Di fronte all’uso compulsivo di alcune parole ricorrenti nel linguaggio politico, quel che più preme non è tanto capire cosa esse stanno a significare, ma riconoscere come funzionano e quale operatore mettono in atto. Più si guarda una parola da vicino, e più essa ci indica lontano, nel punto in cui imprime una forza. Sia dunque l’utilizzo, più volte sperimentato da parte di Berlusconi, della parola “comunista”. Essa non sta solo ad indicare la presunta incompatibilità di una carica politica con una posizione altrettanto politica: l’operazione che l’attributo compie nel sintagma “giudice comunista” non è di semplice denuncia, quanto di effettiva svalutazione del primo termine a vantaggio del secondo. In questo rovesciamento, con cui l’attributo divora senza resti il proprio sostantivo, “giudice” non è che un banale travestimento della vera essenza del male, l’essere appunto “comunista”. Per riprendere una dichiarazione dello stesso premier, la qualifica di “comunista” associa così il suo portatore, tanto puntualmente quanto inequivocabilmente, alle cosiddette “forze del male”. Ora, che Berlusconi abbia fatto della lotta al nemico rosso una sorta di manifesto è cosa da tempo risaputa. Meno noto è il diretto corollario a questa operazione di squalifica (in senso agonistico): nel lessico politico-funzionale di Berlusconi, “comunista” non è il nemico, non l’opposizione né tanto meno l’alternativa, ma il crimine incarnato e il male assoluto (pericoloso paragone con l’amministrazione Bush e l’utilizzo di operatori quali “asse del male” e “stato canaglia”). E di fronte al crimine, di fronte al male fattosi persona, non c’è più nulla che venga risparmiato, non vi è più mezzo che sia riconoscibile come illegittimo per perseguire la vittoria. Alcuni decenni fa Carl Schmitt poteva dunque scrivere: “Quando però si passa a considerare il nemico che si combatte un vero e proprio criminale, quando la guerra diventa per esempio come una guerra civile tra nemici di classe, il suo scopo primario è l’annientamento del governo dello Stato nemico […]. E’ questa la logica di una guerra per una justa causa senza il riconoscimento di un justus hostis”.
marco
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