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Avere stile costa poco, costa davvero poco. Non passa giorno senza che i nostri parenti, i nostri educatori, i nostri amici più intimi ci confortino con questa folgorante verità. Nemmeno la pubblicità si esime più (forse non l’ha mai fatto) dal compito di indicarci la strada che veloce conduce verso questa redenzione egualitaria. Avere stile costa così poco, dopotutto, che ciascuno di noi è singolarmente chiamato a farsi carico di questa piccola spesa, di questo misero sacrificio. Affinché noi tutti possiamo così distinguerci grazie all’acquisizione di un certo stile. Va da sé che il concetto di stile in questo caso si ricollega, almeno in apparenza, alla terza delle sue definizioni: ciascuno di noi è dunque singolarmente chiamato alla distinzione e all’eleganza, ciascuno è chiamato ad acquisire (ad acquistare) il proprio stile, per rivestire ed abbellire in tal modo la propria vita, sotto pena di ricadere in quell’umanimalità abbietta e informe che per Debord costituisce il fuori del conformismo delle pratiche sociali.
In realtà non si tratta tanto di abbellire la vita, rendendola elegante (alcuni decenni fa, altri avrebbero detto senza eufemismi: “degna di essere vissuta”), quanto di conformarla effettivamente alla particolare forma dell’epoca, ansiosa di incatenare tutto ciò che può costituire nei suoi confronti un affronto, e un resto informe e inassimilabile. Ecco allora che avere stile non è più la promessa di dignità o di distinzione, ma l’ingiunzione rivolta a ciascuno dalla propria epoca, affinché essa si manifesti fin nella carne, o meglio: affinché essa rivesta la carne di ciascuno con i suoi tratti caratteristici e distinti. (Penso ad una recente pubblicità dell’Outlet Village: una donna qualunque, tratti banali, pelle di un grigio monocolore, riceve il proprio splendore e la propria appariscenza grazie ad una serie di accessori colorati che occultano con opulenza la sua impersonalità. E’ forse in questa appariscenza imposta e al tempo stesso desiderata che si connettono la prima, la seconda e la terza definizione, l’eleganza individuale e il respiro suadente dell’epoca.)
Tuttavia l’idea secondo la quale qualcosa come uno stile possa essere acquisita (acquistata) così facilmente non è sempre stata di dominio comune. Ad esempio, secondo Roland Barthes, lo stile nasce dalla natura fisica e dal passato di un uomo o di una donna, i quali si trovano avvolti dal proprio stile più per la sollecitazione dei primi che per una loro intima intenzione. Stile, dunque, inteso nel senso della seconda definizione, come un modo abituale di essere che ricorda tanto una costruzione diroccata ed esposta alle intemperie del tempo, alle ferite degli incontri e degli attraversamenti. Tutto il contrario dunque di questo stile a buon mercato che nasce per coprire e riplasmare la natura fisica, e che colma gli anacronismi e le incongruenze del passato con l’eterno presente bloomesco dell’epoca che lo secerne. Un modo dunque per permettere forzatamente a ciascuno di essere – ossimoro post-moderno – distinto come gli altri, naturalmente a buon mercato, appunto. Avere stile costa poco. Basta un piccolo sacrificio ed eccoci aperta la porta di un nuovo splendore, di quell’unico splendore – acquisito, artificiale, educato – che sappia allontanare gli spettri dell’abbietto e dell’indegno. Di più: avere stile costa talmente poco che quello che ci è richiesto in cambio – in sacrificio – è esattamente ciò da cui vogliamo separarci (nella nostra ingenuità confondiamo così grossolanamente la separazione con la distruzione).
Dopotutto, di quale sacrificio si tratterebbe? Cosa ci verrebbe chiesto di sacrificare per avere in cambio questo stile? Non si tratta certo – per quanto la pubblicità sembri alludere a ciò – di quel poco denaro che, in ogni caso, ci è soltanto dato in prestito. Né tanto meno della nostra forza lavoro, che nostra in un certo senso non lo è mai stata (almeno dal momento in cui è stata definita tale), e così nemmeno questo corpo che sempre più si dà a noi in una modalità comune a ciò che è estraneo ed espropriato (dai poteri, dalle relazioni e dalle tecniche, dall’immaginario, in un certo qual modo – e più radicalmente – anche dalla sua stessa esposizione).
Ecco la questione: a fronte di un corpo sempre più espropriato, la pubblicità allude ad una promessa tanto di appropriazione quanto di appropriatezza. “Abbiate stile!”, e sarete appropriati: tutto questo al costo irrisorio di quel nulla che coincide con ciò che ciascuno ha di proprio. “Abbiate stile!”, e il vostro corpo sarà a voi appropriato, nella misura in cui voi, surrettiziamente, ve ne sarete appropriati (senza tuttavia serbare riguardo per il pericoloso tramite che intercede in questo movimento).
“Abbiate stile!”, e sarete appropriati. In altri termini: e sarete stati appropriati da quel meccanismo indistinto che concede identità solo a patto di renderle ciascuna uguale all’altra nella loro perfetta sostituibilità.
A chi ancora, forse per paura dei comunismi che furono, si chiede ancora se sia preferibile ottenere la libertà o l’uguaglianza, quest’epoca risponde recidendo con spada: “Abbiate stile!”, ed ecco che tutti, come per incanto, otterranno la libertà di essere tutti uguali nella compiutezza della perfetta sostituibilità.
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