Alcuni mesi fa, a Parigi, gli studenti dell’Institut d’Études Politiques si mobilitarono contro la proposta di modifica del nome del corso in Sciences Politiques. Quello che i nostri amici francesi
avevano ben chiaro – e che noi spesso fatichiamo a comprendere – è che le parole non pesano tanto per il loro significato, quanto per il loro compito. In questo caso, la
sostituzione della parola studi – con la sua carica di bassa militanza – in favore della più imparziale, autorevole ed asettica scienze, si poneva direttamente come pratica politica, sentita
dagli studenti in tutta la sua violenza. La stessa cosa è accaduta qui a Verona, dove la
specialistica di Filosofia cede ora il posto alla magistrale in Scienze Filosofiche. In un epoca in cui il discorso scientifico e tutte le sue diverse sotto-scienze – mediche, politiche, della comunicazione – hanno preso il sopravvento, era così necessario mascherare anche la pratica filosofica con questa pseudoautorevolezza? O forse il tentativo in gioco è più subdolo, spinto a convertire la filosofia in
un sapere codificato, in un sistema di nozioni, negando ciò che essa reca in sé di pratica, di non-sapere. Su tutto questo risuonano ancora le parole di Deleuze e Guattari: “Oggi l’antifilosofia vuol essere linguaggio del potere. Approfittiamone”.
Marco
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