L'Amanita muscaria è molto diffusa in Italia, specie al nord, ma malgrado
ciò e malgrado le popolazioni contadine conoscano il fungo da secoli,
pochissimi etnologi e antropologi si sono dati la pena di raccogliere
informazioni al proposito. Solo alcuni etnoiatri (studiosi di medicina
popolare) hanno raccolto, come si vedrà, scarse notizie attorno agli
avvelenamenti accidentali e ai rimedi popolari contro tale calamità.
Assolutamente nulla, invece, si trova sugli altri funghi allucinogeni
che, come riferisce proprio questo libro, crescono anche in Italia.
Di fronte all'impossibilità di conoscere le abitudini popolari sull'uso
dell'Amanita (specialmente su un eventuale uso voluttuario) si sono fate
delle ricerche "sul campo", interrogando i vecchi e, talvolta, alcuni
micologi dilettanti in diverse aree geografiche in cui fosse segnalata
una qualche familiarità popolare con l'Amanita. Malgrado ciò e malgrado,
come si vedrà, in varie regioni d'Italia l'Amanita fosse mangiata, gli
italiani sembrano essere un popolo di quelli che Wasson indica come
profondamente micofobi.
Nota con i nomi di:
- ovolo malefico, uovolacio, agarico moscarico, tignosa dorata
(in italiano)
- cocch velenus, cocch bastard (nel dialetto milanese)
- bolè brut, bolè fauss (nel dialetto piemontese)
- ovol matt (nel dialetto bolognese)
- coco mato (nel dialetto veneto)
È testimoniato che nell'Ottocento, in Francia, l'Amanita muscaria era
diffusamente consumata come alimento previa accurata preparazione che
le toglieva le proprietà allucinogene. Secondo quanto confermano i
micologi nostrani del XIX secolo, essa veniva analogamente usata anche
nella penisola. Antonio Venturini, in due studi del 1842 e del 1856,
conferma che l'Amanita era ben conosciuta dai nostri avi.
Nel lavoro del 1842 scriveva infatti: "Tutti i villici della riviera
benacese e segnatamente quelli di Toscolano, di Maderno, di Gaino e di
altre terre vicine, conoscono quanto quel fungo possa nuocere, se
mangiato senza preparazione: ma non per questo essi lo temono, ché anzi
lo vanno cercando e come fungo di conserva lo preferiscono a tutti gli
altri".
A queste altre località, sulla base di ulteriori e precedenti studi si
aggiunsero:
- provincia di Bergamo (Cima, 1826)
- Gabbiano (MN) e al Bosco Fontana (Bianchi, 1907)
- le Groane a Limbiate; nei corriletti in Lomellina, nel bosco
Rotone di Pavia e anche nel bergamasco, ma assai di rado
(Spadolini, 1890)
- ai Campi Flegrei presso Napoli, dove un contadino, secondo la
testimonianza oculare di F. Cavara, ne raccoglieva per cibarsi
regolarmente
- nei boschi e nelle conifere della Liguria, del Piemonte, della
Lombardia, del Canton Ticino, del Veneto, della Venezia
Tridentina, delle Marche, della Toscana, del Lazio, della
Campania e della Sicilia dove cresce copiosissimo (Bresadola,
1932).
F. Cavara (1897) confermava che in Vallombrosa (Firenze) l'Amaníta
muscaria veniva comunemente consumata e affermava: "Posso assicurare,
per relazione di molti, che in alcuni paesi di Toscana, per esempio
sopra Pontassieve, nel tardo autunno questo agarico viene raccolto in
quantità e messo a purgare in mastelli o bacinelle la cui acqua è
rimutata ogni giorno, e ciò per 10 o 12 giorni, dopo di che viene
ammannito alla stessa guisa degli altri funghi, mangiato e trovato
eccellente. Occorre per ciò fare che la stagione sia fredda".
Tali informazioni sono state verificate direttamente sul campo. Nei
paesi di Reggello, Saltino, Pian di Melosa e Vallombrosa sono state
raccolte alcune testimonianze di anziani abitanti di quei luoghi.
L'ovolo malefico, così lo chiamano correttamente da quelle parti,
era abitualmente consumato dopo debite preparazioni (bollitura con aceto,
conservazione sotto sale, spurgo con acqua corrente). Secondo le
testimonianze, l'uso di cibarsi di questo fungo, durato fino all'inizio
della 2'guerra mondiale, era dovuto unicamente a problemi di ordine
economico.
Mentre venivano venduti sulla piazza di Firenze i funghi migliori e più
buoni (i porcini per esempio), in proprio si consumava l'Amanita
muscaria, perché non c'era altro.
Ma l'uso di questi funghi non ha mai dato problemi di ordine
patologico, né tanto meno ha mai causato decessi. Un'anziana signora
diceva di non aver mai sentito dire che l'uso del fungo avesse causato
vomito, "torpore", ebbrezza o eccitazione mentale.
L'Amanita muscaría veniva raccolta in maggio e ottobre.
Era conservata in "bigonce" (recipienti di legno di castagno) e messe
a spurgare per 30-40-50 giorni. A.Venturi, nel suo lavoro del 1842,
riferiva invece a proposito dell'uso che se ne faceva sul lago di Garda:
"Nella nostra riviera si costuma far bollire l'agarico moscarico in
un'abbondante quantità di acqua, e di metterlo dopo nella salamoja.
Lo stesso si pratica in Russia e in Lapponia". Da tutto ciò sembra
chiaro che l'Amanita muscaria, in Italia, è stata studiata solo sotto
l'aspetto medico-farmacologico e botanico, mentre mancano studi di
carattere sociologico e antropologico.
Sembra che in Liguria, nella zona delle Cinque Terre (località che per
molto tempo è stata culturalmente e geograficamente isolata) i contadini
usassero cibarsi dell'Amanita muscaria avendo la precauzione di togliere
la pellicola rossa che ricopre il cappello. Anche nel bresciano sembra
che si consumasse il fungo dopo averne "squamato" il cappello.
E lo stesso sembra avvenisse nelle vallate bergamasche. Sull'uso
alimentare e non voluttuario dell'Amanita, Paolo Mantegazza nel 1871
precisava: "Tra noi non si è mai studiata l'Amanita come sostanza
inebriante, ma come veleno o come alimento; e le contraddizioni che si
trovano nei diversi scrittori dimostrano la necessità che si
ristudi più profondamente questa questione".
Malgrado tante e concordi testimonianze non è detto che l'Amanita
muscaria, alla stessa stregua di altre droghe potenziali (belladonna,
mandragora, stramonio, cicuta, ecc.) non possa essere stata usata in
tempi a noi lontani anche a fini edonistíci.
I procedimenti empirici inventati dai nostri progenitori che permettevano
un uso alimentare scevro da pericoli di avvelenamenti deve essere stato
preceduto da un contatto con il fungo anche in una dimensione più ampia
di quella semplicemente alimentare. Forse la mancanza di una salda
"memoria collettiva" ha fatto sottovalutare e poi cancellato
esperienze "irrazionali" di ricerca dell'estasi e oggi si possono
solo fare delle supposizioni. In ogni caso, ritrovare le tracce di
eventuali tentativi è un'impresa veramente ardua, se non impossibile.
Sulle esperienze contemporanee riferite nella letteratura micologica basti
ciò che scrivono Arietti e Tomasi "della diretta quanto involontaria
esperienza del professor Valerio Giacomini, proprio al termine dei suo
internamento in un campo di prigionia in Germania durante l'ultimo
conflitto. Approfittando di una certa libertà concessa dalle
sopraggiunte truppe alleate, alcuni suoi soldati pensarono di integrare
le ancor scarse razioni alimentari con un piatto di funghi raccolti nel
vicino bosco, e come gli altri la sera ne mangiò anche il Giacomoni.
Appena coricato, e senza alcun disturbo gastrico malgrado lo stato di
denutrizione, accusò non sgradevoli sensazioni di ebbrezza e di
esilarismo: gli fu subito palese che i funghi ingeriti appartenevano
all'Amanita muscaria, ma da buon conoscitore dei suoi effetti nelle
regioni del nord, non se ne preoccupò, e attese semplicemente di
potersi liberare dei principi attivi attraverso la diuresi.
"Questa nostra tesi trova poi ulteriore conforto in uno scritto del
dottor Teyro, apparso su La Domenica del Corriere, e richiamato dal noto
micologo G. Ferri (1934) che lo commenta brevemente, riportando come
segue le esperienze dell'articolista: "la scoperta non è mia; appartiene
al dottor Gian Batista Grassi di Rovellasca, che, molti anni or sono, ha
fatto degli esperimenti con questo fungo. La cosa mi ha tentato e, tempo
fa, in una giornataccia di malumore, ho scacciato, con 20 grammi di
agarico moscario fresco, ogni malinconia dalla mia mente, conquistandomi
il più assoluto benessere, la più calma sensazione di voluttà, una
grande limpidezza di pensiero e un'intensa volontà di lavorare,
ciarlare, occupare mente e corpo. Una seconda volta ho aumentato
la dose, una terza e una quarta ancora. Alla quarta volta, nello
spazio di otto ore, ho preso circa 100 grammi (dico cento) di muscario
fresco, e questa fiata l'effetto fu maggiore. Ho cantato, ballato,
schiamazzato, riso; ho goduto di un'allegria pazza, sono stato felice.
Ne ho somministrato a parecchi amici e l'allegria di quelle ore in comune
è superiore a qualsiasi descrizione. Il dottor Grassi racconta poi di
aver guarito con una cura di agarico muscario, un individuo che si era
dato a profonda malinconia con inclinazione al suicidio!".
"Dal,canto suo, il Ferri fa cenno nei termini seguenti di un caso
cui si era interessato personalmente alcuni anni prima: "Si tratta di
un falegname abitante a Milano, nei pressi di via Pietro Borsieri il
quale nel pasto del mezzogiorno cu la consueta partita alle carte,
assieme ad alcuni suoi compagni. A un tratto egli protestò perché
qualcuna delle carte da giuoco gli era presentata completamente bianca
(allucinazione muscarinica). Alle obbiezioni dei compagni egli diede
subitamente in ismanie (delirio muscarinico), e distribuì qualche
pugno ai suoi vicini; per cui venne da essi giudicato dapprima
ubbriaco, poi impazzito. Ma chiamato d'urgenza un medico, mentre
si discuteva sul da farsi, l'energumeno a poco a poco si
tranquillizzò. Era cessata l'azione eccitante della muscarina sopra
il suo cervello" (Arietti e Tomasi, 1969).
BIBLIOGRAFIA CITATA
Arietti N. & R. Tomasi, 1969, I funghi velenosi, Brescia, Museo Civico.
Bianchi G., 1907, Micologia della provincia di Mantova, cit.in Ferri G., 1934.
Bresadola G., 1932, Funghi mangerecci e velenosi, Trento, Museo Storia Naturale.
Cavara E, 1897, Funghi mangerecci e funghi velenosi, Milano, Hoepli.
Cima ES., 1826, Relazione e tavola sinottica dei funghi commestibili più comuni, cit. in Ferri, 1934.
Ferri G., 1934, Funghi velenosi sconosciuti o poco conosciuti, Pavia, Natura.
Mantegazza P, 1871, Quadri della natura umana, 2 voll., Milano.
Venturi A., 1842, Studi micologici, cit. in Ferri, 1934.
Venturi A., 1856, Avvelenamenti occorsi nell'autunno del 1855 in diversi paesi dell'Italia superiore per commestione di funghi. Pregiudizi che li occasionarono e modi di prevenirli, cit.in Ferri, 1934.
[Tratto da: Pierluigi Cornacchia, 1980, Notizie storiche e contemporanee sull'uso dei funghi psichedelici in Italia, in: P Cornacchia, I funghi magici, Milano, Editiemme, pp. 103-117.]
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