Una narrazione di ciò che è accaduto alla famiglia Cucchi, una illustrazione di questa e un saggio finale che arriva a sfiorare alcune riflessioni a partire dai casi italiani di violenza da parte di corpi di polizia verso corpi non di polizia.
E forse è quest’ultimo ad avere maggiore risonanza una volta finito di leggere il libro; narrare ciò che è accaduto a Stefano, ma nella misura in cui questo si faccia ulteriore punto di partenza, insieme agli altri casi, per una urgente riflessione sui corpi di polizia e soprattutto su tutto ciò che li performa incessantemente. Partendo dalla funzione dei ruoli stessi, ad un livello sociale, già Zimbardo ci suggeriva una maggiore attenzione alla struttura guardia/detenuto. Foucault stesso si chiedeva da dove venisse la singolare pretesa di rinchiudere per correggere. La struttura attuale certo non favorisce la genuina messa in questione di certi costrutti storici, dalle istituzioni (carceri, cie, ecc) alle leggi (armi da fuoco ai vigili urbani, tso, legge Reale, ecc.) passando inevitabilmente e soprattutto per il linguaggio, attraverso ciò che da un piano sociale s’è poi prodotto nell’immaginario (la sicurezza, la trasparenza, il clandestino, ecc). Ruoli e posizioni dunque, ma anche linguaggi e immaginari che trasversalmente li attraversano, in un movimento performativo che produce poi i suoi sfoghi cutanei. Ciò che non si può più fare è lasciare che questi sfoghi vengano curati solo in superficie – ammesso che almeno questo si riesca a fare, tramite la giustizia. Esiste una malattia, o meglio, un certo tipo di sanità, che circola in continuazione e che ha la capacità di creare i più disparati sintomi, da Stefano a Gabriele, passando per la violenza sulle prostitute o per le cariche di Brescia degli ultimi giorni. L’urgenza è forse quella di ammalare questa sanità, almeno nella misura in cui le sia data la possibilità di mettere in discussione il suo stesso concetto di natura.
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