IL TEMPO DI ORA

Progressivo slittamento nel cuore di Torino: movimento che da orizzontale diviene verticale, in un istante. I ritardi del treno non dilatano il tempo, come spesso si ritiene, ma preannnunciano tutt’al più la sospensione temporale del tempo di ora, un lungo Jetztzeit dalla durata incerta di diversi giorni (se il concetto di durata ha ancora un senso).
Movimento verticale, vertigine di caduta, senza appiglio per la caviglie che agitano a vuoto, pesate dalla gravità. Di colpo si impone il paradosso del momento, secondo il quale, nonostante la sospensione del tempo, la leggerezza immediata in cui tutto accade, permane come non mai una certa gravità delle cose. Meglio: nelle cose, nei corpi. Hic et nunc i corpi ac-cadono, precipitano nel tempo di ora e gravano gli uni contro gli altri, gli uni con gli altri. Sfregamento che odora di zolfo, mentre il fiammifero non ricorda il tempo in cui aveva ancora la testa. Il tempo di ora non arriva a compimento, piuttosto ne raggiunge una parte di frazione di secondo. Esso non arriva a compimento perché si spande e si ritrova in tutto, fuorché in un riepilogo, né tanto meno in una narrazione che possa riprenderlo. Esso non arriva a compimento perché è già compiuto nel suo darsi – tutto lì tutti noi tutto contratto in quella frazione di secondo, buco nero della cronologia che attira i nostri corpi con incalcolabile densità. E l’unità di misura diviene non solo insufficiente al calcolo; ma il calcolo stesso si rivela mancante, un inganno di prospettiva. O di lettura. La lettura analitica (segmentale) del tempo è mostrata incapace di contenere qualsiasi appiglio al tempo. Questo rifugge, scivola melmoso ad ogni pre(te)sa di orologio. Si narra che durante le notti della Comune parigina, gli insorti sparassero agli orologi, nel tentativo di arrestare lo scorrere tempo. Tuttavia non occorre arrestare volontariamente il tempo, dal momento che ogni componente volitiva è catturata senza scampo nel nuovo movimento, indifferente a quello lineare della storia e della biografia. Blackout: movimento cosmico e molecolare si richiamano, due stelle si allontanano, due singolarità si toccano (si allontanavano davvero poi…?). Stelle e corpi annodati in un’unica costellazione in stallo e tremolante al tempo (stesso). (E’ tutta qui la sapienza degli antichi astrologi, ma senza alcun determinismo. E’ tutta qui la precisione appropriata al titolo di un libro, ma diffusa a livello molecolare: “Et l’un(e) ne bouge pas sans l’autre”.) E’ questo un tentativo di scrivere della rottura del quadrante abitudinario che consente la verbalizzazione, il racconto sul passaggio temporale. Da qui il nostro disagio nello stendere questa archeologia di qualcosa che si dà senza alcuna arché, deponendo ogni potere, sventando ogni rispetto nei confronti della storia e di ogni presunta origine: tempo anarchico per necessità. Da qui anche un certo esoterismo di questa scrittura. Chi ha orecchie per intendere non potrà comunque sottrarsi ad un certo non-sapere, nei confronti del quale ogni ac-cadere funge da piccolissima porta d’ingresso. Quell’accadimento che frantuma lo strato di pelle rafferma che copre la carne viva della vertigine nei secondi. E’ l'”ora” ne “il tempo di ora”. Qualcosa che si pone nel confine tra presenza ed assenza, pur occupandole tutte e due al medesimo accadere. Sincronizzazione della rivolta. Nella narrazione. Nel suo fallimento.
Marco e Rughe