Verona. L’epidemia simbolica che colpisce ciclicamente la città in concomitanza delle elezioni – siano esse politiche o studentesche, non c’è differenza – manifesta lo stato di degrado del tessuto politico cittadino. Quando il conflitto cambia configurazione spostandosi dal piano dei discorsi a quello dei simboli, esso scivola inevitabilmente nella dimensione supervisionata dal mercato e accessibile soltanto tramite il consumo. Non tanto un consumo spettacolare, quanto un consumo più radicalmente (meta)fisico; non si tratta tanto della passività con cui spettatore osserva il teatrino dei simboli, quando piuttosto la collosità del simbolo, quella sua penetrazione massiccia in ogni faglia dell’esistenza.
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Fisso questo simbolo, con un certo senso di dejà-vu. Nella novità delle sue forme non ritrovo altro ormai che la consueta ingiunzione al consumo: logo e marca leggermente differenti, ma la stessa funzionalità e la stessa sostituibilità di tutti gli altri. Sullo scaffale elettorale, così come sui muri dei vicoli della città, ecco susseguirsi le vedette della politica: fulmini, tartarughe, tricolori, gentili silouhettes ammiccanti, croci e qualche rara falce, una lettera cerchiata. Il simbolo, la protesi contemporanea per le identità politiche in crisi, la promessa più rassicurante e allo stesso modo più autoritaria (forse perché senza voce), perfettamente aderente al piccolo bloom zelante incamminatosi sulla strada dell’obbedienza… a cosa? Il simbolo, in questo, ha a che fare con la mitologia, e con una forma spettrale di ideologia. Esso non ci impartisce direttive, ma, complice la sua perfetta aderenza, ci invita a cercare proprio qui, in noi stessi, i modi più adeguati per confermare la nostra adesione alla sua promessa. Per accoglierlo come unico collante del sociale, a dispetto di ogni prossimità, di ogni esposizione, di ogni… (o forse proprio contro di esse, contro i nostri aspetti più comuni). E così il simbolo ha a che fare con il consumo, ma anche con il bricolage identitario, un certo fai-da-te dell’obbedienza, nelle sue forme più decondificate.
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E’ forse possibile consumare un simbolo? Nutrirsi di simboli? All’insistenza di questa domanda possiamo solo ribattere con la nostra convinzione, secondo la quale certo ci si può consumare attraverso di essi.
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Fisso questo simbolo, con un certo senso di dejà-vu. Nella novità delle sue forme non ritrovo altro ormai che la consueta ingiunzione al consumo: logo e marca leggermente differenti, ma la stessa funzionalità e la stessa sostituibilità di tutti gli altri. Sullo scaffale elettorale, così come sui muri dei vicoli della città, ecco susseguirsi le vedette della politica: fulmini, tartarughe, tricolori, gentili silouhettes ammiccanti, croci e qualche rara falce, una lettera cerchiata. Il simbolo, la protesi contemporanea per le identità politiche in crisi, la promessa più rassicurante e allo stesso modo più autoritaria (forse perché senza voce), perfettamente aderente al piccolo bloom zelante incamminatosi sulla strada dell’obbedienza… a cosa? Il simbolo, in questo, ha a che fare con la mitologia, e con una forma spettrale di ideologia. Esso non ci impartisce direttive, ma, complice la sua perfetta aderenza, ci invita a cercare proprio qui, in noi stessi, i modi più adeguati per confermare la nostra adesione alla sua promessa. Per accoglierlo come unico collante del sociale, a dispetto di ogni prossimità, di ogni esposizione, di ogni… (o forse proprio contro di esse, contro i nostri aspetti più comuni). E così il simbolo ha a che fare con il consumo, ma anche con il bricolage identitario, un certo fai-da-te dell’obbedienza, nelle sue forme più decondificate.
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E’ forse possibile consumare un simbolo? Nutrirsi di simboli? All’insistenza di questa domanda possiamo solo ribattere con la nostra convinzione, secondo la quale certo ci si può consumare attraverso di essi.
Marco
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