I – L’altro giorno sono andato a fare un giro alla Biennale. Deluso da vari padiglioni mi dirigo verso quello della Turchia, abbandonando i Giardini per l’Arsenale.
Il padiglione turco è in una delle tante stanze ricavate in un ramo del grande cantiere navale, a cui si accede direttamente dalla viuzza che costeggia l’edificio. Due pesanti drappi neri evitano che la luce esterna entri, nascondendo solo parzialmente la scritta bianca che marchia il muro all’intero, visibile anche da fuori: resistance.
Chiaramente sono stupito. Nei giorni in cui tutti i media nazionali si stanno occupando della Turchia e di Istanbul, raccontandoci le tensioni e i conflitti di un intero paese attraverso le cariche della polizia e le risposte della piazza, non posso che rimanere incuriosito dal titolo scelto. Resistance.
Vicino alla scritta c’è cartello bianco, un foglio, con una scritta blu: Istanbul resisti. Sembrerebbe normale, ma qualcosa mi colpisce immediatamente e mi disturba. È quel resisti, quella “i”, che rende il resistere un’esortazione, un invito fatto a Istanbul a resistere. Perché mi turba? Perché non è scritto Istanbul resiste? Perché non viene fatta un’affermazione? «come sempre si è fatto», mi verrebbe da dire. Quella “i” forse cambia tutto.
Certo, è questione di un attimo trovare una risposta logica. Il ragazzo turco seduto al banchetto ha magari chiesto a qualche italiano come si scriveva un invito alla resistenza, e questo è il risultato. O forse qualcuno ha voluto regalare al padiglione della Turchia quel foglio, come se fosse una stretta, vigorosa e tenera al tempo stesso, alla spalla di una persona ferita. Resisti.
Cosa sarebbe cambiato con la “e”? La distanza tra “Istanbul resiste” e “Istanbul resisti” si fa abissale.
II – L’interno del padiglione della Turchia presenta un’installazione video multicanale, con 5 grossi schermi differenti, immersi in una parziale oscurità.
L’artista Ali Kazma propone una decina di video in loop, pochi minuti ciascuno, in cui il corpo – il soggetto dell’esposizione – resiste ed è costretto, si oppone e viene oppresso, in cui è lo spazio concettuale e fisico su cui vengono dispiegate le più svariate strategie e tecniche, volto a controllarlo, modificarlo, costringerlo, limitarlo. Tatuaggio, bodybuilding, scuola, calligrafia, lavoro, bondage: a tutto questo (e altro) il corpo, trattato come un pezzo di carne, oppone una necessaria resistenza fisica, dovuta proprio al suo essere corpo fisico di carne. Il titolo del padiglione è resistance.
Ali Kazma propone questo mentre a Istanbul e in Turchia sta succedendo quel che internet e i media ci stanno facendo conoscere.
Casualità? La rivista poggiata all’entrata del padiglione dissipa questo dubbio, raccontando le politiche di cambiamento che interessano la Turchia e le sue metropoli, politiche di trasformazione urbana dello spazio pubblico. Citano Chantal Mouffe: «public space is the battleground», e l’arte non può che pro-porre e ri-portare conflitto nello spazio pubblico, così duramente torturato e lacerato.
Istanbul resiste.
Ali Zaval
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