Lo spettro della guerra e il riconoscimento della pace

La recente attribuzione del Premio Nobel per la Pace all’Unione Europea non avrà certo mancato di scandalizzare quanto ritenevano che il premio potesse essere attribuito soltanto a persone fisiche, per lo meno dotate di un corpo e di una voce. Del resto, già in altre occasioni la vittoria del premio era stata attribuita alle più varie organizzazioni internazionali. Non avrà mancato di scandalizzare nemmeno quanti fino a pochi giorni prima credevano ancora nell’inesistenza – o perlomeno nell’inconsistenza – dell’Unione: riconoscendo l’importanza e il valore degli atti del soggetto, la commissione di Oslo si è premurata di sottolinearne la sua identità e la sua consistenza, in un’occasione analoga a quella del 1910, con la premiazione del Bureau international permanent de la paix, o del 1938, anno in cui fu riconosciuto lo sforzo dell’Ufficio Nansen, ideatore di un passaporto per profughi e apolidi). Ben prima che simili perplessità possano essere chiarite, già si impongono tuttavia i portavoce ufficiali dello Spettacolo, pronti a suffragare il verdetto della commissione, o a rilevarne le lacune, le incongruenze oppure le semplici specificità. Ecco allora avviate le dispute politologiche sulla natura del premio, se si tratti di un’attribuzione per riconoscimento di meriti, oppure di un premio di incoraggiamento, una sorta di ammonimento vellutato, nella speranza che possa essere più efficace – come già qualcuno si è affrettato a sottolineare – di quello puntualmente toccato a Obama (e altrettanto puntualmente disatteso). Pochi tuttavia ricordano che il premio, istituito nel 1895 da Albert Nobel, non porta tale nome soltanto in relazione ai meriti attribuiti al vincitore, ma anche in base all’effettiva situazione di pace quale condizione essenziale affinché la commissione possa riunirsi e deliberare al riparo da tensioni politiche eccessivamente manifeste. (Non è un caso infatti che l’attribuzione del premio sia stata sospesa in più occasioni, nel corso degli ultimi cento anni; durante l’intera guerra civile mondiale, ad esempio, così come nel corso degli anni ’50 e della guerra fredda, o a seguito della guerra in Vietnam.) Il premio giunge così a riconoscere tanto gli sforzi compiuti quanto l’effettivo stato di pace dell’Unione Europea, premiata per aver contribuito “per oltre sei decenni all’avanzamento della pace e della riconciliazione della democrazia e dei diritti umani in Europa”. La specificazione geografica, del resto, è d’obbligo: la posizione dell’Unione Europea diventerebbe immediatamente problematica, o perfino ambigua, non appena si decidesse di prendere in questione il resto del mondo, il mondo che non è europeo, che non lo sarà mai e che così raramente ha influito sui lavori della commissione. L’Europa ha certamente (?) saputo mantenere la pace entro i suoi confini, ma al prezzo di estrinsecare le proprie tensioni in altri paesi. Non basterebbe l’intera superficie di questo foglio per tracciare la storia di violenze che ha segnato i rapporti dell’Europa con il resto del mondo, resto a cui appartengono tanto l’Algeria quanto l’Argentina, tanto l’Iraq quanto la Libia. La constatazione della pace in Europa si afferma così solo al prezzo di operare una cesura all’interno di quest’unico mondo, separando l’Europa da ciò che non è tale, decretando che le frontiere hanno ancora un chiaro significato (sì, forse l’attribuzione di una consistenza alle frontiere europee è l’operazione più forte compiuta da questo premio, ancor più dell’attribuzione di una consistenza all’Unione Europea stessa). Restano ancora numerosi dubbi, del resto, sulle considerazioni sottese a una tale cesura, che rischia costantemente di tradursi in cesura tanto geografica quanto storica, in parcellizzazione e ricostruzione artificiale di un’identità precaria al punto da compromettere la situazione che dovrebbe accoglierla. Come non pensare all’ammonimento di una mia collega, di nome Una (il nome non è inventato, per quanto indichi così bene l’aspetto comune, geniale e impersonale, delle sue riserve), studentessa d’origine serba interessata al tema dell’autobiografia? È proprio la sua provenienza – così pesante, così irremissibile, ancora segnata dagli eventi – a spingerla a ricordare che ogni presa di parola su di sé, ogni tentativo di autobiografia non può che costruirsi e mantenersi respingendo nell’oblio quanto non è funzionale, quanto permane, appunto, come un resto nei confronti del mondo che si è scelto di narrare. Attribuire un tale nobel per la Pace significa, secondo Una, rimuovere cosa è stato della Jugoslavia, rimuovere una parte indelebile di storia europea, e il peso fosco, inconfessabile che l’Unione ha avuto in tali tragedie; in altre parole, significa rimuovere la Jugoslavija stessa da tale unione, renderla in un certo modo uno spettro di se stesso, il fantasma della guerra che preme ai confini, ma che proprio per questo non giace in presenza entro di essi. (No, non giacerà in presenza nell’Unione, ma già i rumori della guerra si fanno sentire alle sue porte, e il Mediterraneo è oggi come sempre terra di profughi e di reietti. Non è forse questo il compito dei militari in divisa che, ormai dieci anni, presiedono le strade delle Città in pace? Non è forse quello di ricordare brutalmente quanto questo spettro possa essere insistente?)
-senza firma- 
L’Unione Europea che si costituisce marca in maniera netta i suoi confini a Est. Ma l’Unione Europea non è l’Europa anche se vorrebbe esserlo in maniera totalizzante. O almeno non è l’unica Europa. Esiste anche un’Europa dell’Est anche se la si vorrebbe a Est dell’Europa. A Est per segnare un confine ancora più forte da proteggere, quello con l’Oriente. L’Europa è priva di una frontiera con l’Asia, anche da qui nasce un’inquietudine circa l’identità. E non è solo la narrazione di sé che respinge nell’oblio quando non è funzionale, ma anche, e soprattutto, la creazione di un’identità che esclude l’Altra, a respingere o eliminare ciò che si vorrebbe identico allo stesso, ma non lo è. E l’esclusione è un gesto molto europeo. La Jusoglavija non poteva far parte dell’Europa Unita, ora dopo aver pagato con il sangue della guerra, le diverse jugoslavije nazionali e nazionaliste possono mettersi in coda per oltrepassare il confine.