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INTERVISTA A MARCO REVELLI - 24 LUGLIO 2001 |
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Prima hai parlato del limite insito in una certa visione teleologica e storicistica, critica che per molti aspetti coglie nel segno. E' una visione che appartiene molto a Negri, il quale ha in qualche modo l'idea di una qualche freccia della storia in cui ciò che c'è oggi è comunque meglio di ciò che c'era ieri ed è meno di ciò che ci sarà domani: quindi ogni fase è frutto di una vittoria operaia, un ulteriore passo verso la liberazione e il comunismo. "Empire" (da quello che si è potuto sentire e capire) sembrerebbe riproporre lo stesso modello.
Per lui comunque la liberazione nasce come Minerva dalla testa di Giove: quando arrivi al culmine di questo processo di approfondimento del rapporto di capitale, anche di radicalizzazione delle sue contraddizioni, si produce il rovesciamento. Perché Negri parla (aggiornandolo dentro la reticolarità, dentro l'organizzazione di rete ecc.) dell'anti-impero: questo cresce solo dentro e contro l'impero, la solita logica trontiana del dentro e contro, che è in qualche modo una dialettica della negatività, cioè tanto più il negativo si approfondisce tanto più prepara il suo autorovesciamento. Il che è un grande tentativo di rimanere dentro la razionalità occidentale, molto rispettabile, ma io temo smentito dall'esistenza: cioè, ogni salto di qualità del rapporto di capitale è poi ulteriore distruzione di autonomia, di capacità. Marx diceva che veniva distrutta l'autonomia individuale e si creavano le condizioni di un'autonomia collettiva, ma è lì che fallisce il progetto marxiano, perché c'è un investimento metafisico sul carattere inevitabilmente progressivo dello sviluppo del capitale. C'è distruzione dentro, c'è pura e semplice distruzione. Il '900 a mio avviso non è un avvicinamento alla liberazione, può essere letto come una costante distruzione dei livelli possibili di autonomia dentro logiche di apparato: poi questi apparati esplodono, ma non per questo ti restituiscono autonomia. E quindi l'autonomia è un processo da costruire uscendo con i propri piedi dal mondo delle cose. Che cosa voglia dire uscire con i propri piedi dal mondo delle cose è un grande casino, però non si esce attraverso l'autobus dello sviluppo capitalistico, di questo sono sicuro, lì dentro ti consumi ma non ti avvicini al rovesciamento. Diciamola in un altro modo: attraverso il male non ottieni il bene, non è attraverso un lungo viaggio attraverso il negativo che approdi al positivo. Mentre a me pare che in tutta questa cultura ci sia questa idea che attraverso il male si produce il bene.
Torniamo indietro. Quando tu hai parlato dei tuoi processi di formazione hai sottolineato soprattutto la tua formazione politica, in cui grosso modo le necessità della militanza costruivano anche i punti di riferimento (hai ad esempio citato Tronti, Panzieri ecc.). C'è un'altra tua formazione che è stata quella di diventare persona che anche come attività lavorativa è all'interno di un processo di produzione di scienza? Quali sono stati i processi di studio e di approfondimento per esercitare questa parte della tua vita che non è quella strettamente militante, anche se è poi è ovvio che in parte le due cose si intreccino?
Da questo punto di vista devo dire che io ho fatto una scelta non militante.
Quali sono stati gli ambiti fondativi di questa tua formazione e i tuoi numi tutelari, ossia i punti di riferimento che ti hanno portato verso un certo tipo di formazione piuttosto che un'altra? Ritornando a Negri, ad esempio, si vede che la sua forma di storicismo è legata alle sue origini, al suo formarsi sullo studio dello storicismo tedesco.
Da questo punto di vista io ho un percorso strano, perché la scelta degli argomenti risponde a stimoli militanti se vogliamo. Io ho sempre lavorato su due filoni che solo apparentemente sono molto lontani: da una parte il fascismo, non dal punto di vista della ricostruzione storica in senso proprio, ma dal punto di vista della ricostruzione modellistica, delle sue possibili interpretazioni. Mi sono laureato con una tesi intitolata "Le interpretazioni del fascismo", che rispondeva al bisogno di capire uno dei punti di caduta del '900, cosa diavolo era successo dentro quel tornante della modernità per produrre questo. L'altro filone è invece quello dell'universo della produzione, i modelli produttivi, la fabbrica, l'analisi della fabbrica. Il fascismo l'ho studiato non dal punto di vista strettamente storico, ma di storia della cultura, e invece la fabbrica l'ho studiata con gli strumenti della sociologia, la sociologia del lavoro, o dell'inchiesta, o della storia orale, sono questi i tre aspetti. E' strano, perché come dicevo la scelta degli argomenti nasce da un bisogno politico (non diciamo militante) di risposta; la scelta dei maestri o comunque di quelli che mi hanno dato il metodo è molto ellittica invece, perché nella mia formazione Norberto Bobbio ha avuto un ruolo importantissimo, nel formare l'impianto del metodo, la sua analitica dei processi sostanzialmente, l'interpretazione della modernità tra Hobbes, Locke, Rousseau, Kant, Hegel, questo percorso con una lettura che valorizza la scomposizione analitica dei modelli per leggerli come risposta alle sfide della modernità. Un altro che ha avuto un ruolo importante è Paolo Farnetti, che è morto giovane ma è stato estremamente stimolante, con la sua sistemazione delle teorie sociologiche politocentriche e sociocentriche, il tentativo di ricostruire il pensiero moderno attorno a questi processi. Quindi, io mi sono mosso tra una filosofia analitica di stampo umanistico, bobbiana, e la moderna scienza politica per certi versi, con incursioni in autori che mi affascinavano e che erano ellittici, come Ernesto De Martino e la sua lettura postcrociana del mondo magico, la presenza, le apocalissi culturali e così via, oppure i francesi. Però, sostanzialmente i maestri che mi hanno segnato sono di questo tipo qua, quindi è un impianto più da scienze sociali che non da filosofia idealistica da una parte e storicistica dall'altra.
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