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INTERVISTA A MARCO REVELLI - 24 LUGLIO 2001


Le critiche al tuo libro, "Oltre il Novecento", sono venute tutte da questa sinistra che usa la minaccia del revisionismo come arma di scomunica. Tu parti infatti da quegli autori di destra o comunque ostracizzati dalla sinistra (Jünger, Celine, Bataille ecc.) che sono proprio quelli da cui era partito l'operaismo fin dagli anni '50, che li usò in un'ambivalente chiave di critica radicale del capitalismo e del taylorismo-fordismo, cercando quindi di rovesciare in senso antagonista la loro unilateralità negativa. Le prime due parti del tuo libro sono dedicate al fordismo e a quello che tu, come molti altri, definite postfordismo. In questo senso il fordismo viene identificato con l'organizzazione di fabbrica e della produzione, ciò che in realtà propriamente sarebbe il taylorismo; il fordismo è stata la grande politica capitalistica del porre l'accento sui consumi, del capire che allargando la torta (e quindi facendo accedere operai e proletari a più estese forme di consumo), si ingrandiva proporzionalmente la fetta riservata ai profitti. Da questo punto di vista la nuova fase, caratterizzata da un ancor maggiore rilievo dell'aspetto dei consumi (da cui anche un apparente potere dei consumatori), sembrerebbe un'ulteriore espansione della fase precedente, dunque un iperfordismo. D'altra parte, al fordismo-taylorismo si fa spesso corrispondere un operaio che usa le mani senza le altre facoltà esclusive del vivente-umano (cognitive, intellettuali, timiche, emozionali ecc.). E' alquanto dubbio che sia mai esistito un periodo del genere, in cui la scimmia fosse in grado di fare le automobili e attivare il processo produttivo: quindi, se oggi è indubbiamente cambiata la composizione delle facoltà del vivente-umano prevalentemente richieste dal processo produttivo, ciò non vuol dire che prima queste capacità non venissero erogate. Infine, il fordismo viene spesso (come fai tu) identificato come la rigida razionalità da cui nulla può sfuggire, mentre la grossa potenza del capitalismo fordista è stata al contrario la capacità di fare dell'autorganizzazione operaia, dell'informalità, dei conflitti, delle lotte, finanche di quelle più radicali, un ambivalente motore del proprio sviluppo.


Tutti questi termini sono convenzioni, soprattutto quando parliamo di cesure o di fratture storiche è sempre possibile portare un'altra buona dose di ragioni per sottolineare invece ciò che continua, che permane. A ben vedere non c'è stata nemmeno una rottura netta tra prefordismo e fordismo, per decenni le società occidentali sono vissute con delle microisole di fordismo-taylorismo in contesti addirittura agrari: l'Italia è diventata un paese industriale-agrario anziché agrario-industriale a partire dalla fine degli anni '50, nonostante che alla Fiat ci fosse già un protofordismo con il sistema Bedaux e così via. Questo per dire quanto noi ci muoviamo in un contesto di grande semplificazione dei termini, tagliamo con l'accetta e andiamo ognuno a cercare i punti di radicale rottura o di continuità a seconda delle tesi che vogliamo sostenere. Io credo però che un punto di radicale rottura sia possibile trovarlo e questo punto poi in parte sovradetermina gli altri che citavate: il fatto cioè che il fordismo era un sistema insieme di organizzazione produttiva e di articolazione sociale (il fordismo è questo, non è solo fabbrica e non è solo società, è taylorismo più keynesismo se vogliamo) che si basava sull'ipotesi di una illimitata espansione dei mercati. O se vogliamo, un'illimitata estensione dei mercati intesi in tutte le loro articolazioni, mercato delle merci, mercato delle materie prime, mercato del lavoro. Nel fordismo l'idea è quella di un mercato delle merci disponibile ad assorbire tutto ciò che il produttore è in grado di produrre e di un mercato del lavoro disponibile a fornire una manodopera infinitamente sfruttabile o infinitamente incorporabile dentro i dispositivi di disciplinamento razionali della fabbrica, e una razionalità non turbata da nessun fattore di disordine, che sia il disordine del mercato o che sia il disordine della rivolta degli uomini rispetto al dominio delle macchine. Dopo di che occorrevano dei mezzi per ottenere questo: le politiche keynesiane erano un modo per far affluire potere d'acquisto a un mercato che era portatore di bisogni ma non di massa monetaria per soddisfarli, e allora redistribuzione da parte dello Stato; l'apparato dei capi in fabbrica, il disciplinamento, la repressione ecc. erano il modo per incorporare gli uomini alle macchine. Ma l'idea era che in fondo non ci fossero limiti al dispiegarsi di questo modello che era anche quello che incorporava la razionalità strumentale pura. Questo faceva sì che si poteva immaginare una produzione che si pianificava a lungo nel tempo, che si poteva immaginare un sistema di mediazioni sociali che sulla redistribuzione fondava la legittimazione complessiva del sistema, il modello socialdemocratico in senso forte, e che l'apparato produttivo potesse continuare ad essere un apparato di tipo meccanico, rigido e formalizzato, con la formalizzazione e la dissoluzione di ogni elemento di formalità, compresa la dissoluzione di ogni elemento di informalità, compresa la soggettività degli uomini, che ciò potesse svilupparsi all'infinito. Questo secondo me è il fordismo.

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