
New Italian Epic è una interessante riflessione sulla scrittura italiana compresa a grandi linee fra il 1993 e il 2008. Una riflessione che mette in gioco già da subito la condizione degli scrittori: trovarsi di fronte ad una proliferazione di metafore morte, al cimitero dei discorsi. Leggendo pensavo a Luisa Muraro, quando raccontava – partendo da Jackobson – il linguaggio come risultante di due grandi movimenti: quello metaforico e quello metonimico. Il primo che crea, seleziona le parole, il secondo che le combina tra di loro. Banalizzando, il primo – seppur necessario – come qualcosa che fa perdere concretezza, che produce segni e ne carica il significato, il secondo come qualcosa che si fa strada fra i segni che già ha a disposizione per trovarne una risultante combinatoria. Parlava dunque del regime di ipermetaforicità, quella situazione in cui l’asse metaforico vien fatto prevalere sul metonimico. Qui si passerà il tempo a inventare parole di enorme significazione e mai equivoche, a deframmentare esperienze, a correggere connessioni, a chiarire sinonimi. Si interpreteranno e capiranno segni che proprio per questo agiranno come segni, con una traduzione ogni volta più metaforica e di contenuto, piuttosto che metonimica e d’espressione. Una produzione simbolica disincarnante capace di far raggiungere le più estreme conseguenze del pensiero senza sentirne il peso [si potrebbe aprire una bella parentesi su casapound]. Un vicolo cieco. In questi termini lo scrittore italiano è chiamato a fare i conti con questa realtà che non è altro che il suo quotidiano. Ecco dunque come potrebbe delinearsi la New Italian Epic: un rimettersi in gioco, un lasciar fluire l’asse metonimico, l’espressione – qualcuno diceva che è l’espressione che trascina il contenuto – nell’impossibilità di scrivere se non con strizzate d’occhio, alibi o escamotage.
Matrice della nebulosa New Italian Epic sembra essere un’irreparabile saldatura tra narrativa e comunità, riflessa in una certa compartecipazione allegorica. Questa presenza di allegorie non si riduce ad essere un mero dire qualcosa per dire qualcos’altro. Se l’evocazione di un passato porta inevitabilmente con sé una cifra del presente; se la narrazione di un accaduto è necessariamente la risultante di un adesso che scrive, il carattere allegorico delle opere New Italian Epic si presenta come una serie di produzioni metastoriche, prive di una chiave da trovare una volta per tutte. In questo punto che Wu Ming intravede la sfida dell’allegoritmo, ossia la ricerca di un algoritmo che faccia da trama alle allegorie presenti dei romanzi, paragonando con auspicio tale ricerca a quella sul Dna: uno studio che possa portare a risultati che la normale critica sui generi di certo non riuscirà mai a raggiungere.
Appunto personale (o dialogo con il primo saggio): credo invece si debba ripartire dalla metafora – abusata in un regime ipermetaforico del linguaggio – pensandola come derivato dell’analogia. Se infatti quest’ultima può essere definita come un confronto di relazioni, la metafora ne è il superamento attraverso il legame simbolico tra queste. Ora, lungi dall’essere una metafora, l’allegoria è il preciso rifiuto di questo legame; essa, più che consacrare il confronto fra le relazioni che mette in gioco l’analogia, fa svolgere una duplice catena in cui le due relazioni hanno un minimo di contatti, cristallizzando la loro somiglianza senza ridurne la distanza. In questo modo l’allegoria stessa sembra essere la risposta implicita al regime di ipermetaforicità postmoderno, impedendo la metaforizzazione disimpegnata. L’allegoria non produce immagini. Essa piuttosto convoglia le tensioni estetico-politiche contemporanee della sua scrittura. Se esiste dunque una matrice comune alle allegorie della nuova epica italiana, questa sarà da ricercare, secondo me, in ciò che tra scrittori e lettori – passando per tutti gli altri – si rivela come collettività. Collettività che circola nelle narrazioni quotidiane fino a farsi singola vita. E che a ripartire da questa racconta, legge e scrive storie, in un presente che perde la sua immagine di passaggio per rivelarsi arresto ed equilibrio con il passato; valenza politica di un’immedesimazione emotiva.
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