Terzo piano

Matteo se ne sta seduto nel divano, come uno che deve prendere una qualche decisione importante. Il divano guarda il mobile e il muro che ci sta dietro, Matteo guarda un piattino di dieci centimetri di diametro sul proprio sostegno, il piattino è storto, gli dà fastidio come per i quadri, sul piattino c’è l’immagine di una città, sopra un nome. Il corpo è affossato nel divano, Maria va avanti indietro nella stanza facendo le sue cose. Ad un certo punto Matteo fa un grosso sospiro, di quelli che quando arrivi in cima al fiato il cuore ha un sussulto, forse spinto dal polmone dilatato o forse chissà. Forse non è il cuore, ma il polmone che spinge sulla cassa toracica. Finito il sospiro Maria è ancora lì che va avanti indietro. Per un attimo Matteo ci ha sperato. Ma non è successo. Nella stanza manca un orologio a muro, si sente che manca perché l’orecchio lo cerca, in compenso ci sono i passi pesanti di Maria (è leggera però lei) e le sue soste al tavolo, Matteo suppone, visto che non la vede, dalla sedia che si sposta, l’allontanarsi per un luogo remoto oltre la porta e il suo tornare. Ineluttabile. Matteo pensa a questo. Ineluttabile. Il viso si contrae in una smorfia misurata, Maria respira e si muove, manca un orologio nella stanza, Maria non vale un orologio. Quando poi si siede è silenzio completo. Dentro. Tra una macchina e un’altra è silenzio. Da dentro. Da fuori no. Le macchine passano irregolari e fanno diversi rumori, poi i motorini, qualche camion. Non sono prevedibili, per cui distolgono. Matteo cerca di allontanarle da sé, ma più ci pensa più le sente dentro, le sente passare da un orecchio all’altro, dentro la testa (e sentirle è niente, è collegare al rumore qualcosa, che frega). Come si fa a decidere qualcosa in queste condizioni? Maria tossisce, Matteo cerca di dire qualcosa; le prime parole gli muoiono nella gola secca.
“Che palazzo strano. C’è un tizio che si chiama Montale. L’avevi notato? Sta su credo, al piano delle famiglie proprietarie. E’ sposato con una che si chiama Mereghetti. Come fai a chiamarti Montale? Credo anche di averlo visto l’altro ieri. Non poteva che essere lui. Già.” Silenzio. Maria sembra alzarsi dalla sedia diversamente che prima. I passi si allontanano verso il balcone, apre la porta ed esce. Entra rumore più forte, Matteo non può resistere, si volta. “Che c’è?” “Si sono fermati i Carabinieri sotto casa… Stanno andando all’altro ingresso.” “Lasciali perdere. Ti stavo dicendo” “Avevi finito” “Ti stavo dicendo di Montale e la Mereghetti, ma non sembra che ti interessi” “Non mi interessa”.
Matteo torna a guardare il piattino, ma adesso non funziona più. “Prima stavo salendo dal garage, avevo appena messo via la bicicletta, ero piuttosto stanco, oggi fa caldo, ero un po’ storno, stavo salendo le due rampe di scale” “Scusa” “Che c’è?” “I carabinieri non hanno trovato chi cercavano. Stanno tornando in auto, ma non sembra che vogliano andar via. Ci sono anche i vicini sul balcone”. Le parole arrivano rotte dal rumore di fuori. “Ma mi ascolti o ti interessa solo di quei due lì sotto”. “Sono più di due”.
“Ero in cima alla seconda rampa di scale quando si apre l’ascensore ed esce quella ragazza carina che sta sua dalle famiglie, chissà forse è la figlia di Montale. Sarebbe divertente. Non so. Ci siamo quasi incrociati, dico quasi perché invece che passarla mi sono messo davanti a lei, l’ho fermata e l’ho salutata.” “Vengono di qua.” “L’ho salutata. Le ho chiesto come sta. Le ho detto che fa caldo. Poi le ho chiesto se le serve qualcosa. Mi sembrava affaticata, le ho sfiorato la mano, verso il polso, mi ha passato quasi di corsa, è uscita dalla porta e sono salito”. Il silenzio di dentro viene rotto violentemente dal campanello e il piccolo video sul citofono si accende. Il riflesso della lampadina sul piattino di dieci centimetri di diametro per un attimo si oscura, come se qualcuno avesse intercettato la traiettoria. “Vai tu ad aprire?”
Paugan