Il feudo sulla scarpata

Come i grumi di intensità urbana s’accorpano agli spazi del cittadino, così l’esperienza dell’individuo preme il tessuto della lingua dove qualcosa emerge, incontenibilmente. La piazza, il quartiere, la strada che erutta nel paesaggio con gli abitanti che la scintillano, tra costruzioni, angoli, discrepanze, barriere. Curve in seguito a rettilinei costruiscono la prospettiva del circolare e quindi dell’umano.
La sintesi umana della città riguarda un affastellarsi di strutture armate che pendolano da coordinate rialzate, estese, compresse e coperte.
L’erba che cresce nei piazzali, nei parchi e nelle stazioni di transito poco curate rimanda continuamente a ciò che da sempre è costitutivo della città, pur essendone allontanato instancabilmente: la campagna.
E’ il dramma della resistenza che il lavoratore della terra oppone all’eterno rifarsi della natura: ciclicamente il gesto identico di seminare, raccogliere, tagliare, ammucchiare e disfare. Ogni atto, nello spazio campestre, rimanda al mortale. Si tratta di un ponte portato tra l’uomo e la terra fino al decesso, che solo è l’esperienza fondamentale al di sotto del paesaggio.
E così il cittadino pone il dato di una condizione al limite tra l’ombra campale e l’ordine municipale: quando il mercato si svuota, i venditori ritornano ai paesi per la nuova raccolta, mentre il cimitero che costruiva il margine ultimo della città è scavalcato da ulteriori percorsi. Case ed edifici impastano il perimetro del grande abitato che, nel dilatarsi, riceve scariche via via più intense della popolazione della campagna, e se crolla il contadino, s’impone la boscaglia, fino ai confini ultimi dei davanzali nei corsi.
Pare rimangano quadrati domestici come fortezze circondati dalla violenza delle sterpaglie. Il cittadino rimane impigliato dai reticoli di quello che fu il manovale della terra, che è sepolto laddove era il campo, ed ora discorre un religioso feudalesimo popolato di fantasmi e focolai.

Rughe