Nessun timore. Non ci sono disagi. Il fallimento eclatante della protesta dei ricercatori ha dimostrato di essere l’unico orizzonte, già inscritto all’interno della stessa presa di posizione a favore della protesta. Tutto continua come se nessun ricercatore avesse mai alzato la voce o anche solo preso parola di fronte alle istituzioni. I ricercatori hanno fallito, la protesta si è rivelata già da sempre nella sua inconsistenza. Beninteso, tale fallimento non è certo imputabile ad alcuna mancanza attribuibile alla protesta stessa, ad errori strategici o tattici imputabili alla sua conduzione. La protesta è fallita poiché la macchina universitaria ha fin da subito decretato l’inessenzialità della figura del ricercatore, il suo ruolo perfettamente compatibile con quello di qualunque figurante dell’istruzione, ruolo per ciò stesso altrettanto perfettamente sostituibile.
E così si sono visti richiamare professori in dismissione, riesumarne altri che avevano già adottato i panni della pensione. Senza contare inoltre i numerosi posti vacanti assegnati a dottorandi, compromettendone il proprio incarico specifico in favore di un altro a cui certo non erano stati – se non preavvisati – per lo meno preparati. La protesta dei ricercatori è fallita perché l’università ha deciso in merito alla loro inessenzialità, o meglio: perché ne ha decretato la cancellazione a fronte del bisogno imperante e ineluttabile di continuare, di proseguire con l’offerta formativa. Costi quel che costi: costi la perdita di chi si è distinto per le proprie conoscenze e per le proprie abilità professionali, costi la compromissione stessa della qualità degli insegnamenti, costi l’offerta di discipline e cattedre (in termini qualitativi e non assoluti). La protesta è fallita, non ci stancheremo di affermarlo, perché nessun buon lavoro – lavoro arricchito di fatica, impegno costante e imprevisti – vale più di un qualunque lavoro, se quest’ultimo si permette la capacità di garantire risultati continui, seppur scadenti. L’Università ha scelto in favore della continuità, cancellando con un colpo di spugna, come si trattassero di tante macchie opache, le singolarità resesi conto – forse troppo tardi? – della situazione insostenibile a cui erano state destinate, a cui erano inchiodate. Ci si dovrebbe soffermare sulla questione che una tale inessenzialità, di cui tutti noi siamo marchiati, solleva in questi momenti. E tuttavia l’urgenza ci costringe anche a pensare ad altro, a quello che gli studenti, i dottorandi, i professori non hanno – o peggio, hanno – fatto per contribuire al fallimento della protesta, in qualità di altrettanti ingranaggi funzionali e gratifica(n)ti. Pensiamo soprattutto agli studenti, l’unico vero ingranaggio essenziale, la moneta vivente dell’Università: a fronte della perfetta sostituibilità dei ricercatori con qualsiasi figurante capace di garantire continuità alle lezioni, solo gli studenti restano insostituibili in quanto soggetti paganti – del resto, dove scovare altri disposti a spendere soldi così ciecamente, noncuranti dell’istruzione (purché, beninteso, essa in qualche modo si dia e venga riconosciuta)?
E così si sono visti richiamare professori in dismissione, riesumarne altri che avevano già adottato i panni della pensione. Senza contare inoltre i numerosi posti vacanti assegnati a dottorandi, compromettendone il proprio incarico specifico in favore di un altro a cui certo non erano stati – se non preavvisati – per lo meno preparati. La protesta dei ricercatori è fallita perché l’università ha deciso in merito alla loro inessenzialità, o meglio: perché ne ha decretato la cancellazione a fronte del bisogno imperante e ineluttabile di continuare, di proseguire con l’offerta formativa. Costi quel che costi: costi la perdita di chi si è distinto per le proprie conoscenze e per le proprie abilità professionali, costi la compromissione stessa della qualità degli insegnamenti, costi l’offerta di discipline e cattedre (in termini qualitativi e non assoluti). La protesta è fallita, non ci stancheremo di affermarlo, perché nessun buon lavoro – lavoro arricchito di fatica, impegno costante e imprevisti – vale più di un qualunque lavoro, se quest’ultimo si permette la capacità di garantire risultati continui, seppur scadenti. L’Università ha scelto in favore della continuità, cancellando con un colpo di spugna, come si trattassero di tante macchie opache, le singolarità resesi conto – forse troppo tardi? – della situazione insostenibile a cui erano state destinate, a cui erano inchiodate. Ci si dovrebbe soffermare sulla questione che una tale inessenzialità, di cui tutti noi siamo marchiati, solleva in questi momenti. E tuttavia l’urgenza ci costringe anche a pensare ad altro, a quello che gli studenti, i dottorandi, i professori non hanno – o peggio, hanno – fatto per contribuire al fallimento della protesta, in qualità di altrettanti ingranaggi funzionali e gratifica(n)ti. Pensiamo soprattutto agli studenti, l’unico vero ingranaggio essenziale, la moneta vivente dell’Università: a fronte della perfetta sostituibilità dei ricercatori con qualsiasi figurante capace di garantire continuità alle lezioni, solo gli studenti restano insostituibili in quanto soggetti paganti – del resto, dove scovare altri disposti a spendere soldi così ciecamente, noncuranti dell’istruzione (purché, beninteso, essa in qualche modo si dia e venga riconosciuta)?
Le lezioni continuano, lo spettacolo pure. L’Università di Verona si prende cura dei propri soggetti paganti, garantendone il diritto di sedersi ai banchi ogni giorno, in tranquillità. Vorremmo ricordare le parole di un amico, per il quale la violenza più grande consisteva nella punizione del rimanere sui banchi di scuola oltre il tempo prestabilito. Forse, seguendo i ricercatori, si dovrebbe finalmente constatare che questo tempo necessiti di essere una buona volta sospeso e destituito. Ma a tal scopo gli studenti – l’ingranaggio pagante essenziale insostituibile – dovrebbero finalmente occupare ben altro che il loro misero banchetto.
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