Feelings: Elettriche albe oniriche e paure quotidiane

“Stephen si svegliò col brusco suono elettronico della sveglia sul telefonino. Aprì lo sportelletto e, senza guardare, schiacciò il bottone che come ogni mattina segnava il passaggio dal mondo del sogno alla realtà.
Ancora qualche istante di esitazione. Poi i piedi per terra, sul pavimento intiepidito dal riscaldamento centralizzato, che insieme a tutti gli altri comfort di una vita moderna garantiva un risveglio accessibile, permettendogli di rimanere anestetizzato ancora per un po’, in quel limbo dorato che è la prima mezz’ora del mattino. Si diresse verso la finestra nel buio, evitando con cura automatica gli oggetti che sapeva di aver lasciato sparsi nella stanza la sera prima, consapevole di poter fare affidamento su una conoscenza precisa, millimetrica, dello spazio in cui si stava muovendo. Allungò la mano e sollevò di qualche centimetro la tapparella. A Stephen non piaceva l’idea di venire abbagliato dalla freddezza e dalla precisa luminosità della luce elettrica, non subito almeno, non appena sveglio. Preferiva prendere confidenza con la vita reale a poco a poco, vestendosi nella penombra del mattino.
Un breve sguardo attraverso le tende parve dargli, concentrata in poco più di un secondo sfuggente, una visione d’insieme, quasi una premonizione, di quella che sarebbe stata la sua giornata, delle sensazioni che l’avrebbero accompagnato. Era una di quelle giornate intrise di malinconia, era ovunque, nell’aria, in lui. Una di quelle giornate in cui il paesaggio e la natura sembrano piangere. Un opaco sole autunnale faceva la sua timida comparsa tra i palazzi, lasciando attraverso i vetri un tepore in grado di fare accennare un sorriso. Un misto di tristezza e ammirazione.
La chiave entrò nella toppa. Si infilò la giacca, controllò di aver preso tutto toccandosi le tasche, si abbottonò stringendosi nel colletto di lana, sospirò e aprì la porta.
Il freddo del mattino lo sommerse, inondandolo con un mare di sensazioni. Per un istante, quando fece il primo passo fuori da quello che era il calore della sua abitazione, gli parve di poter vedere il confine in cui le sue cose, la tranquillità del suo spazio di vita personale, l’odore del caffè alla mattina e il silenzio in cui erano immersi gli oggetti, si mescolavano con il mondo esterno. Li vedeva scontrarsi, infrangersi su una barriera invisibile, li immaginava scuotersi, ancora intorpiditi, sotto il morso dell’aria gelida che entrava irriverente, senza rispetto per il sonno rassicurante a cui erano da sempre abituati. Uscì sulla soglia, chiuse a doppia mandata alle sue spalle, alzò la testa, lanciò un’occhiata al cielo e inspirò con forza allargando le narici. Mentre lo faceva chiuse gli occhi, quasi a voler assaporare con maggiore intensità quello che l’aria aveva da offrirgli. Una visione rapida, come una scarica di elettricità fulminea e paralizzante gli attraversò il cervello. Si sentiva appeso al suolo, a testa in giù, ma con i piedi attaccati al terreno, ben saldi sull’asfalto, mentre un limpido cielo azzurro, in posizione verticale, si ergeva puro come non mai davanti ai suoi occhi. Aveva una visione in terza persona della scena, ma sentiva sulla sua pelle quello che vedeva, regista, attore e spettatore di sé stesso. Gli parve di vivere un ritorno alle origini, alla semplice sensibilità, ad un vivere innocente, ad una conoscenza primordiale basata sulla sensazione, una maggiore vicinanza al cuore fisico della realtà. Il gusto semplice della vita. Sentì la sua mente accarezzata da quell’odore di asfalto che penetrava fino al centro dei ricordi della sua infanzia, quell’odore che solo il vento caldo del posto in cui sei nato ti restituisce nella calma monotona dei giorni d’estate. Quell’odore di attesa nei pomeriggi assolati, l’odore del fresco della sera; l’odore di una gelida mattinata invernale, che scende nei polmoni e apre una finestra sulla vita”.

«Brian», disse una voce ancora non ben identificata. Seguì, poco dopo, il suono elettronico della sveglia sul telefonino. Superò il momento di confusione, aprì lo sportelletto e fermò quel fastidiosissimo rumore, poi si fregò gli occhi e si girò verso Tina, che era vicino a lui, nel letto.
«E successo di nuovo», disse sottovoce, ancora inebetito e confuso nel dormiveglia.
«Ehi Brian…Non volevo svegliarti. Dormivi agitato».
«Non è niente. Sognavo», disse dopo aver capito dove si trovava. Fissò un secondo il soffitto bianco, con il lampadario che oscillava roteando di qualche millimetro. Rimase immobile per un istante, piatto sulla schiena con le mani dietro la testa e lo sguardo nel vuoto, tentando di ricordare i dettagli di qualcosa. Poi prese lo slancio, lasciò andare i pensieri e si girò sul fianco, verso di lei. Gli parve così bella e piccola, con gli occhi socchiusi e la faccia immersa nel cuscino, nella tenue luce arancione del mattino. Le diede un bacio sulla fronte e si alzò.
Si vestì nella penombra, guardò Tina che dormiva di nuovo e si preparò per andare. Per non svegliarla decise di lasciare un biglietto sul comodino: «Vado al lavoro. Stephen mi aspetta, forse finalmente ho qualcosa per lui. Quando ti svegli chiamami, sono in studio. A stasera. Un bacio. Brian». Posò carta e penna accanto al letto e scese al piano di sotto.
Si abbottonò stringendosi nel colletto di lana e uscì nel freddo del mattino. Una volta salito in macchina accese una sigaretta e cercò di dare un filo logico ai suoi pensieri, ma troppe erano le idee ed era ancora troppo presto per avere una conferma. Una volta arrivato nel suo studio lanciò un’occhiata alla scrivania. Un mucchio di fogli disordinati occupava gran parte dello spazio. Alcuni erano appallottolati, altri scarabocchiati con disegni senza senso, che faceva senza pensare quando l’incubo del foglio bianco si impadroniva di lui. Era da qualche mese ormai che cercava uno spunto per il suo nuovo lavoro. La casa editrice non gli avrebbe lasciato scampo ancora per molto. Le prime richieste per avere un’anteprima erano già arrivate e Tom, che aveva visto in lui le caratteristiche del grande scrittore convincendo l’editore da cui lavorava a pubblicare la sua prima opera e proponendogli un contratto valido per un principiante, iniziava a farsi sempre più insistente. Finora se l’era cavata egregiamente, improvvisando qualche spiegazione qua e la, inventandosi le linee generali di un soggetto di cui in realtà non aveva neanche la più pallida idea e, cosa più importante di tutte in una società in cui la scatola vale molto più del contenuto, dimostrando di avere la situazione in pugno e le idee chiare. Tom era un suo grande amico ma da quando lavorava per lui le cose non erano più le stesse. A prima vista il rapporto tra loro era rimasto lo stesso, ma nel profondo c’era qualcosa che non andava. Non erano più i due ragazzi che avevano fatto insieme le superiori né tanto meno gli amici dei tempi dell’università. Tom aveva delle aspettative nei suoi confronti e lui sentiva che se fosse stato necessario rovinare quel che c’era e soprattutto quel che c’era stato tra loro per far fronte ai suoi impegni l’avrebbe fatto. Con qualche esitazione, ma l’avrebbe fatto. Doveva farlo del resto. E lui non aveva più nessun diritto di rinfacciargli qualcosa perché la vita, ora, era un’altra. C’erano in ballo responsabilità, obblighi e doveri. Era un tacito accordo che da entrambi veniva dato per scontato e Brian era sempre stato ferito nel profondo da questa sensazione. Non poteva sopportare di rivedere persone con cui aveva condiviso momenti fantastici e realizzare che niente era più come allora, che quei momenti non li avrebbe ritrovati mai più. Si sentiva come estraniato dal mondo quando vedeva che non c’era nemmeno più niente da dire, che il discorso faticava ad andare oltre un livello di disgustosa superficialità, di pacifica e scontata educazione. Si era sempre chiesto come fosse possibile che due persone che erano state estremamente vicine per un certo periodo di tempo diventassero totalmente indifferenti. L’unica spiegazione che riusciva a trovare era pensare che la causa fosse proprio la paura di sentire sulla pelle quella stessa sensazione che lui adesso provava. Era per il timore di rendersi conto che tutto era morto che si fingeva di tenere in vita un qualcosa che non esisteva più da tanto ormai, per la difficoltà di accettare che il tempo avesse srotolato le fila di quelle due vite prima così inestricabilmente legate e diventate invece ora due binari paralleli, che difficilmente sarebbero tornati ad incontrarsi di nuovo.
Da qualche giorno a questa parte però le cose erano cambiate e Brian sentiva che la soluzione per il suo lavoro si stava avvicinando. Questa sensazione lo accompagnava costantemente, e il fatto di non poter capire il perché lo rendeva ancora più nervoso del solito. Quel che più lo irritava era l’incapacità di capire perché si sentisse così. Si sedette sulla sua poltrona, lasciandosi cadere a peso morto e appoggiando la testa sullo schienale, con lo sguardo fisso sul soffitto. Restò così qualche secondo e poi si tirò su, scansando con un braccio tutto quello che c’era sul tavolo nel tentativo di farsi un po’ di spazio tra quel mare di bozze senza capo né coda. Nello spostare i fogli una pila di materiale cadde a terra, spargendosi disordinatamente sul tappeto. Preso da un impeto d’ira buttò a terra anche tutto ciò che aveva davanti, tornando a vedere così il color legno del suo banco di lavoro, da tempo sepolto sotto il magro frutto delle sue capacità intellettuali.
Allungò una mano nella tasca della giacca appesa alla sedia e prese il pacchetto. Tirò fuori una sigaretta, se la mise in bocca e gettò il piccolo contenitore di cartone sulla scrivania. Poi frugò in tasca, trovò l’accendino, lo guardò un attimo e sorrise. Era quello di Tom. Glielo aveva fregato di nuovo e lui ci era cascato un’altra volta, come ai tempi del liceo. Accese e soffiò il fumo verso l’alto, mentre sentiva la stanza riempirsi di quell’odore famigliare, che in fondo poi non gli piaceva, ma a cui era talmente abituato da poterlo considerare l’equivalente di un compagno di avventure. Mentre spingeva la sedia leggermente più indietro per distendere le gambe gli cadde l’occhio su uno dei tanti fogli che riempivano il pavimento. In un riquadro di forma rettangolare, disegnato a penna nera e più volte evidenziato malamente, era scritto un nome: «Stephen». Lo raccolse e si mise a fissarlo con più attenzione. Quelle sette lettere erano la sua unica certezza. L’unico punto fermo del suo lavoro che ancora non esisteva, nemmeno mentalmente. Il suo personaggio si sarebbe chiamato così, indipendentemente da tutto quello che il suo libro avrebbe raccontato, o dal ruolo che gli sarebbe stato affidato Avrebbe potuto essere un avvocato, un vecchio, un disoccupato, un poliziotto, un magazziniere, un assassino, un bambino, o anche lui stesso. Poco importava. Si sarebbe chiamato Stephen. Senza un perché e senza una spiegazione. Mentre ragionava su quel nome ancora vuoto, senza volto e senza storia, il telefono suonò. Brian fece l’ultimo tiro con faccia un po’ schifata, come faceva sempre, sputò il fumo di lato e tirò a sé il portacenere per spegnere la sigaretta. Mentre con una mano schiacciava il mozzicone a fondo curandosi di spegnere tutte le piccole braci incandescenti con il braccio sinistro alzò la cornetta e rispose.
« Buongiorno scrittore…sono io. Allora, come stai? Ci sono novità con Stephen?»
La domanda lo lasciò di sasso. Aspettò qualche secondo prima di rispondere nel tentativo di capire come fosse possibile che lei conoscesse alla perfezione i pensieri che in quel preciso istante affollavano la sua mente. Poi rispose. «Forse. Ci sto pensando. Ma tu come fai a saperlo?»
«Ho letto il biglietto che mi hai lasciato sul comodino questa mattina».
Il bigliettino. Il risveglio confuso di poche ore prima. Il sogno.
«Ma certo, che stupido. Ti voglio bene Tina. Ma ti devo richiamare dopo,ok?».
«Anzi, aspetta. Rileggimelo per favore. Ce l’hai ancora vero?».
«Si, ce l’ho qui. Dice così: vado al lavoro. Stephen mi aspetta, forse finalmente ho qualcosa per lui. Quando ti svegli chiamami, sono in studio. A stasera. Un bacio. Brian. Mi sembrava che quello di oggi fosse stato un risveglio più traumatico del solito, ma non credevo così tanto Brian. Dormivi male e ti ho svegliato. Evidentemente non è bastato. Mi sa che hai continuato a dormire ancora per un bel po’. Hai anche detto qualcosa di insensato del tipo “è successo di nuovo” o una frase simile. Che c’è che ti tormenta?».
«Grazie Tina. Non lo so cosa ho sognato, per adesso. Ti chiamo dopo, ok?»
«Ok Brian».
«Ah, Tina…».
«Che c’è Brian?».
«Buongiorno comunque…ti ho lasciato il caffè pronto da accendere sul fuoco. Fatto come piace a te.».
«Tu sei pazzo Brian. Hai dei seri problemi, dico davvero».
«Già…non ci scherzare troppo però, potrebbe essere vero».
«Lo so. A stasera».
«A stasera».
Con un accenno di sorriso posò la cornetta e tornò alle sue cose. Provò a ripensare con insistenza al sogno che aveva fatto e di cui evidentemente non ricordava più nulla, fatta eccezione per alcuni istanti, nei quali non riusciva comunque a trovare niente di straordinario.
«E successo di nuovo». Pensò alle parole di Tina. Che significato potevano avere? Era stato lui del resto a pronunciarle. E cosa c’entrava Stephen? Il personaggio del suo racconto era stato nei suoi sogni, nel suo inconscio aveva fatto qualcosa, qualcosa di importante a giudicare da quello che aveva scritto sul bigliettino poche ore prima. Ripensò intensamente e con attenzione a tutto quel che era successo dal momento in cui si era svegliato a quando era arrivato in studio. Non era successo niente, era stato un semplice risveglio quotidiano, una normalissima mattinata fatta di azioni meccaniche, come ce ne erano state a migliaia nella sua vita. Eppure sentiva che l’anello mancante era vicino e nel suo sogno c’era qualcosa di importante. Ci aveva già provato appena sveglio a ricordare, ma la confusione in cui si trovava poco dopo aver aperto gli occhi l’aveva indotto a lasciar perdere, a rimandare a dopo e adesso era il momento di riflettere.
Si alzò dalla sedia, diede un’occhiata alla stanza, agli oggetti sulle mensole, alle fotografie appese ai muri, ai libri sugli scaffali, toccò con mano la stoffa delle tende camminando per la stanza alla disperata ricerca di una sensazione, di un input che lo aiutasse a ricordare. Decise di mettere un po’ di musica per riempire la staticità dello studio e supplicarlo di mettersi in movimento, di aiutarlo a dare il via al flusso dei suoi pensieri, nel disperato tentativo di ricordare un qualcosa che forse nemmeno esisteva o che magari non aveva la minima importanza. Le note iniziarono ad uscire dalle casse, una dopo l’altra, dolci, leggere, familiari. Gli sembrò di vederle, mentre andavano a posarsi sulle cose e rimbalzavano sulle pareti, solleticando i ricordi. Riconobbe il calore che una giusta canzone di primo mattino riesce a dare, si sentì nella sua vita, con la sua colonna sonora, circondato dalle sue cose e dalle sue emozioni. Ad un tratto gli parve di ricordare qualcosa di importante. Ripercorrendo per la millesima volta le azioni che aveva fatto dal momento del risveglio cominciò a farsi strada nella sua mente un’idea che sembrava acquistare sempre più forza man mano che ripensava a ciò che era stato. Aveva sognato la sua vita quotidiana, un normalissimo risveglio di una qualsiasi giornata. Aveva davanti a sé tutte le azioni e gli pareva di riconoscerle una ad una. Se le immaginava scritte su una sorta di lista o di promemoria, ben ordinate e in successione. Mentre seguiva il filo logico dei suoi pensieri si immaginava di spuntarle con una matita, quasi fosse al supermercato, con tanto di carrello, a fare spesa di azioni quotidiane.
Il sogno si svelò poco alla volta e Brian riuscì ad avere un’idea abbastanza esaustiva dei suoi contenuti. Tuttavia, gli sembrava che mancasse qualcosa, c’era qualcosa di diverso nelle sensazioni che aveva provato.
Si sentì un po’ disgustato per aver fatto tutta quella fatica nel tentativo di riportare alla luce quello che doveva essere una sorta di tesoro sepolto nel suo inconscio e che si era rivelato invece essere niente più che un’anticipazione di ciò che sarebbe accaduto pochi minuti dopo. Capì il significato delle parole che aveva pronunciato. Non era la prima volta che gli succedeva. Era arrivato al punto che perfino i sogni ricalcavano la sua vita. Non aveva neanche più la capacità di immaginare qualcosa di diverso dalla routine in cui era immerso fino al collo. Il passo successivo sarebbe stato probabilmente quello di sognare cosa avrebbe mangiato a pranzo. Si sarebbe visto bloccato in un ingorgo, in mezzo al traffico, o ancora in coda all’ufficio postale, avrebbe sognato le bollette da pagare, le scadenze da rispettare, le responsabilità a cui doveva far fronte, gli obblighi, i doveri, fino a quando non avrebbe iniziato a sentire anche gli stessi odori e a vedere con gli stessi colori. L’odore dello smog, dei rifiuti bruciati all’inceneritore in periferia, l’aria pesante e l’afa della città, le cartacce e le bottiglie vuote che vedeva sparse nel parco vicino alla stazione, i tramonti metallici e il grigio dei pomeriggi piovosi, questi sarebbero stati i suoi compagni di sonno. Era quello che il suo inconscio voleva dirgli? Che non ci sarebbe più stato scampo, nemmeno quando avrebbe tentato di chiudere gli occhi, immerso nelle sue coperte, tra i suoi profumi, in cerca di un disperato momento di abbandono e di sollievo, anche fittizio ? No. Nonostante tutto, sapeva che quella non era la chiave di lettura giusta. Sentiva quelle sensazioni come proprie, almeno in parte, ma mancavano dei dettagli essenziali. Si sforzò di ricordare. Il sacrificio di tornare indietro, di scavare in profondità era tale da fargli quasi socchiudere gli occhi. Sentiva il desiderio di accendersi un’altra sigaretta, ma sarebbe stata già la terza della giornata, e così lasciò perdere. Si ricordò che c’era qualcosa di diverso tra il risveglio del sogno e il risveglio reale. Quello che mancava gli balenò di colpo in testa, gli parve di sentirlo, come il primo rintocco della campana nel cuore della notte, quando l’ora dei dannati è ormai alle spalle e la lancetta scatta in avanti di un balzo. Si ricordò della visione che aveva avuto nel sogno, delle immagini che aveva visto. Poco a poco gli venne in mente del cielo verticale, del mondo all’ingiù, dei ricordi che gli avevano attraversato la mente di colpo, pur non riuscendo a ricostruire e a descrivere le sensazioni che aveva sentito e provato sulla sua pelle, mentre dormiva.
Stephen. Fu allora che quelle sette lettere vennero in suo soccorso. Non era lui il protagonista del suo sogno, non del tutto almeno. Il nome del suo futuro personaggio aveva popolato le sue visioni, mescolando alla sua vita di tutti i giorni aspetti nuovi. Da tempo ormai si era dimenticato delle piccole cose, non riuscendo più a cogliere i misteriosi e silenziosi significati che dietro di esse si celano. Aveva bisogno di vedersi dall’esterno per capire e capirsi, per riuscire a soppesare con attenzione ogni singolo aspetto della situazione che stava vivendo, della sua vita. Brian aveva provato diverse volte questa sensazione ma non era mai riuscito a spiegarla con facilità. C’erano attimi in cui si chiedeva il perché, il perché di tutto. Arrivava ad essere confuso al punto che niente gli sembrava più avere senso, tutto era lento, stupido, forzato, fuori luogo. Avrebbe solo voluto spegnersi in quel momento, lasciare che tutto cadesse, si affievolisse. Avrebbe voluto avere del silenzio e un immenso nero intorno a lui, così da poter capire, da potersi ascoltare, da potersi sentire. Al di fuori di tutto, staccato da chiunque e da qualunque cosa, immerso in sé stesso, per poter sentire sulla pelle solo la sua presenza nel mondo, analizzarne la complessità di tutti i suoi singoli aspetti, per capire di essere vivo, per sentire di esistere, indipendentemente da tutto.
Forse per la prima volta capì che aveva sotto mano la possibilità di vedersi con altri occhi, di riscoprire quello che era, di capire quello che stava perdendo, di analizzare i cambiamenti mentre ci era dentro e non quando tutto era già successo e rimaneva soltanto il peso delle conseguenze. Sapeva quanto fosse difficile essere degli osservatori attenti della propria esistenza. Era come sapere di essere felici. Lo si realizzava per qualche istante, per brevi periodi, sempre dubitando se si potesse realmente affermare di esserlo a gran voce, valutando attentamente tutti i problemi e i dettagli del caso, trovando sempre quei piccoli difetti che in definitiva facevano pensare che forse prima di gridarlo al mondo sarebbe stato meglio aspettare ancora un po’. Individuare un periodo felice della propria vita era un’operazione che avveniva sempre a posteriori, accompagnata dal rimpianto, quando ormai rimaneva solo il gusto amaro del ricordo. Era un procedimento così tipicamente umano, composto in egual misura di solida razionalità e incomprensibile pazzia. Veniva portato a termine in modo quasi matematico, confrontando in un’analisi esaustiva e dettagliata il periodo in corso con quello appena passato, mettendo sul piatto della bilancia avvenimenti positivi e negativi, ricordi, soddisfazioni, delusioni, rimpianti e sorrisi, senza considerare che il passato aveva dalla sua parte il peso della nostalgia e il presente non poteva ancora essere capito, almeno non fino a quando non si fosse cristallizzato in quello che era in realtà solamente un passato più recente. Lo stesso valeva per i cambiamenti. Si potevano intravedere dei nuovi sviluppi, delle svolte, dei cambi di direzione, ma si realizzava la situazione nella sua globalità solo a giochi fatti, quando ormai ci si era immersi nella nuova vita fino al collo, migliore o peggiore che fosse.
Era e sarebbe stata sempre una questione d’istinto.
Ma l’istinto talvolta sembrava non bastare e Brian aveva l’impressione che Stephen fosse lì, adesso, per dargli la possibilità di rendersi conto che qualcosa se ne stava andando, per aiutarlo a ricordare da dentro i suoi sogni, che erano così simili alla realtà.
Quella era la chiave di lettura giusta e, mentre il fumo gli usciva dalla bocca in una nuvola quasi perfettamente circolare, Brian fece un piccolo sorriso. Continuò a seguire il filo dei suoi pensieri ancora per un po’, fumando e guardando fisso nel vuoto. Sentiva che stavano prendendo la strada giusta, aveva su di sè quella leggera e strana pelle d’oca che gli veniva quando l’ispirazione stava per arrivare, quando era vicino a raggiungere una soluzione, quando prendeva in mano la penna e scriveva sentendo che quell’impersonale successione di lettere e parole che finiva sul foglio si stava trasformando, prendendo la forma che lui sapeva di avere sempre voluto dargli, aiutandolo a dire quello che sapeva da sempre, liberandolo da pesi metafisici insormontabili e permettendogli di ordinare e capire più a fondo la propria vita. Era così strano che dei semplici simboli apparentemente inutili e senza senso nella loro individualità potessero esprimere le sensazioni più vere che un individuo conservava nel suo profondo. C’era un qualcosa di mistico in quel procedimento, e Brian sapeva che non gli sarebbe stato sempre possibile riuscire a metterlo in pratica. Era per questo che rispettava la sua ispirazione o la più totale mancanza di essa, senza pretese e senza rancori. C’era un rapporto di rispetto e fiducia reciproci tra il linguaggio e la sua persona, non una pretesa di dominio e di superiorità da parte sua. Le parole non erano un semplice strumento, niente era più distante da quell’idea sbagliata. Sapeva di essere in grado di interpretarle e di servirsene per dare una voce alle parti di sé che non l’avevano, ma avrebbe dovuto riporre in loro le sue speranze, crederci e concedersi. Loro, presto o tardi, non l’avrebbero abbandonato. E così fu.
Brian infatti non solo adesso ricordava nei minimi dettagli il suo sogno, ma si rendeva conto di conoscere alla perfezione le sensazioni che voleva descrivere e il modo in cui doveva farlo: conosceva a memoria le parole, gli aggettivi da usare, le sfumature che avrebbe dato al suo racconto, persino la punteggiatura delle sue frasi.
Prese il primo foglio bianco che trovò, impugnò la penna e con convinzione e sicurezza iniziò a scrivere: “Stephen si svegliò col brusco suono elettronico della sveglia sul telefonino. Aprì lo sportelletto e, senza guardare, schiacciò il bottone che come ogni mattina segnava il passaggio dal mondo del sogno alla realtà”.
Elettriche albe oniriche e paure quotidiane.

Teo.Théo