LE VIGNE DI MILANO
A partire dal trecento, si hanno notizie in merito alle vigne di Porta Magenta, del Quadronno, di san Celso, del Vivaio. E’ Bonvesin de la Riva, poeta dialettale ed appassionato “enogastronomo”, che fa sapere nella Cronica (XIII secolo) che il Milanese produceva più di 600.000 carri di vino (non specificava di quante brente fossero caricati) appunto nel trecento, in un’epoca cioè in cui Milano e il suo circondario non contavano più di 700.000 abitanti. Si ritiene infatti che ogni famiglia possedesse delle vigne! Anche Leonardo da Vinci, pur astemio, aveva ricevuto in dono da Ludovico il Moro una piccola vigna fuori Porta Vercellina, per la grande soddisfazione dei suoi discepoli, specialmente Cesare da Sesto.
Ognuna delle vaste tenute delle case patrizie e nobiliari, produceva all’epoca della vendemmia e vendeva direttamente al minuto. Si parla di un vino frizzante molto simile a quello prodotto sul lago di Como, ed elogiato da B.Bertucci nel suo “Bacco in Brianza”. Anche l’arcivescovo possedeva delle vigne, i cui prodotti godevano della più grande stima. Nonostante Filippo di Spagna nel 1668 avesse abolito l’esercizio delle cantine private, permettendo solo la propria, l’usanza della “vendemmia domestica” proseguì fino al 1866 quando, si abbattè sulle vigne milanesi la tragedia della filossera, arrivata dal nuovo continente tramite un negoziante di vino. In questa occasione morirono la quasi totalità dei vigneti. E’ così sparito quello che il Porta chiamava “el vin nostran, de trincaa col coeur larg e a memoria”.
LE OSTERIE DI MILANO
Leggiamo in un noto saggio di Zezzos pubblicato negli anni ’30 (ristampato dalla libreria Milanese nel 2004): “Si può avere una chiara visione di ciò che erano le bettole…..leggendo “I promessi Sposi”, ove si parla di una certa osteria della Luna, singolare e tipica, simbolo di tutte le nostre osterie scomparse, di cui rimane qualche esempio in Via Brolo, in piazza della Rosa (l’attuale…?-n.d.r.) ove, all’antica Scottùm scendevano ad abbeverarsi tutti i carrettieri, ed in vicolo Santa Caterina, di fianco a San Nazaro……Sino a poche decine di anni fa, c’era nell’allora via Comacina, una osteria con stallazzo celebre fra tutti i cavallanti (i corrieri di allora), per il suo vino , che ognuno, entrando, trovava già bell’e servito nel bicchiere…..sicchè non avevano che da pagare i suoi cinq ghei, bere ed andarsene”; sempre da Zezzos, apprendiamo della passione del Porta per la Cassina dei Pomm, e che il Goldoni, soggiornando presso la Cazzoela di Porta Tosa, apprese molte cose fra cui che “ a Milano non si fanno passeggiate né si mette insieme divertimenti in cui non si discorra di mangiare e di bere”; nonché della passione di Stendhal per la Nos, in Porta Ticinese. Innumerevoli sono e sono state le osterie che prosperano sotto lo sguardo benevolo della Madonnina: si parla di centinaia (malgrado al demolizione dei vecchi quartieri popolari della Vetra e del Bottonuto, loro regno indiscusso). Carlo Maria Maggi, ricorda nel “Compianto di Meneghino”le più celebri, quelle divenute trattorie e quelle ancora oggi esistenti.
IL VINO E IL DIALETTO MILANESE
Il dialetto Milanese (variante del Lombardo occidentale), è pieno di espressioni tipiche sul vino e sull’arte di bere che provano, meglio di tutto la lunga abitudine della Milano popolare alla “gioia del bicchiere”. Eccone alcune:
Cannà : bere alla canna, tracannare; variante: Traccannà;
Cannada: bevuta epica (“gh’ho piccaa ona cannada!”);
Traccannatt: oste;
Baccalitt: osteria; da cui Baccano: rumore;
Cioccà: tintinnare di bicchieri; da cui Cioccà : ubriacarsi, Ciocc : ubriaco, Ciocca: sbronza;
Scoccoratt: beone;
Gajnna: epiteto rivolto dai ragazzini a color che camminano per la strada ubriachi, zigzagando; in generale, l’ubriacone;
Biccer de la staffa: il bicchiere della staffa,l’ultimo bicchiere (dal bicchiere di vino buono che si dava ai postiglioni quando erano già a cavallo;
Bibliografia : Rossano Zezzos, “Vecchie botteghe milanesi” – Ed.Libreria Milanese, 2004;