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(pag. 8)
INTERVISTA A PIER ALDO ROVATTI - 16 OTTOBRE 2000


Adesso io non posso parlare di tutto perché se no rifaremmo la storia pezzettino per pezzettino, ma il blocco iniziale è questo qua. E quando poi più avanti su certi argomenti (che so, il pensiero debole) si fanno delle discussioni, queste saranno sempre a più voci, tanto è vero che questa dizione, "a più voci", funzionerà come dizione proprio di una rubrica della rivista. Quindi, cosa voglio dire, magari sarà una cosa banale, ma la polifonia, o se si vuole semplicemente la molteplicità delle voci era un tratto distintivo; già c'è fin dall'inizio perché questo gruppo di dieci persone è polifonico se canta bene, sarà cacofonico se canta male, ma comunque è sempre collettivo nella diversità delle persone, non c'è uno in particolare, come per esempio capita ad Aut Aut che è la rivista di Paci per un sacco di anni, è un altro tipo di pubblicazione. Questo per dire che non c'è il leader, non c'è chi scrive l'editoriale; questo lo può scrivere chiunque a turno, e ciò è interessante.
Insomma, io direi che per far capire a un giovane di oggi, ma anche a un vecchio di oggi, cioè a uno che oggi è vecchio ma che non sa nulla di queste cose, perché soltanto un giovane?, insomma a chi non ne sa niente, diciamo a uno di oggi che vuol saperne qualcosa perché è diventato giovane, per esempio, bisogna fargli fare un esperimento mentale: leggere un po' di numeri di Alfabeta (che tra l'altro sarebbe interessante che ricircolasse), ripeto che su questo il libro di Bompiani non serve proprio, e provare a scrivere un articolo come se fosse un articolo di Alfabeta, forse così si capisce che cos'è la rivista. Il nocciolo in sintesi di tutto il mio discorso dovrebbe arrivare lì. Faccio l'esempio vissuto di cui parlavo prima, che poi a parte che sono quelli che si ricordano meglio, ma comunque sono quelli meno astratti. A un certo punto a me viene (cosa che non mi verrebbe mai in mente) di scrivere per Alfabeta una certa cosa. La libertà, io voglio dire questo, la libertà che aveva il tizio che scriveva per Alfabeta rispetto a ciò che aveva da scrivere; cioè non c'è nessun tipo di codificazione più o meno esplicita, uno poi diceva "io non ricevo codici espliciti, però se ce li hai impliciti...". Allora, c'era stata quella centrale atomica russa, Chernobyl, che era esplosa, e allora a un certo punto ci dividiamo i compiti, perché poi nelle riunioni di redazione proprio si diceva "e allora cosa facciamo? che si fa?". Si leggevano con molta cura gli articoli che arrivavano, si era molto spietati nei giudizi, c'erano minimo due giudizi su ciascuno, e i giudizi erano giudizi, si lavorava; c'erano questi dieci pifferi di direttori, poi magari ci sono le mortalità (Eco arrivava dai suoi viaggi all'estero ogni tanto), ma insomma sei o sette lavoravano. Questi sei o sette però si facevano un culo così, perché si leggevano tutte le cose con estrema attenzione, Leonetti segnava in rosso, lui era il più tremendo da questo punto di vista, non passava nulla da lui. Quindi, c'era un bel filtro in sostanza, non avevamo problemi di riempire la rivista, eravamo ricchi da questo punto di vista perché arrivava un casino di roba da fuori, quasi subito. Appena si apre Alfabeta c'è quel bacino di utenza che è estremamente ma estremamente ed estremamente più diffuso di quei nomi che voi state cercando, perché è fatto di una miriade di persone che tutto sommato partecipa e ha qualcosa da dire sulla realtà che li circonda. Si pensi ad oggi, che poco abbiamo da dire e che canali stretti abbiamo per dirlo, anche se Internet sembra promettere un allargamento, poi forse lo è. Allora, a me era venuto in mente di parlare di che cosa? Di che cosa fosse nel quotidiano (ciò voleva dire andando in giro per strada o anche sentendo la televisione) l'effetto Chernobyl. Scrivo dunque questa cartella e mezzo o due cartelle ed è la prima volta che in qualche modo mi metto a scrivere in quel modo lì. E dico "qual è la chiave di scrittura di questa roba?". Allora, sento che non è sufficiente fare la cronachetta, cioè ho le mie ideuzze del piffero: dunque, tiro fuori un riferimento letterario che non dichiaro ma che comunque è del tutto palese e che è questo narratore, Thomas Bern, che mi sembra quello che con il suo linguaggio ossessivo può dare meglio l'idea delle ossessioni in cui la gente sta entrando in quei giorni rispetto all'effetto Chernobyl. E scrivo questa robina che poi diventa un box. Si capisce che sia per me che la scrivo (poi forse rimane un unicum) sia per il tipo di lettura che si ha da parte di un lettore del giornale è una cosa nuova, in cui entrano dentro tantissime componenti. Io mi sono permesso una sorta di apertura letteraria perché ero garantito dalla rivista, non so come dire, io su Aut Aut non la farei mica una cosa così, tanto per intenderci, oppure mi piacerebbe farla ma non ci riuscirei, lì mi sentivo invece con lo spazio di poterci provare.

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