Torino. Lentamente spariscono i cartelli elettorali. E’ un movimento residuo, stanco e sporco quello dei volti, dei molteplici nomi che si allontano dai muri della città. Il passaggio del tram sulle rotaie perde parte della comunicazione che per un paio di mesi ha occupato i luoghi che separano passeggeri da esterni. Questi ultimi, spettatori elettorali; i primi: pubblico dei riflessi che toccano i vetri dei negozi e dei mezzi prima di proiettare il volto-candidato nelle pupille. Affissioni ed ogni genere di scritta. Il privato partitico (quella vita del candidato che comunque deve interessare: i nomi dei figli, il tempo libero, passioni e grandi rinunce) è esposto nelle strade. Il pubblico quindi è eroso da una ciclica esposizione pubblica del privato. Il punto focale, la macchina da presa si fissa sulle immagini didascaliche di quelle elezioni regionali che terminano ora. Per un attimo, nell’istante in cui i volti dei candidati cedono (vengono staccati dagli edifici), rimane un piccolo frammento di vuoto. E’ lo spazio in cui si incontra l’addetto alle affissioni con del tabacco in bocca lungo il fiume e preso nella lentezza della sua attività comunicativa collosa. In questo momento si installa una certa indecisione, una mancanza che è presto ricondotta, ridotta alla copertura del nuovo ammasso di messaggi. Eventi, promozioni, prodotti e stimoli ai lettori passanti. E’ il terreno finto della liberazione ciclica. Non si tratta di una vero e proprio annullamento, ma piuttosto di un allentamento, comunque piuttosto pericoloso nella mobilitazione globale delle scritte comunicanti. L’agitazione è ricondotta a normalità espositiva; l’incalzo di una perpetua pace terrificante. A Torino i cartelli elettorali sono scrostati, rimane tuttavia tutto ciò che occupa di carta l’azione politica.
Rughe
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