La distanza, il metro ed il chilometro,la suddivisione cartesiana dello spazio che impone la pesantezza della griglia oggettiva e calcolata al territorio, rimane in tensione con una
diversa concezione dello spazio. Al di là di una misurabilità cartesiana, gli spazi risentono di
una tensione relazionale che li espande e li contrae, cedendo il passo all’intensità, al percepito, al vissuto, che la striatura cartografica vuole rendere sedimentato,compiuto e decifrabile. La cifra relazionale insita nello spazio, non solo riaccende la percezione di questo come territorio in cui si distendono e stringono rapporti tra punti intensivi. Legata al relazionale è anche la percezione delle distanze come sempre più brevi tra le città in virtù di un turismo che non risenta del noioso territorio di mezzo; il trasporto degli alimenti che non riprende un consumo locale se non come ennesima etichetta vendibile; l’impianto universitario che mantiene i corsi a debita distanza scongiurando ogni possibile contagio tra di loro e nello stesso modo alimenta insistentemente un modello di studente isolato, omologato eppure identificabile, separabile dalla folla. Ma questa cifra relazionale richiama innanzitutto lo spazio in quanto sfera dei rapporti. Lo spazio come tale è allora il territorio in cui si rendono percepibili reciprocamente queste relazioni. Lo spazio urbano come territorio in cui il soggetto vive la città (un po’ più dell’abitante a cui siamo abituati, forse), è anche e
sopratutto il campo in cui egli si relaziona. Come relazione, il conflitto, incontro-scontro delle
differenti traiettorie direzionate che caratterizzano la tensione potenziale degli individui, quella
tensione al possibile sé non ancora compiuto, è attore di primo piano nello spazio. Spazio
relazionale, spazio conflittuale. Rispetto ad un conflitto come massima apertura al possibile,
come fluidità riportata nell’altrimenti coagulato, il conflitto che trova spazio nel tessuto urbano, il conflitto che noi conosciamo è ben diverso. Come la città organizza ed amministra lo
spazio fisico, strutturando un circuito urbano capace, da un lato di intervenire sul movimento del cittadino, dall’altro sulla sfera emozionale, altrettanto struttura lo spazio relazionale. Le scuole come galere, le strade come binari, i centri commerciali come templi del consumo. La città, dunque, come pulsante tensione a costruire un intero organizzato, un organismo, struttura lo spazio all’interno dei propri confini (e non solo) in modo che sia parallelo ad essa. Il conflitto viene così, anch’esso, amministrato: su di esso pesa la striatura della città, la
sedimentazione che immobilizza il mobile che sottintende ogni relazione. Il conflitto nello spazio urbano – stando alla città, in essa si trova spazio, non c’è, non si prende, ma ci viene offerto – è così il conflitto amministrato perché reso amministrabile. Un conflitto dunque attenuato. Attenuato perché non più intenso, attenuato perché comunque mantenuto nei confini dell’accettato, attenuato perché partecipato da cittadini attenuati, già piegati e disciplinati dalla città.
Un conflitto sterile, non più conflitto, ma immobile pantomima. Il corteo, le elezioni, le lezioni, gli esami, gli spostamenti, il commercio. Sterile ripetizione dell’attenuato. La città ripropone questo conflitto attenuato – una volta al sicuro dal conflitto che potrebbe creare seri problemi di sconfinamenti dal conosciuto amministrabile – perché in questo modo offre ancora una volta relazioni, ancora una volta conflitto, ancora una volta esperienze di vissuto, ma il tutto in
uno spazio atto a contenere ed alimentare il vuoto che queste forme spettacolari portano con
sé. Una gestione del conflitto come ennesima strategia gestionale, strategia sempre coinvolgente lo spazio urbano perché in quanto tale, è spazio innanzitutto perché relazionale e conflittuale.
Elsa Valbrusa
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