Bulgagov*

Avevo fame. Tanta fame, troppa fame. Quella fame che ti alzi dalla sedia ed inizi ad aprire tutte le ante e gli stipi e gli armadietti e il frigorifero e non c’è mai un cazzo, per intenderci. E quindi ti aggiri, nuovamente, per casa, rabbioso, aprendo ante, stipi, armadietti e frigorifero e ancora una volta non c’è niente sebbene tu abbia sperato di trovare quanto meno delle fette biscottate da mangiare così, a secco. E invece neanche quelle.
– Compro qualcosa!- urli. – un kebab!- urli più forte.
Prendi il portafoglio, lo apri, e le tue finanze si aggirano intorno ai 70 centesimi, arrotondando.
Imprechi, però puoi andare sempre a prelevare al bancomat, in piazza, sotto casa.
Poi vedi la tua immagine riflessa nello specchio della camera e ti rendi conto che hai l’espressione di un fumatore d’oppio e il pigiama con i puffi.
– No. Effettivamente non ho nessuna voglia di cambiarmi, né di uscire di casa. Ho fame adesso. La mia fame è qui, ora. –
Apri di nuovo il frigo.
– dai! Non è possibile che non ci sia nulla!-
I ripiani dei miei coinquilini, partiti per Amsterdarm, stì stronzi, vuoti, come i loro cervelli, in questo momento probabilmente. Sento persino le loro risate fastidiose, in lontananza, distorte, prolungate, con gli angoli della bocca che gli arrivano alle orecchie.
– ma andate a cagare. –
Poi, ecco che improvvisamente cambia tutto. Provate ad ascoltare la canzone don’t be light degli Air e capirete di quale atmosfera parlo.
Eccolo, il Santo Gral degli affamati. Una busta in fondo al frigo. Un sacchetto di plastica, bianco e immacolato come la Vergine Maria.
Afferro subito il mio tesoro egizio avvolto nella plastica. Chiudo il frigo con il piede mentre apro la fatidica busta.
Lo sgomento e il terrore. Delle stramaledette u o v a. Quattro uova racchiuse in una scatola di cartone grigia recante la dicitura: L’uovo Biologico! La natura direttamente a casa tua!
– ma andate a cagare! – ripeto, di nuovo.
Ho un problema con le uova. E non è colpa mia, bensì della mia immaginazione. Quando rompo le uova credo sempre di trovarvi qualcosa di strano e orribile. Feti di pulcini, zampette di qualcosa, mostri vari, macchie strane, bolle altrettanto strane. Una volta, osservando bene una di queste macchiette mi ero convinta che ci fosse qualcosa di assolutamente alieno tanto da buttare l’uovo.
Solitamente quando racconto questa cosa agli amici, sorgono due scuole di pensiero. La prima, quella degli scettici mi guarda male e risponde:
– Ok. Sei imbecille. –
La seconda, quella dei curiosi, sebbene mi guardi comunque male, risponde:
– Effettivamente potrebbe accadere…-
La mancanza di un’idea precisa e dati scientifici sull’argomento mi impedisce di pensare in maniera razionale quando mi trovo dinanzi ad un uovo.
Sperando di poterle buttare, controllo la data di scadenza ma questa è ben lungi dall’essere vicina.
Sono veramente costretta a mangiarle. Almeno due. Potrei fare una frittatina, o farle bollire, giusto per sopravvivere a questa domenica di Ottobre. Eppure l’idea di aprirle, di sentire quel “crack” del guscio che si infrange sul bordo del piatto, il bianco lattescente che si spande lento e il tuorlo che si piazza lì, al centro, ballando un po’…
Non posso più esitare però, ho troppa fame. E dunque, prendo un piatto, una forchetta, afferro queste uova fatali* le guardo, con calma, cerco di prendere aria, chiudo gli occhi, il guscio sta per rompersi….
2 GIORNI DOPO.
– Ma come? Non l’hai saputo?-
– No. Cosa?-
– è scoppiata la caldaia, domenica. C’era solo lei in casa, gli altri erano ad Amsterdam, pare che in mezzo al macello abbiano trovato un sacchetto con delle uova, integro. Assurdo.
Kafka’s colpa