e ingloba nel suo inesorabile meccanismo. Ed è così che io mi immagino questi superstiti, questi sopravvissuti ad un qualcosa che in qualche modo, loro malgrado, hanno contribuito a creare. Giovani ragazzi cresciuti coi piedi nell’asfalto, attaccati ai loro stereo ad adorare in silenzio il brivido di un suono sintetico nella fioca luce di una stanza. Volti profondi, segnati dal bisogno di cambiare e allo stesso tempo dalla necessità di crearsi un qualcosa che non possa essere patrimonio di tutti, qualcosa che resti unico, un rifugio dove correre quando fuori la sera piove.
Un’umanità livida, marginale, semplice e vera. L’umanità che non conta, ma Vive.
E, nella mente, cieli azzurri come il mare, nuvole bianche che si possono toccare, con il sole sulla pelle e il gusto del vento nei polmoni.
Teo.Théo
“di colpo mi sembra tutto finto”
oltretutto una qualsiasi cosa finta è comunque reale, pare dunque non ci sia modo di comprendere la realtà. vivere senza la coscienza dell’esperienza renderebbe forse più vero ogni momento.
bell’articolo.
andrea echorn