Il quotidiano La Stampa riportava, lo scorso mercoledì, un breve ma illuminante scorcio sulla spaccatura con cui oggi noi dobbiamo confrontarci: lo zelante opinionista di turno ricordava tempestivamente agli studenti che, se avessero continuato a protestante invece di studiare, non sarebbero mai diventati come Berlusconi. Una simile formulazione ha un importante pregio, e tuttavia anche un enorme errore di impostazione. Con poche parole, lo zelante opinionista ha saputo suggerire allo studente – e con lui, naturalmente, al ricercatore e al professore – che la protesta è lo strumento più efficace che egli ancora possiede per opporsi al berlusconismo, e per frenare quello scivolamento, così apparentemente inesorabile, che porta le singolarità a coincidere puntualmente con i figuranti funzionali allo Spettacolo. Di cosa Berlusconi sia il nome in questo discorso, è presto detto:
esso è il punto d’arrivo, il giusto scopo al cui raggiungimento ogni cosa deve tendere per poter essere accettabile e coerente. Per poter essere compiuta, per essere socialmente vincente, boriosamente realizzata a spese degli altri. Berlusconi è così metafora valida tanto per lo studente che china la testa e studia, indifferente ai movimenti incontenibili dei corpi, indifferente agli incontri disinteressati dei pensieri, affinché il suo divenire coincida senza resti con il suo dover essere. Fortunatamente, ci ricorda il solito opinionista, noi studenti abbiamo ancora la protesta quale mezzo per sfuggire, pur passando per il rotto della cuffia, alla violenza di tale sovrapposizione. Protestando, rivoltandosi, gli studenti riuscirebbero così, almeno per una volta, ad attraversare pienamente l’università senza lasciarsi annullare nella propria funzione. Almeno per una volta perché, nonostante la permanenza pluriennale all’interno del dispositivo universitario, lo studente medio difficilmente saprebbe elencare i fattori che lo costringono a trascorrere, tra un’aula e l’altra, un’esistenza quanto più simile ad un pascolo, disciplinata nelle minime attività, regolata fino alla feccia dei discorsi disponibili. Sia ad esempio il caso Mazzucco, il rettore che, di fronte alla richiesta di circa 2300 tra studenti, ricercatori, professori e presidi di facoltà, ha avuto il coraggio, la fermezza e l’incoscienza di rifiutare un’assemblea generale. Con un tale gesto, Mazzucco ha ribadito fermamente come lo studente debba – berlusconianamente… – solo studiare, senza doversi o potersi informare di come vengano decisi e gestiti gli spazi in cui vive, i discorsi che ascolta e che prontamente ripete, il denaro che versa costantemente, gli stessi docenti con cui condivide tempi e luoghi per anni. Ritenendo intempestiva e dunque negando un’assemblea che avrebbe nei fatti anticipato l’approvazione della riforma Gelmini, Mazzucco ha dichiarato che tali questioni non pertengono allo studente, che questi deve limitarsi all’in-formazione ed all’accettazione dei discorsi altrui: «Continuate a studiare se volete realizzarvi. Al resto, al decidere delle vostre vite, ci penseranno loro: di questo verrete debitamente informati».
esso è il punto d’arrivo, il giusto scopo al cui raggiungimento ogni cosa deve tendere per poter essere accettabile e coerente. Per poter essere compiuta, per essere socialmente vincente, boriosamente realizzata a spese degli altri. Berlusconi è così metafora valida tanto per lo studente che china la testa e studia, indifferente ai movimenti incontenibili dei corpi, indifferente agli incontri disinteressati dei pensieri, affinché il suo divenire coincida senza resti con il suo dover essere. Fortunatamente, ci ricorda il solito opinionista, noi studenti abbiamo ancora la protesta quale mezzo per sfuggire, pur passando per il rotto della cuffia, alla violenza di tale sovrapposizione. Protestando, rivoltandosi, gli studenti riuscirebbero così, almeno per una volta, ad attraversare pienamente l’università senza lasciarsi annullare nella propria funzione. Almeno per una volta perché, nonostante la permanenza pluriennale all’interno del dispositivo universitario, lo studente medio difficilmente saprebbe elencare i fattori che lo costringono a trascorrere, tra un’aula e l’altra, un’esistenza quanto più simile ad un pascolo, disciplinata nelle minime attività, regolata fino alla feccia dei discorsi disponibili. Sia ad esempio il caso Mazzucco, il rettore che, di fronte alla richiesta di circa 2300 tra studenti, ricercatori, professori e presidi di facoltà, ha avuto il coraggio, la fermezza e l’incoscienza di rifiutare un’assemblea generale. Con un tale gesto, Mazzucco ha ribadito fermamente come lo studente debba – berlusconianamente… – solo studiare, senza doversi o potersi informare di come vengano decisi e gestiti gli spazi in cui vive, i discorsi che ascolta e che prontamente ripete, il denaro che versa costantemente, gli stessi docenti con cui condivide tempi e luoghi per anni. Ritenendo intempestiva e dunque negando un’assemblea che avrebbe nei fatti anticipato l’approvazione della riforma Gelmini, Mazzucco ha dichiarato che tali questioni non pertengono allo studente, che questi deve limitarsi all’in-formazione ed all’accettazione dei discorsi altrui: «Continuate a studiare se volete realizzarvi. Al resto, al decidere delle vostre vite, ci penseranno loro: di questo verrete debitamente informati».
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Su un solo punto il nostro opinionista si è tuttavia sbagliato: nell’aver contrapposto protesta e studio, egli ha palesemente mancato tanto la natura della prima quanto quella del secondo. Gli studenti non hanno da scegliere l’una o l’altra cosa: essi invece possono, insieme, protestare per poter ancora garantire uno studio degno di tale nome, e studiare per garantire sempre nuove forme di protesta, sempre nuovi ed ingegnose difese contro ogni deriva despotica del dispositivo universitario.
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