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INTERVISTA A MARIO TRONTI - 9 AGOSTO 2001 |
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Ora, non si tratta di fare una lezione ai nuovi movimenti dalla cattedra, però bisognerebbe trovare un'interlocuzione che si ponesse lì dentro e a un certo punto facesse fare anche un salto. Questi salti all'interno dei movimenti sono possibili, ci sono stati anche dentro ai movimenti degli anni '60: questo paragone che si fa con il '68 in parte non funziona, in parte però sì. Quelli erano movimenti che erano partiti da determinate cose e poi nel corso del tempo avevano cambiato registro. Partivano da un'impostazione antiautoritaria, antiaccademica, era il movimento studentesco; dopo il '68 e negli anni seguenti frange consistenti, che poi hanno preso anche la guida del movimento stesso, anche nei gruppi, hanno visto che il problema non era quello che si pensava. Il movimento negli slogan passò da "potere studentesco" a "potere operaio", e credo appunto che quello sia stato un salto del movimento stesso.
A proposito di quanto stai dicendo ci interesserebbe approfondire il rapporto tra movimenti e progettualità dei movimenti. La tua analisi viene fuori in termini evidenti rispetto a quanto è successo negli ultimi mesi, in particolare in relazione a Genova: ciò che manca di più è l'esprimere una progettualità che abbia una dimensione più consistente della spontaneità. Questo movimento è stato molto spontaneo nelle forme della partecipazione, ed è stato anche molto spinto da un rapporto che non si può più trascurare, quello con i media che, in assenza di un conflitto grosso, co-creano l'evento. Ciò avviene anche per dinamiche loro interne, nell'ambivalenza di essere imprese capitalistiche ma nello stesso tempo essere altro: contribuiscono quindi anche a creare la costruzione dei movimenti, almeno nella dimensione quantitativa. Se non si fosse parlato per mesi di Genova non ci sarebbe stata una partecipazione così grossa e le cose sarebbero andate in modo sicuramente diverso. L'altro aspetto, contingente al rapporto tra classe e capitale, è che oggi non si dà un conflitto più maturo nei territori, non intesi come il locale bensì come territori produttivi. Questo perché c'è una debolezza effettiva di quella che è la conflittualità di classe. Allora, per esempio, si danno delle ricomposizioni con caratteristiche specifiche all'interno di questi momenti che diventano un evento, sia come forma di radicalità sia come forma di raccolta fisica. Una volta la lotta si costruiva in luoghi specifici, come la fabbrica, ora invece la situazione è molto diversa. La globalizzazione da una parte sta dentro ad una dimensione capitalistica che però non è sganciata da un certo passato, la globalizzazione non viene fuori in questi anni, ha un percorso di lunga durata; invece, una delle cose che è stata significativa di questo passaggio di fase è che sono riusciti ad azzerare o comunque a diminuire notevolmente le forme di conflittualità di classe. Sarebbe dunque importante tornare a riflettere sul nodo del rapporto tra movimenti e loro progettualità, comparandolo anche con esperienze passate: perché oggi non si può sicuramente riproporre ciò che è trascorso, però nello stesso tempo bisogna tenerne conto.
Questo è un tema, infatti sono questi i due versanti, movimento-storia e movimento-finalità, un collegamento indietro e uno in avanti. La nuova forma di movimento è stata brava nell'uso degli strumenti di comunicazione, evidentemente è anche empiricamente una generazione che è nata dentro questi modi della comunicazione e quindi la usa in maniera molto intelligente. Ciò costituisce un limite, ma dovuto a ragioni anche oggettive, delle lotte operaie, che non erano molto abili: avevano i loro canali di comunicazione ma autonomi, erano canali che non sempre poi raggiungevano il grande pubblico, proprio perché avevano il loro percorso, la loro autonomia. Invece, adesso il raggiungere subito nella comunicazione il grande pubblico è una cosa che poi aumenta certo anche quantitativamente il movimento perché lo riproduce in maniera allargata. Anche se c'è chi dice che forse c'è un eccesso di uso di queste cose, addirittura una forma di subalternità, perché tutto si fa in funzione di comunicare più che di ottenere un risultato. Tanto è vero che anche l'organizzazione della protesta di Genova è stata tutta in questa chiave, cioè visibilizzare una cosa, allora annunciare che si aggredisce la zona rossa, e questo dà un input alla comunicazione di un certo tipo. Questa è la differenza dalle lotte operaie, che invece contavano molto sul risultato concreto della lotta, il raggiungere determinati obiettivi, nel contratto di lavoro dove stava scritto che aumentava il salario, diminuiva l'orario, cambiano le condizioni di fabbrica, quindi il raggiungere nella lotta certi obiettivi. Qui non ci sono mai obiettivi in concreto, tranne quello di fare casino, di visibilizzare al massimo lo scontro.
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