In questi giorni sono incappato in un interessante saggio di Noam Chomsky del 1990 intitolato “Contenere la minaccia della democrazia”. In questo breve scritto l’autore prende le mosse dalle riflessioni del filosofo illuminista David Hume, il quale, cercando di interpretare le origini e i principi delle forme di governo, riteneva che «siccome la forza sta sempre dalla parte dei governati, i governatori non hanno altro per sostenersi che l’opinione. E’ perciò solamente sull’opinione che si fonda il governo; e questa massima si estende ai governi più dispotici e militarizzati, nonché a quelli più liberi e popolari».
Per Chomsky la realtà è però ben più arcigna e la storia ci mostra come l’idea secondo cui la forza stia dalla parte dei governati sia per lo meno discutibile. Malgrado ciò, il Noam, ritiene interessante l’intuizione di Hume e sostiene che essa riveli un “paradosso” reale: «perfino il governo tirannico si fonda in certa misura sul consenso e la cessione dei diritti è il segno distintivo anche di società più libere». Inoltre, ed è questo un aspetto centrale del saggio, ai nostri giorni la concezione del David è stata rielaborata con una cruciale innovazione: «il controllo del pensiero è più importante per i governi liberi e popolari di quanto lo sia per i governi tirannici e militarizzati». La logica è del resto molto semplice. Mentre una tirannia può controllare il nemico interno con la forza bruta, ad un governo (presunto) libero serviranno altri strumenti per impedire che le masse interferiscano nella sfera pubblica e tutti gli sforzi saranno orientati a ridurre il popolo in condizioni di passività politica. Perché ciò accada servirà che, come sostiene lo scrittore uruguaiano Eduardo Galeano, «la maggioranza deve rassegnarsi a consumare fantasia. Si vendono illusioni di ricchezza ai poveri, illusioni di libertà agli oppressi, sogni di vittoria agli sconfitti e di potere ai deboli».
Va detto che quello che abbiamo definito il “paradosso” di Hume sorge solo nel momento in cui accettiamo, come premessa, che l’istinto per la libertà sia una caratteristica della natura umana. E’ infatti l’impossibilità ad agire in base a quest’istinto che spinse Rousseau a formulare la classica doglianza dell’uomo che nasce libero ma si trova ovunque in catene. Sicuramente non concorderà con questi discorsi chi esclude che la libertà sia un diritto, ma per chi adotta la norma di buon senso secondo cui la libertà è un bisogno essenziale si troverà sostanzialmente d’accordo con il filosofo Bertrand Russell quando sostiene che l’anarchia è «l’ideale supremo a cui dovrebbe avvicinarsi la società». Torniamo però al paradosso e alla sua declinazione contemporanea per cui il controllo politico e culturale è più importante per i governi non dispotici. «Diventando la società sempre più libera e diversificata», sostiene Chomsky, «indurre alla sottomissione è sempre più complicato e svelare i meccanismi di indottrinamento diventa ancor più difficile».
Abbiamo già detto che Noam non è convinto, come David, rispetto al possesso della forza e si chiede fino a che punto essa sia davvero dalla parte dei governati. Spesso si ritiene che le società siano libere e democratiche nella misura in cui è ridotta la coercizione statale. Questa è però la classica illusione liberale e se così fosse gli Usa sarebbero di gran lunga il paese più libero, ma è chiaro come lo stato sia solo un segmento del nesso di potere. «Il controllo su investimenti, produzione, commercio, finanza, condizioni lavorative ed altri aspetti di politica sociale risiedono in mani private, e lo stesso vale per l’espressione retorica, ampiamente dominata dalle grandi società che vendono il pubblico agli inserzionisti pubblicitari e che riflettono ovviamente gli interessi dei loro proprietari e dei loro mercati»…
…continua sul prossimo numero di Pagina/13
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