Successivamente sono andato ad insegnare a Modena per ragioni di nuovo organizzativo-politiche, in quanto, avendo responsabilità nazionali in Avanguardia Operaia, dovevo potermi spostare: la scuola serale aveva un gran vantaggio dal punto di vista degli orari, ma non potevo muovermi da Torino. In più AO era interessata alla facoltà di Modena proprio come luogo di elaborazione. Per cui io sono andato lì sostanzialmente per "meriti politici": siccome quelli che insegnavano lì erano compagni, erano stati vicini ai Quaderni Rossi o addirittura dentro, come Salvati, e avevano un po' la coda di paglia perché non avevano fatto il movimento del '68 e invece avevano fatto carriera in università, mi hanno preso. Quindi, mi sono inserito all'università perché era più compatibile con la mia militanza, dopo di che il mio impegno politico è scomparso e sono rimasto lì. Però, quando poi sono stato stabilizzato e quindi la cosa è diventata possibile, nell'89 mi sono fatto mettere in distacco sindacale lavorando all'IRES CGIL qui a Torino, e adesso sono in pensione. Dunque, la mia carriera professionale non ha una sua logica, anche se a un certo punto mi sono trovato a fare il professore universitario in sociologia. Come diceva un compagno mio collega: gran brutto mestiere il professore di università, ma sempre meglio che lavorare! A quel punto la logica era quella.
Secondo te, c'è o c'è stata una specificità torinese nelle lotte e nella militanza?
Nella militanza non so, nelle lotte sì. Cito due aspetti. Una era una specificità che si riflette proprio nella storia del sindacato torinese, per esempio negli anni '70. Torino ha avuto una rottura di continuità nell'organizzazione operaia più drastica che qualsiasi altra città: anche a Milano negli anni '50 la CGIL andò indietro, gli scioperi magari non riuscivano, ma c'era un elemento proprio di continuità organizzativa e non c'era una cesura così grossa. Quindi, il sindacato torinese doveva ricostruire da zero il suo rapporto con la classe. Anche nei periodi di lotta alla Fiat, il primo sciopero non riusciva mai, quindi era sempre una scommessa. In Emilia si aveva una situazione in cui il 90% degli operai era iscritto al sindacato, sapevi che lo sciopero riusciva, spesso non lo facevi, nelle vertenze aziendali a volte non c'era bisogno di farlo perché il padrone sapeva già che lo sciopero sarebbe riuscito. Quindi, ciò non era dovuto a particolari posizioni "di destra" del sindacato, ma al fatto che tu andavi lì con la piattaforma, lui sapeva che lo sciopero sarebbe riuscito e non c'era bisogno di farlo. A Torino è sempre stato molto diverso: non a caso i delegati sono nati qui, in quanto il sindacato di Torino ha dovuto riproporsi il problema dell'organizzazione e del rapporto con le masse, non ha potuto semplicemente coltivare quello che già c'era, rafforzandolo solo. Quindi, le lotte hanno queste caratteristiche meno routinarie: a volte, anche nei periodi di forza, hai degli scioperi che non riescono, e a volte hai invece la classe operaia che scavalca il sindacato. L'altro elemento che riguarda la Fiat, e non Torino in generale, anche se poi influenza il resto, è la composizione di classe, quello che è stato chiamato l'operaio-massa. Già allora ma soprattutto adesso io tendo probabilmente ad avere una visione eccessivamente critico-riduttiva della soggettività dell'operaio-massa. Allargo un po' il discorso. Avendo avuto la fortuna di occuparmi di Fiat con il sindacato fin dagli anni '50 ho potuto misurare il salto di soggettività: andando ai cancelli e parlando quando distribuivo i volantini si capiva ciò che dal '68 in poi si è manifestato a Torino, ti accorgevi proprio dell'emergere di una coscienza di classe, di una spinta anche antagonistica, dunque c'era una conoscenza molto quotidiana. Però, spesso in questo c'era un fondo qualunquista, del tipo che gli accordi, qualsiasi fossero, erano tutti uguali: la Fiat ha fatto degli ottimi accordi, ma venivano tendenzialmente considerati un bidone, l'idea che i sindacati fossero un po' venduti non è mai scomparsa del tutto. Tra l'altro anche la qualità dei dirigenti operai emersi dalle lotte alla Fiat è rimasta bassa, salvo per i casi in cui hanno incontrato degli strumenti di formazione: spesso però queste situazioni, guarda caso, riguardavano operai relativamente più qualificati. Noi abbiamo fatto un po' di formazione con i nostri operai, il sindacato la faceva ma anche in modo abbastanza superficiale, però all'interno di questo c'era per esempio tutto il gruppo che si era raccolto attorno a Ivan Oddone, uno psicologo del lavoro che è stato il primo che fin dagli anni '60 con la CGIL ha impostato la lotta contro la nocività, l'analisi dei nuovi fattori di nocività legati all'organizzazione taylorista del lavoro e ha contribuito all'idea dei delegati in una forma moderna. Gli operai che hanno lavorato con lui avevano livelli molto elevati di coscienza politica. Però, c'era un elemento pesante dell'operaio-massa che era un limite.
|