Nel corso della sua storia l’uomo ha sempre cercato la bellezza nell’Arte, nella rappresentazione delle emozioni, dei sentimenti e delle passioni, in una tela come su un foglio di carta, o sulle corde di un violino o sui tasti di un pianoforte.
Ogni espressione umana ha come criterio la bellezza, così come ogni opera ha, in essa, il suo fine.
L’Arte è desiderio, fantasia, sogno di una realtà perfetta, che non esiste in alcun posto se non nello spirito, nell’anima di ogni individuo.
L’Arte è l’esaltazione dell’individualità, l’espressione dell’io per eccellenza, e per questo l’uomo ha sempre avuto bisogno di essa, perché l’essere umano è individuo, è singolarità prima che pluralità, comunità.
La società è un insieme di individualità che interagiscono tra loro, che comunicano attraverso il suono delle parole, i movimenti del corpo, i colori e le forme delle immagini. L’uomo, quindi, oltre che individuo è anche “animale sociale”, ovvero possiede un bisogno necessario di relazionarsi con l’esterno, per capire sé stesso, per riconoscere, hegelianamente, la propria essenza, la coscienza di sé.
L’Arte esprime, allora, la totalità dei bisogni umani, perché con essa l’uomo ha la capacità di esprimere sé stesso, relazionarsi con gli altri e cercare o sognare la perfezione, la bellezza, l’Assoluto.
Essa è forma dell’irrazionalità e mezzo e fine della realtà; rappresentazione della soggettività e strumento di relazione della molteplicità; insomma, è l’essenza della vita stessa, la sostanza dell’uomo.
L’Arte, per usare un’espressione del Verga, è la “manifestazione dei propri gusti, una forma di benessere, di civiltà, in fondo alla quale non c’è altro che il godimento materiale”; essa, come ricerca della bellezza, si configura allora anche come ricerca del piacere, ovvero come il tentativo di soddisfazione dei propri bisogni – materiali e intellettuali – volto al raggiungimento di un equilibrio, di un sollievo, di una pace interiore.
La bellezza è utopia, desiderio, irrazionalità allo stato puro, idealità per eccellenza, cui l’uomo tende per natura e che si ostina a cercare ed identificare con l’unico mezzo in suo possesso: la materialità, cadendo, inevitabilmente, nell’imperfezione, in una contraddizione impossibile da sciogliere.
La realtà non è mai bellezza: le si può avvicinare, ma non sarà mai perfezione assoluta.
Della bellezza le manca l’essere eterno e immutabile, l’ordine, la provvidenzialità, la semplicità.
La realtà è invece complessa, caotica, immediata, a volte senza un senso, un nesso, senza un perché.
La realtà, però, può essere mascherata da bellezza, e pur restando apparenza, “fuggevolezza”, spesso viene accettata o creduta come tale.
Ma l’inganno, prima o poi, sarà comunque rivelato, dal tempo e dalla natura stessa.
Ne è l’esempio la storia di Nanà, un romanzo del 1880 del naturalista Emile Zola, che racconta di una giovane e bellissima donna, incapace di amare, che dall’infanzia misera raggiunge l’elite della società recitando a teatro e accettando la corte di ricchi spasimanti.
In questo modo vive mantenuta fino alla morte, avvenuta per malattia.
La ragazza, che non a caso interpreta la dea Venere nelle sue opere teatrali, è oggetto di desiderio degli uomini e del pubblico, che ogni sera aspetta ansioso la sua entrata in scena per poterla ammirare; ma il vaiolo, che rapidamente la porta alla morte, rovina la sua bellezza, rendendola irriconoscibile, se non attraverso il richiamo di quei capelli che “conservavano il loro fiammeggiare di sole”.
Di lei resterà un “carnaio”, “carne marcia” buttata su un cuscino, tant’è che l’inserviente mormorerà: “ah! È cambiata, è cambiata!”.
Sul letto di morte Nanà avrebbe potuto arrivarci in tutto il suo candore, in tutta la sua bellezza divina, ma il caso, la natura, la vita, ha deciso di riservarle una fine impietosa, indegna, per un motivo incerto, senza un vero perché.
Di fronte alla tragicità della vita, alla crudele casualità della realtà, l’uomo cerca di risolvere la sua impotenza attraverso l’Arte, con cui esso finalmente può decidere, anche se non del tutto, la sorte della sua opera e, con essa, rallentare il tempo.
Alessandro Rigo
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