Ieri sera, a mezzanotte, mi sono accorto che era oggi, e mi son messo a lavare i piatti. Ho rotto un altro bicchiere. Il quarto bicchiere blu su cinque che avevamo. Avevo fatto cadere anche una tazza irlandese appena venuto a vivere qua, ed era un regalo. Forse dovrei cambiare abitudini, ma a cucinare vicino a un lavello sporco mi sembra di far piangere le cipolle e i piatti stavano lì già da tre giorni.
Da piccolo, prima di andare a letto, aprivo il cassetto della cucina per controllare che nello spazio delle forchette ci fossero almeno due forchette, e in quello dei cucchiai almeno due cucchiai, e lo stesso per i coltelli.
Se qualche posata era rimasta da sola, ne prendevo una dallo scolapiatti e gliela mettevo vicino, perché mi dispiaceva che si addormentasse da sola. Poi sono cresciuto, e ho imparato che le posate non sognano mica. E ho iniziato a far cadere i bicchieri…
La settimana scorsa sono stato un paio di giorni dai miei. La domenica mattina mia madre mi ha svegliato per farmi conoscere Roberto, un amico che era passato a bere un caffè. Come i miei genitori, Roberto è un testimone di Geova, sulla sessantina d’anni, ed era venuto insieme a un altro ragazzo di cui non ricordo il nome. Quando
sono sceso in salotto stavano chiacchierando del più e del meno, di Dio e della Bibbia. Ero stanco e non avevo granché voglia di parlare, e stavo a disagio a causa del testimone più giovane. Aveva un bel volto, con un che di nordico, molto curato e
pulito. Però la sua sembrava una faccia senza ricordi, o della quale, perlomeno, non sarei riuscito a raccontare qualcosa. Una faccia che faceva bene quello che doveva fare, ovvero predicare che non bisogna peccare, perché il peccato, si sa, è un brutto ricordo.
Un calice di vino mezzo pieno che ti dicono di non bere che sa di aceto. È che a un certo punto capita, all’improvviso, di accorgersi che il proprio bicchiere è crepato e mezzo vuoto, e allora lo cambi con uno migliore, pieno di un succo fresco che puoi bere quando vuoi. La Bibbia, ad esempio, è una “teologia del bicchiere”, una coppa che ci puoi sorseggiare l’acqua della vita. E l’acqua della vita, fosse pure soltanto per educazione, non è qualcosa che si può bere a collo. Ci serve un bicchiere. E se sei fortunato, magari l’acqua si trasforma in vino.
Non ce l’ho coi bicchieri: anch’io ne ho qualcuno. Il problema, tuttalpiù, è che li
rompo. Quel che non capisco è la faccenda delle metà. Un vecchio all’osteria diceva che un boccale mezzo vuoto è da riempire e uno mezzo pieno da finire. E per la
miseria, un bicchiere è solo un bicchiere, e a volte è bello bere con le mani o tracannare da una bottiglia. Poi, forse, mi sbaglio. Un bicchiere non è solo un
bicchiere, o meglio, è quello che è in relazione a quello che ci si dovrà bere. Voglio dire, l’ampiezza della pancia di un calice, il bevante, varia a seconda
delle caratteristiche gustative del vino, e lo devi riempire fino al punto in cui è più largo, cosicché il vino abbia la più ampia superficie possibile a contatto con
l’aria; il calice va impugnato con il piede che sta tra il medio e l’indice, con quest’ultimo che tiene fermo lo stelo grazie all’aiuto del pollice: le dita non
devono mai toccare il bevante, onde evitare che gli odori cutanei interferiscano con quelli enologici, senza contare che la temperatura della bevanda ne verrebbe alterata. Questo, però, per i calici da vini, o anche da spumanti, come il flûte. Se si vuole del cognac o del brandy, ci serve il balloon, un calice dallo stelo corto che, invece, va tenuto col palmo della mano a contatto della pancia per riscaldare
leggermente il liquore, in modo tale da sprigionarne l’aroma. Ancora, per i cocktail c’è il tumbler, di forma cilindrica leggermente svasata, che può essere basso medio o alto, a seconda che si utilizzi o meno il ghiaccio o che si prepari qualcosa
a base di frutta. A me non piace molto lo stem cocktail glass, non tanto per il profilo conico rovesciato, quanto perché ho una certa antipatia per il Martini.
Preferisco senza dubbio lo shot, un bicchiere pensato così piccolo durante il proibizionismo, un’epoca in cui bisognava bere alla svelta. Per continuare si potrebbe parlare della birra e delle forme e misure e decorazioni dei boccali, e sarebbe un bel racconto.
Eppure, un bicchiere è solo un bicchiere. Noi a casa, prima che arrivassi io, ne avevamo quattro in più. Ora ce ne sono rimasti sei o sette, due boccali rubati al bar e qualche tazzina. Quando la sera arriva qualche amico, si beve dove capita. Infondo il vino non è male anche in una tazza per il tè, e per non comprometterne
l’aroma puoi sempre impugnarla con il pollice e l’indice per il manico. Sarà che non è trasparente, ma con una tazza non ti chiedi se è mezza piena o mezza vuota, perché è una tazza ed è abbastanza semplice. I bicchieri sono più complicati, cadono per terra così facilmente e non te ne accorgi. Ho rifatto quel sogno stanotte, credevo di
essermene dimenticato. Ma è difficile, perché Dio è un bicchiere sfuggito di mano che
mi han tirato in testa e mi è rimasto il bernoccolo qua. Per fortuna Dio è un bicchiere mezzo vuoto e la botta non i vede troppo.
Adesso è quasi ora di cena, fra poche ore è mezzanotte e anche oggi non ti ho visto. Penso andrò a cucinare qualcosa, sperando per l’ultimo bicchiere blu che qualcun
altro laverà i piatti.
Da piccolo, prima di andare a letto, aprivo il cassetto della cucina per controllare che nello spazio delle forchette ci fossero almeno due forchette, e in quello dei cucchiai almeno due cucchiai, e lo stesso per i coltelli.
Se qualche posata era rimasta da sola, ne prendevo una dallo scolapiatti e gliela mettevo vicino, perché mi dispiaceva che si addormentasse da sola. Poi sono cresciuto, e ho imparato che le posate non sognano mica. E ho iniziato a far cadere i bicchieri…
La settimana scorsa sono stato un paio di giorni dai miei. La domenica mattina mia madre mi ha svegliato per farmi conoscere Roberto, un amico che era passato a bere un caffè. Come i miei genitori, Roberto è un testimone di Geova, sulla sessantina d’anni, ed era venuto insieme a un altro ragazzo di cui non ricordo il nome. Quando
sono sceso in salotto stavano chiacchierando del più e del meno, di Dio e della Bibbia. Ero stanco e non avevo granché voglia di parlare, e stavo a disagio a causa del testimone più giovane. Aveva un bel volto, con un che di nordico, molto curato e
pulito. Però la sua sembrava una faccia senza ricordi, o della quale, perlomeno, non sarei riuscito a raccontare qualcosa. Una faccia che faceva bene quello che doveva fare, ovvero predicare che non bisogna peccare, perché il peccato, si sa, è un brutto ricordo.
Un calice di vino mezzo pieno che ti dicono di non bere che sa di aceto. È che a un certo punto capita, all’improvviso, di accorgersi che il proprio bicchiere è crepato e mezzo vuoto, e allora lo cambi con uno migliore, pieno di un succo fresco che puoi bere quando vuoi. La Bibbia, ad esempio, è una “teologia del bicchiere”, una coppa che ci puoi sorseggiare l’acqua della vita. E l’acqua della vita, fosse pure soltanto per educazione, non è qualcosa che si può bere a collo. Ci serve un bicchiere. E se sei fortunato, magari l’acqua si trasforma in vino.
Non ce l’ho coi bicchieri: anch’io ne ho qualcuno. Il problema, tuttalpiù, è che li
rompo. Quel che non capisco è la faccenda delle metà. Un vecchio all’osteria diceva che un boccale mezzo vuoto è da riempire e uno mezzo pieno da finire. E per la
miseria, un bicchiere è solo un bicchiere, e a volte è bello bere con le mani o tracannare da una bottiglia. Poi, forse, mi sbaglio. Un bicchiere non è solo un
bicchiere, o meglio, è quello che è in relazione a quello che ci si dovrà bere. Voglio dire, l’ampiezza della pancia di un calice, il bevante, varia a seconda
delle caratteristiche gustative del vino, e lo devi riempire fino al punto in cui è più largo, cosicché il vino abbia la più ampia superficie possibile a contatto con
l’aria; il calice va impugnato con il piede che sta tra il medio e l’indice, con quest’ultimo che tiene fermo lo stelo grazie all’aiuto del pollice: le dita non
devono mai toccare il bevante, onde evitare che gli odori cutanei interferiscano con quelli enologici, senza contare che la temperatura della bevanda ne verrebbe alterata. Questo, però, per i calici da vini, o anche da spumanti, come il flûte. Se si vuole del cognac o del brandy, ci serve il balloon, un calice dallo stelo corto che, invece, va tenuto col palmo della mano a contatto della pancia per riscaldare
leggermente il liquore, in modo tale da sprigionarne l’aroma. Ancora, per i cocktail c’è il tumbler, di forma cilindrica leggermente svasata, che può essere basso medio o alto, a seconda che si utilizzi o meno il ghiaccio o che si prepari qualcosa
a base di frutta. A me non piace molto lo stem cocktail glass, non tanto per il profilo conico rovesciato, quanto perché ho una certa antipatia per il Martini.
Preferisco senza dubbio lo shot, un bicchiere pensato così piccolo durante il proibizionismo, un’epoca in cui bisognava bere alla svelta. Per continuare si potrebbe parlare della birra e delle forme e misure e decorazioni dei boccali, e sarebbe un bel racconto.
Eppure, un bicchiere è solo un bicchiere. Noi a casa, prima che arrivassi io, ne avevamo quattro in più. Ora ce ne sono rimasti sei o sette, due boccali rubati al bar e qualche tazzina. Quando la sera arriva qualche amico, si beve dove capita. Infondo il vino non è male anche in una tazza per il tè, e per non comprometterne
l’aroma puoi sempre impugnarla con il pollice e l’indice per il manico. Sarà che non è trasparente, ma con una tazza non ti chiedi se è mezza piena o mezza vuota, perché è una tazza ed è abbastanza semplice. I bicchieri sono più complicati, cadono per terra così facilmente e non te ne accorgi. Ho rifatto quel sogno stanotte, credevo di
essermene dimenticato. Ma è difficile, perché Dio è un bicchiere sfuggito di mano che
mi han tirato in testa e mi è rimasto il bernoccolo qua. Per fortuna Dio è un bicchiere mezzo vuoto e la botta non i vede troppo.
Adesso è quasi ora di cena, fra poche ore è mezzanotte e anche oggi non ti ho visto. Penso andrò a cucinare qualcosa, sperando per l’ultimo bicchiere blu che qualcun
altro laverà i piatti.
Paolo
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